Il Vescovo Brambilla e il Vaticano II


Il Vescovo Brambilla  e il Vaticano II come bussola

Tra i diversi libri apparsi negli ultimi mesi, per celebrare e commentare i 50 anni dall’inizio del Cancilio Vaticano II, vorrei segnalare oggi un piccolo, ma prezioso volume, dal titolo: Teologia dal Vaticano II. Analisi storiche e rilievi ermeneutici (Cinisello Balsamo, San Paolo, 2012), frutto degli ambienti teologici bergamaschi della Scuola di Teologia del Seminario di Bergamo, coadiuvati dalla Fondazione Papa Giovanni XXIII.

Tra i diversi saggi che compongono il volume vorrei richiamare l’attenzione sul primo, che apre la rassegna, e che è firmato dal Vescovo e teologo milanese Franco Giulio Brambilla. Da questo testo (intitolato Il Concilio Vaticano II, “bussola” per la Chiesa, alle pagine 11-25) vorrei riportare alcuni brani che aiutano a sintonizzare il lettore in modo singolarmente efficace sul senso del Concilio Vaticano II. Particolarmente pregevole è la “parresia” con cui il vescovo esprime autorevolmente il “sensus fidei” e lo elabora con argomenti teologici aperti e sinceri. (I numeri alla fine delle singole citazioni indicano i numeri di pagina del testo).

Il Concilio Vaticano II, “bussola” per la Chiesa

di Franco Giulio Brambilla +
(brani scelti)

“I Concili…sono un atto di tradizione vivente. In quanto atto di “tradizione” il Concilio torna alle origini a partire da una domanda presente, e in quanto atto “vivente” la ripresa dell’inizio è un gesto nuovo di discernimento dell’epoca attuale” (11)

“Il testo della Gaudet Mater Ecclesia, diventato giustamente famoso, indicava lo stile del concilio nella sfida ai ‘profeti di sventura’:

Essi non sono capaci di veder altro che rovine e guai; vanno dicendo che i nostri tempi, se si confrontano con i secoli passati, risultano del tutto peggiori e arrivano al punto di comportarsi come se non avessero nulla da imparare dalla storia, che è maestra di vita, e come se ai tempi dei precedenti Concili tutto procedesse felicemente quanto alla dottrina cristiana, alla morale, alla giusta libertà della Chiesa

E di seguito il papa aggiunge, con uno scatto di speranza: ‘A noi sembra di dover risolutamente dissentire da codesti profeti di sventura, che annunciano sempre il peggio, quasi incombesse la fine del mondo’” (12)

“La prima eredità del concilio è quella di una Chiesa che passa da una comunità del “sentir messa” a una Chiesa che “celebra”. La Chiesa ritrova la centralità della domenica e prega nella sua lingua madre. Non per nulla questa è stata forse la scelta che ha influenzato profondamente il corpo ecclesiale e che dopo il concilio ha lasciato i postumi più profondi. In questi ultimi anni ne sentiamo ancora i brividi. Non è un caso che ci sia stato e ci sia accanimento proprio su questo punto. Che cosa ha significato la traduzione della liturgia nella lingua madre di ciascun popolo? E’ solo una operazione che rende comprensibili il  modo e il contenuto della preghiera? […]  Proprio su questo aspetto voglio fare il primo esercizio di memoria, significativo anche per la Chiesa d’oggi: dobbiamo riconoscere che, nonostante le intemperanze e le stravaganze dei primi decenni, la Chiesa che celebra, cioè la actuosa participatio della comunità credente, è una realtà bella, armonica, profonda, spirituale, che alimenta la vita personale e la preghiera comunitaria. Il senso della celebrazione e della domenica sta gradualmente passando a essere percepito come il centro della vita spirituale e pastorale” (17)

“Su una cosa, però, vorrei richiamare la vostra attenzione. Forse non è stata ancora notata la cosa più sconvolgente. La riforma liturgica ha significato che le comunità e le persone pregano nella propria lingua: ma questo non è un fatto indolore, che riguarda solo il comprendere e il partecipare al senso del mistero celebrato. Non credo sia solo questo: ciò che trasforma più in radice la spiritualità e l’azione della Chiesa è il fatto che pregare con la propria lingua, meglio ancora ricevere il dono di Dio che è la Pasqua di Gesù attraverso i propri linguaggi (non solo la parola, ma il gesto, l’immagine, la musica, le diverse presenze ministeriali ecc.) muta radicalmente il nostro rapporto con il mistero di Dio. Dopo oltre un millennio d’incomprensione del senso del mistero celebrato, che certo ha prodotto stupende forme sostitutive (che forse hanno alimentato più il senso del “misterioso” che del “mistero” cristiano), ora preghiamo con il tessuto della nostra lingua. Con essa Dio si fa prossimo nell’alfabeto della vita umana, il cristianesimo si fa domestico, la liturgia diventa culmen et fons, condizione di verità della fede praticata, con cui offriamo i nostri corpi (la vita quotidiana) come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio: questo è il nostro culto spirituale (Rm 12,1)” (18)

“La Chiesa del concilio è quella che ha riaperto lo scrigno della Parola: questa è la seconda grande eredità del concilio. Dei verbum religiose audiens: una Chiesa che ascolta!” (19)

“Dopo quattro secoli di digiuno della Parola, questo pare essere il frutto più rivoluzionario del concilio. Pensiamo, invece, a tutti i commenti alla Parola biblica antichi e medievali, fino alle soglie del moderno, anche se questo non significa che dopo Trento essa sia mancata nella liturgia e nella teologia; ma spesso non era presente nella forma fresca e tonificante dell’accostamento personale e comunitario.” (20)

“Dovremmo fermarci qui per molto tempo, per dire tutti i frutti di questa seconda eredità del concilio. Qui è apparso evidente il senso della Parola di Dio detta in linguaggio umano, il carattere storico, salvifico e personale della rivelazione restituito da Dei Verbum. E che deve pervadere con il suo logos i nostri linguaggi di oggi. In tal modo la liturgia nella nostra lingua, in questa seconda eredità, riceve un ampliamento di orizzonte insospettato. Non si tratta solo di pregare nella nostra lingua, ma di far risuonare la parola di Dio fatta carne nei nostri linguaggi di oggi” (20)

“In tal modo quella lingua che attraverso la liturgia ha aperto al contatto vivo col Mistero della Pasqua, si alimenta alla rete di significati, di immagini e di incontri che sono mediati dalla Parola letta nella e con la Chiesa” (21)

“La terza eredità del concilio è stata la ripresa dell’immagine comunionale e comunitaria della Chiesa: come dice lo slogan un po’ frettoloso, dalla Chiesa societas organica alla Chiesa comunione…Anche qui dobbiamo riconoscere che questa plebs adunata ha dato molti frutti nel dopo-concilio. Prima potevamo forse dire che le comunità cristiane avevano molto più popolo, molta più gente, ma erano quasi come una grande massa: quelli che si distinguevano anche tra i laici – e ce n’erano anche prima del concilio! – erano, infatti, cristiani un po’ fuori serie. Dobbiamo anche qui fare memoria grata di una grande e preziosa eredità. Dopo il concilio abbiamo visto apparire all’orizzonte cristiani nuovi, anche se forse sono ancora un po’ inesperti e ingenui nel loro protagonismo: lo sterminato numero di catechisti e catechiste, vera sorpresa del postconcilio, i ministri liturgici, l’incalcolabile esercito della Caritas e del volontariato cristiano, i membri dei consigli pastorali, i laici di Azione Cattolica, i diaconi permanenti, gli animatori di pastorale giovanile. […] Pregare nella nostra lingua per incontrare il mistero di Dio, annunciare la parola di Dio nella storia di Gesù attraverso i linguaggi del proprio tempo, assume ora la figura di quei credenti che con il senso della Chiesa hanno detto il Vangelo nel tempo.” (22-23)

Gaudium et spes è stata per certi versi un testo liberatorio, perché ha posto al centro dello sguardo della Chiesa il mondo, forse sarebbe meglio dire l’uomo. Ha tentato cioè di superare la cronica distanza tra coscienza cristiana e mondo moderno, che si era espressa nell’atteggiamento antimoderno della neoscolastica, forse cadendo in qualche tratto di ingenuo irenismo.” (24)

“La scelta pratica del concilio di far pregare nella propria lingua si è rivelata e si manifesterà sempre più di grande importanza: forse lo ‘stile pastorale del concilio’ delinea qui il suo arco più importante. Dalla liturgia pregata all’ascolto della Parola, dal luogo ecclesiale alla destinazione agli uomini, lo ‘stile del concilio’ deve far accadere sempre più l’insondabile incontro tra il mistero santo di Dio e la libertà degli uomini. Tutte le altre discussioni sull’ermeneutica del concilio, pur sante e giuste, corrono il rischio di essere stucchevoli e fuorvianti.” (25)

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