Il “volto” della conversione
III Domenica di Quaresima – C
Es 3,1-8.13-15; 1Cor 10,1-6.10-12; Lc 13,1-9
Introduzione
Dopo le prime due tappe del tempo di Quaresima, che presentano uno sviluppo simile nei tre cicli liturgici (tentazioni/trasfigurazione), con la III domenica inizia in senso stretto il percorso specifico che ogni ciclo liturgico intende far percorrere ai credenti nel loro itinerario verso la Pasqua. Nella III domenica del ciclo C, il brano evangelico ci immette nel tema proprio della Quaresima di quest’anno: la penitenza/conversione.
Nella prima lettura troviamo la narrazione della vocazione di Mosè: l’episodio del roveto ardente. Il riferimento, in questa domenica, è dunque ad un’altra tappa fondamentale della storia di Israele, cioè la liberazione dalla schiavitù in Egitto. Ciò che di questo brano possiamo sottolineare è innanzitutto il volto di un Dio che si lascia raggiungere dal grido degli oppressi, e si prende cura di loro. Dio ascolta per prendersi cura del suo popolo. Il suo stesso nome, rivelato a Mosè, indica questa sua caratteristica di essere presente nella storia del suo popolo per liberare e salvare.
Paolo nella Prima lettera ai Corinzi (II lettura) ci invita a guardare ai fatti della storia della salvezza come ad un “esempio”. In questo caso dobbiamo intendere il termine “esempio” (in greco typos) in senso forte: esso sta ad indicare che la storia che noi oggi viviamo non è altra cosa da ciò che hanno vissuto i padri nel loro rapporto con Dio. La nostra storia è “in comunione” con quegli eventi di salvezza nei quali Dio si è mostrato liberatore e salvatore.
Riflessione
Prima di cogliere nel testo del Vangelo di Luca alcuni tratti di questa importantissima dimensione della spiritualità ebraico-cristiana, dobbiamo fare una premessa. Noi quando sentiamo la parola “penitenza”, subito pensiamo a qualcosa di gravoso. Per noi “penitenza” deriva da “pena”. Si tratterebbe quindi di qualcosa di gravoso, che noi dobbiamo fare per “espiare” le nostre mancanze, il nostro peccato. Non è così però nei testi biblici e nella liturgia! Infatti il termine penitenza traduce l’ebraico teshubah e il greco metanoia, termini che indicano con sfumature differenti la “conversione”, il “ritorno”, per il greco il “cambiamento di mentalità”. Quindi penitenza non significa ciò che normalmente noi pensiamo, ma indica la “conversione del cuore”, il “ritorno a Dio”. In fondo, si tratta dell’annuncio che attraversa la storia di Israele, del messaggio di tutti i profeti, che allo stesso modo apre il ministero di Gesù (Mt 3,2). Questa stessa parola raggiunge anche noi, nel nostro itinerario quaresimale.
Ora possiamo accostare il brano del Vangelo di Luca per scoprire in esso il “volto” della “conversione”.
Se non vi convertite
Tutto parte da una notizia di cronaca che viene riferita a Gesù: una sciagura e una violenza capitata ad alcuni galilei, che probabilmente si erano ribellati al potere dei romani. Un fatto di cronaca come tanti, al quale Gesù ne aggiunge un secondo: il crollo della torre di Siloe che provocò la morte di alcune persone. Due fatti di cronaca, come ne riferiscono tanti i notiziari e giornali dei nostri giorni. Di fronte a questi fatti, Gesù coglie l’occasione per un insegnamento sulla conversione.
Quando accade una sventura, quando qualcuno è toccato dalla malattia e dal lutto, spesso anche noi abbiamo la tentazione di attribuire questi fatti ad una “punizione” divina. Tante volte sentiamo la reazione: “ma cosa ho fatto di male per…?”, “ma perché Dio…?”. Gesù invece ci insegna a guardare la storia, i fatti che accadono nella vita degli uomini e delle donne, in un modo differente e più profondo.
Di fronte a questi fatti egli afferma due cose. La prima è che coloro che sono vittime di sventure e di violenze non sono più peccatori degli altri: ciò che è accaduto non è punizione del peccato. Così Gesù libera la storia dell’umanità da una visione errata della presenza di Dio, che ne sfigura il volto. La storia ha una sua “autonomia” e i fatti che accadono non sono interventi di Dio per punire o per premiare. La seconda cosa che Gesù afferma consiste nell’invitare i suoi ascoltatori a leggere la storia come un invito alla conversione. I fatti che accadono nella storia non sono “punizioni” o “premi” di Dio, ma occasioni per l’uomo di ravvedersi, potremmo dire di destarsi dal sonno. Gesù invita i suoi discepoli a saper discernere ciò che accade, invita a leggere la storia non come semplice cronaca, ma come occasione per cogliere il senso della vita e dell’esistenza umana.
Questo è quindi il “volto” della conversione visto “dalla parte dell’uomo”: saper leggere ogni istante della nostra storia come un’occasione per aderire a Dio e per lasciare i sentieri che conducono lontano da lui, i nostri idoli. I fatti che accadono non devono diventare occasione per giudicare gli altri o se stessi: piuttosto vanno letti come segni capaci di farci cogliere una dimensione diversa del tempo e della vita.
Lascialo ancora
Dopo aver parlato della necessità della conversione e di leggere la storia come invito alla conversione, Gesù continua il suo insegnamento su questo argomento raccontando una “parabola”: Un tale aveva un fico piantato nella sua vigna…
C’è un fico piantato in una vigna. La vigna, nell’Antico Testamento, è certamente immagine del popolo di Israele. Spesso si afferma che per l’infedeltà a YHWH il popolo è diventato come una “vigna infruttuosa”. Basta pensare al celebre canto della vigna di Isaia (Is 5,1-2). In Geremia leggiamo: «non c’è più uva nella vigna né frutti sul fico» (Ger 8, 13).
Qui si parla di un padrone che ha un fico nella sua vigna, e su tale fico non trova mai i frutti che cerca. Allora chiede al vignaiolo che tagli il fico, perché non occupi inutilmente il terreno della vigna. A questo punto abbiamo l’intervento del vignaiolo. Un intervento nel quale possiamo scorgere l’agire di YHWH con il suo popolo e con noi. Il “volto” della conversione “a partire da Dio”!
Noi saremmo tentati di identificare Dio con il padrone della vigna. Ma come sempre dobbiamo stare attenti a non leggere una parabola come se fosse un’allegoria, nella quale ogni elemento deve avere il suo significato simbolico. Qui il comportamento di Dio è “raffigurato” dal vignaiolo – anche in Gv 15 è così: il Padre mio è l’agricoltore – che, nonostante l’infruttuosità duratura del fico, invita il padrone ad avere “pazienza” ancora per un anno. Dio si mostra longanime: e questo è il fondamento della possibilità della conversione dell’uomo.
Il testo si sofferma poi a descrivere con accuratezza i gesti che il contadino intende compiere per far fruttificare il fico: «io zapperò intorno a lui e io metterò il concime». Sono dei gesti di cura, simili a quelli carichi di affetto che descrive Isaia: «Egli la vangò, la liberò dai sassi e la piantò di viti eccellenti, in mezzo ad essa costruì una torre e vi scavò anche un tino; attese poi che facesse uva…» (Is 5,2). In questi gesti di cura e nell’attesa viene descritto l’agire di Dio nei confronti del suo popolo e dell’umanità. Dio non è nella parabola colui che, riguardo al fico, dice “taglialo”, ma è il vignaiolo che dice “lascialo ancora un anno”. È ancora una volta il Dio che si prende cura quello che ci viene raccontato dalle parole di Gesù, in continuità con il Dio dell’Esodo (I lettura).
Nel padrone che dice “taglialo” potremmo forse vedere la nostra immagine di Dio, quella medesima immagine che avrebbe permesso di leggere i fatti di cronaca riferiti in precedenza come delle “punizioni” di Dio per il peccato dell’uomo. Gesù nega questa immagine di Dio in modo talmente deciso che il vignaiolo non dice nemmeno “se non porterà frutto, io lo taglierò”, bensì “tu lo taglierai”. È la nostra immagine di Dio che ci sradica dal terreno della vigna, non il Dio di Gesù, che invece è longanime e attende il nostro ritorno (cf. Lc 15, brano evangelico della IV domenica di Quaresima C)!
Il “volto” della conversione
Il Dio al quale Gesù ci chiama a convertire il nostro cuore e il nostro sguardo sulla storia è colui che lascia tempo, un Dio paziente che dissoda il terreno e lo concima; un Dio che “perde tempo per noi”, secondo un’espressione di Karl Barth. In Gesù, infatti, Dio per primo “si converte” a noi, ci viene incontro, perché anche noi “ci convertiamo” a lui. Gesù ci rivela nella sua Pasqua che «se il grano di frumento, caduto per terra, non muore, resta esso solo. Ma se muore, porta molto frutto» (Gv 12,24). Non solo, quindi, dissoda il terreno e lo concima perchè il fico porti frutto: ma lui stesso diviene seme gettato nel solco della terra “della sua vigna”, che egli ama e di cui egli si prende cura, perché quella terra – che è la terra di Israele e dell’umanità – porti infine molto frutto.
Questo è l’annuncio che ogni anno la Chiesa fa nel tempo di Quaresima: simbolicamente la Quaresima è proprio il tempo che Dio non si stanca mai di concedere, perché l’uomo possa convertirsi e soprattutto ritornare dalle sue false immagini di Dio, presupposto di ogni vera conversione.
Matteo Ferrari, monaco di Camaldoli