Il teologo più fine tra i Padri sinodali: il Vescovo di Roma


 BergoglioMetro

Nei commenti che in queste tre settimane si sono susseguiti a proposito degli interventi dei “padri sinodali” – sia nell’Aula sia nei “circuli minores” – è sfuggita per lo più una caratteristica davvero decisiva del magistero di Francesco. Si è detto, infatti, che i Vescovi tedeschi, o quelli francesi, o altri ancora, avevano di volta in volta il “monopolio” della riflessione teologica. Anche la “soluzione” trovata per la redazione del testo finale è apparsa derivare, in modo decisivo, da una mediazione “dottrinale” introdotta proprio dal “circulus” germanico.

Questo, tuttavia, riguarda una “forma” del sapere teologico che risponde a istanze ed esigenze del mondo tradizionale. Non è un caso, infatti, che la “via discretionis” – o di “foro interno” come è stata esplicitamente chiamata nella Relatio – permetta di uscire dagli imbarazzi di una “impossibile apertura”, ma lo faccia guardando più “indietro” che “avanti”. Anche l’uso che si è fatto del testo di FC 84 è assai prezioso e acuto, ma non contiene esplicitamente nulla di ciò potrà essere: sblocca il sistema, ma non indica in nessun modo “verso dove” andare.

Il “pensiero sistematico” è stato dunque impiegato, prevalentemente, come una forma di “retorica ecclesiale” – nobile, ma già acquisita – per cui si usa Tommaso o Giovanni Paolo II per uscire da quello stallo che proprio la “forma tomista” e “neotomista” avevano determinato nella dottrina e nella pastorale matrimoniale.

Pur non mancando eccezioni meritevoli di grande attenzione – una fra tutte quella di Vesco e delle sue lucide riflessioni – si è dimenticato che tra tutti i discorsi pronunciati sono proprio quelli di Francesco a rappresentare – sistematicamente – la novità più significativa. Sottolineo che la loro novità sta proprio nel profilo teologico e sistematico nuovo che propongono e che accompagnano con pazienza e con audacia.

Gli ultimi due esempi di questo “magistero teologico” si trovano nelle sue parole di ieri e di oggi, ossia nel discorso di chiusura del Sinodo e nella Omelia della messa di stamattina, a S. Pietro. In entrambi i casi noi assistiamo ad un vero e proprio evento di “risignificazione” della tradizione: con fedeltà al testo (magisteriale o biblico) ma con libertà e con ardita ricostruzione sistematica, Francesco rilegge la tradizione “uscendo per strada”, non “restando al balcone”.

Per questo il teologo più fine e più audace del Sinodo è stato Francesco. Su questa stessa linea mi sembra di poter leggere in questi giorni una intervista e da un libro.

L’intervista è quella rilasciata da Massimo Cacciari, quest’oggi, per La Stampa (“Non vincono gli atei di sinistra, ma la strategia gesuita unita alla tradizione mistica” a cura di di G. Galeazzi), dove il filosofo veneziano puntualizza a ragione la profondità della posizione di Bergoglio e il suo attingere alla tradizione gesuita e mistica. A me pare che si possa rilevare in Bergoglio una “finezza teologica” per lo più confusa con una semplice “sensibilità pastorale”, che in questo caso non è sufficiente a spiegare la potenza della parola e del pensiero.

Il libro che vorrei citare, invece, è appena uscito e si intitola Dio non si stanca. La misericordia come forma ecclesiale. L’autrice, Stella Morra, che insegna teologia fondamentale alla PUG, propone una rilettura “sistematica” del concetto di “misericordia” in Francesco e nella Chiesa di domani. Credo che in questo libro si trovi una chiave di lettura molto interessante per interpretare anche questo Sinodo appena concluso. Con “misericordia” Francesco non sta introducendo una variante “buonista” nella tradizione cattolica, ma mira a riportare in equilibrio la “forma cattolica” di rapporto con Cristo, dandole una chiave di lettura complessiva. La “Chiesa in uscita”, l’”ospedale da campo”, il “campo profughi” sono formule felici di un riposizionamento tra Chiesa e mondo, ed esprimono una modalità di ripensare la fede nel mondo post-moderno, con nuovi equilibri necessari – e faticosi – tra “libertà”, “grazia” e “autorità”.

Francesco fa parlare la tradizione con “nuove parole”: egli stesso le inventa, con una creatività inesauribile e quasi incontrollabile, di cui egli appare più “strumento” che “autore”. Non più tardi di stamattina, sotto la forza del testo evangelico su Bartimeo, il papa ha elaborato – sistematicamente, lo ripeto – due categorie di grande forza per descrivere “atteggiamenti distorti” nei confronti della tradizione: la “spiritualità del miraggio” e la “fede da tabella” indicano due scivoloni nel rapporto con Cristo, che rischiano di apparire “ovvi” e quasi “consigliabili” per i discepoli…esattamente come, ieri, nel discorso conclusivo nell’Aula Sinodale, Francesco smascherava le forme della “obbedienza alla tradizione” che scambiano lo spirito con la lettera, gli uomini con le idee, la apparenza con la sostanza.

In breve, Francesco sta rinnovando non solo il papato, la Chiesa e la pastorale, ma il modo di “fare teologia”. Lo fa con un impegno e una dedizione del tutto straordinaria. E non perde occasione di distinguere dove siamo abituati e confondere e di unificare dove siamo abituati a distinguere. Si capisce che qualcuno patisca per questo travaglio. Ma è il solo modo con cui, 50 anni dopo il Concilio Vaticano II, viene rimessa al centro la “sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei”: nutriente e feconda come la Parola di Dio, cui è restituita una autorità vitale, sorgiva e travolgente, prima di ogni mediazione dottrinale e disciplinare.

Francesco è teologo fine perché sa di doversi collocare alla radice stessa della dottrina e della disciplina, del matrimonio come della Chiesa. Abita quel luogo – mistico ed elementare – dove risuona una parola più libera e più esigente, alla quale fanno eco, quotidianamente, le sue parole semplici e ispirate, i suoi gesti disarmanti e profetici.

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