IL VUOTO E LA LEGGE: RECALCATI E LA PASQUA (di Andrea Ponso)


Andrea Ponso interviene nel dibattito sollevato dall’articolo di Recalcati sulla Pasqua del 3/4/2021. Valorizza l’orizzonte lacaniano in cui si muove il ragionamento di Recalcati, portandone alla luce presupposti e prospettive, insieme ad uno scavo prezioso nelle dinamiche su cui è intessuta la comprensione ebraica della Legge. 

sepolcrovuoto

 

IL VUOTO E LA LEGGE: RECALCATI E LA PASQUA

di Andrea Ponso
L’articolo che Massimo Recalcati ha dedicato alla Pasqua solleva una serie
di questioni che riguardano sia i contenuti della sua proposta interpretativa,
sia la “posizione” nella quale si pone come analista lacaniano: la
“posizione dell’analista” è infatti qualcosa di molto importante, direi
centrale, nella pratica psicoanalitica, soprattutto quando diventa, ed è già
un paradosso, pubblica. Potremmo riassumere tale posizione con un’altra
categoria lacaniana che è quella del “soggetto presupposto sapere” che, pur
essendo necessario all’instaurazione del transfert analitico, non deve mai
essere assunto se non come “sembiante”, poiché il “posto” dell’analista è in
realtà un posto “vuoto”, forse proprio un sepolcro vuoto. Scrive Lacan:

“Bisognerebbe che l’analista avesse spogliato l’immagine narcisistica del suo Io da tutte quelle forme del desiderio in cui si è costituita per ridurla alla sola figura che, sotto le loro maschere, la regge: quella del padrone assoluto, la morte”. (J. Lacan, Varianti della cura-tipo, in Scritti I, p. 342)

E’ proprio nell’avere, forse volutamente, mancato tale confronto con la
morte e il vuoto che la sua analisi si muove verso una promessa di
pienezza e di positività della “vita” che diventa vaga e facilmente accettata
sia dai lettori comuni che da una certa parte della stessa intelligenza
cattolica. L’uso di termini come “desiderio”, “godimento” e “legge”
aprirebbe invece il campo ad una complessità davvero imponente, mentre
Recalcati, che ben conosce tale complessità, sembra approfittare dell’uso
corrente e generico di tale terminologia, così come di quella religiosa
ebraico-cristiana. Il contributo che segue, quindi, non vuole essere
un’analisi circostanziale e precisa ma, piuttosto, un rilancio e uno stimolo
all’interrogazione e all’immersione in tale complessità armonica e
disarmonica insieme.
La visione lacaniana del soggetto come determinata dal significante
dell’Altro e, quindi, come mancanza e continuo rimando e slittamento, fa si
che quest’ultimo sia “una proprietà del significante”, “alla berlina del
significante” – vale a dire un “trauma” del significante e della sua
imprendibile fluidità. Eppure non è tanto questa fluidità il problema
traumatico quanto, piuttosto, il suo possibile blocco, che concretizza e
rende corpo la mancanza stessa, paradossalmente, come un grumo
ingestibile, continuamente rifiutato, “sputato fuori” e differito.
A fare trauma è non il rimando e la mancanza, ma quando quest’ultima si
incarna in quanto mancanza e non più come rimando ad altri significanti:
in questo caso, non è più possibile quel meccanismo che ci tiene lontani
dal vuoto della non risposta e della stessa morte come passaggio pasquale e
interrogazione infinita, dal faccia a faccia con la mancanza di una risposta
in termini di significato o di legge definitiva e automatica che risolva la
vita. Lacan sostiene che l’angoscia si sviluppa “quando viene a mancare la
mancanza”: si potrebbe allora parlare di un desiderio divino, nella
relazione tra l’uomo e Dio, che sia capace di non cadere né nel rimando
infinito del significante come risposta sintomatica difensiva, né
nell’angoscia oggettivante del significante che incarna la mancanza
bloccandone lo scorrimento e la ripetizione – anche se entrambe queste
posizioni devono essere incontrate progressivamente nell’atto analitico.
Del resto, un Dio (e una Legge) che forniscano risposte principalmente sul
piano dei significati e dei concetti sarebbe un Dio che si limita, che si
delimita e si riduce alla convenzione del codice linguistico in cui la
contrattazione dei significati è una cosa solamente umana che non riesce
mai a dare conto della singolarità incarnata del soggetto e della
trascendenza del divino. Eppure, l’uomo, in prima istanza, cerca questa
risposta: biblicamente, potremmo dire che si tratta dell’uomo dell’esodo
che mantiene la nostalgia dell’Egitto, di una cattività e di una schiavitù in
fondo comoda e consolatoria, fatta appunto di significati forniti, come
direbbe Lacan, in forma di “pappa” – contro la fame e il disorientamento
del deserto esodico. Come nell’episodio biblico della manna, il pericolo è
sempre quello di dimenticare l’apertura dell’interrogazione che la manna
stessa, nel suo senso ebraico (man’hu: che cosa è?) ci ricorda. E tale
interrogazione è, nella prospettiva ebraica, il perno vivente della stessa
Legge, come ci insegna il Talmud. Quando tale risposta, in questa forma,
non viene fornita, allora, come un rammendo al vuoto della non risposta,
sorge il sintomo e la stessa funzione riparatoria e idolatrica dell’io –
questo vitello d’oro.
Eppure, non possiamo nemmeno dire che il divino, da un punto di vista
cristiano, non si auto-limiti e non si doni come “risposta”. Ma che tipo di
risposta è questa? È una risposta che non risponde primariamente sul piano
dei significati e dei concetti: è una carne e un corpo, è l’incarnazione di
Cristo, sono i suoi gesti, i suoi movimenti, le sue azioni e anche il suo
silenzio – il suo essere in-fans la risposta che, proprio per questo, non
cade nel piano dei significati e nemmeno nel rimando continuo della
catena significante: mai – dalla culla della nascita (in cui il Verbo è senza
parola)al corpo post-pasquale in cui la carne non è contenibile e
riconoscibile in alcuna immagine, in alcun significato perché li travalica
gloriosamente, così come, ad un tempo, attraversa i muri pur non essendo
uno spirito e chiede da mangiare e si fa toccare come un corpo.
Questo passaggio somatico è il divenire stesso del godimento che, come
ben sa lo stesso Recalcati, non è la sfrenatezza del piacere ma quasi il suo
opposto: il corpo è anche ciò che patisce di “quello che non va” e che Lacan chiama “il reale”.
“È questo reale che si manifesta nel sintomo e che insiste rendendo sofferente il corpo come un impossibile da sopportare ma di cui però non si riesce a fare a meno: “godimento”, lo chiama Lacan” Jaques Alain-Miller, Pezzi staccati. (Introduzione al seminario XXIII “Il sintomo”, Roma 2006, Astrolabio, p. 8)

Dal punto di vista cristiano certamente questo può essere problematico, ma
mi pare possa rimettere in questione qualsiasi metafisica dell’essenza,
qualsiasi idolatrizzazione della “vita in sé”, qualsiasi riduzione, insomma,
a concetto, a cancellazione di quel “qualcosa che non va” che è il reale
dell’esistenza nella sua concreta pratica incarnata.
Il cristianesimo si fonda letteralmente su qualcosa che “non va”, su di una
“mancanza” che prende consistenza nella tomba vuota e che,
continuamente, lotta contro se stesso nel momento in cui rischia di passare
da fede a religione, per non nascondere il vuoto, il “non va” che lo
istituisce, il suo sabato pasquale. La stessa “morte di Dio” è la fine del
soggetto supposto sapere lacaniano, così come lo è l’incarnazione per certi
aspetti, poiché ci insegna a vivere la castrazione e il godimento per quello
che sono, cercando di evitare la difesa fantasmatica e dell’immaginario,
richiamandoci al somatico con tutte le sue contraddizioni, con tutte le sue
incoerenze e debolezze, senza cadere nella mera nuda vita biologica.
Si potrebbe forse dire che si tratta di una sorta di incarnazione della
kenosis, che distrugge ogni via di fuga, che impedisce ogni soggetto
presupposto sapere, anche il più alto e intoccabile, vale a dire quello di
Dio Padre. È la discesa agli inferi, la distruzione di ogni forma idolatrica, è
la presa di coscienza della propria mancanza come costitutivo passaggio
verso la “guarigione”. Il puro significante che si incarna come mancanza e
vuoto – significante senza significati perché, da un lato, mette in crisi e in
movimento critico ogni concetto e, dall’altro, si rende disponibile alla
possibilità dell’inesauribilità del senso – è il Cristo del Triduo, dal silenzio
del sabato alla croce, all’urlo appena articolato dell’abbandono da parte del
Padre che non riceve immediata risposta – che non rientra, insomma,
nella dinamica del rimando dei significanti né in quella dei significati
meramente dottrinali.

Si potrebbe leggere, mi chiedo, questa proposta, anche come una forma
profonda di discernimento spirituale, capace di disinnescare non tanto la
dipendenza relazionale con l’altro ma, più propriamente, il bisogno di
risposte legate alle rappresentazioni mentali e ai significati che, in
definitiva, ci distanziano da noi stessi e da Dio? Non potrebbe essere un
positivo campanello d’allarme contro il pericolo di “usare” il bene fatto
all’altro come sostegno alla propria fondazione egoica e al rischio del
vuoto del Sepolcro? Non sarebbe allora, finalmente, il cristianesimo
svelato nella sua realtà più profonda, vale a dire nella sua non consolatoria
o anestetica dinamica di risposte fornite dalla Legge – il più delle volte in
maniera bassamente dottrinale o pietistica – per arrivare a conciliarci con
un tipo del tutto particolare di finitezza, senza che quest’ultima, a sua volta,
diventi qualcosa di fisso, appropriabile e amministrabile, ma invece
continuamente ferita, aperta e rivitalizzata dalla trascendenza e dal
desiderio?

Nella tradizione ebraica, tanto biblica quanto rabbinica, l’uomo è una
interrogazione, una domanda continua, un desiderio e la sua infinita
tensione. Allo stesso modo, le mitzvot sono lo spazio che trasmette non
solamente e non primariamente le regole e le leggi del comportamento, ma
anche e soprattutto l’interrogazione stessa. Il desiderio, quindi, non si
ferma mai, non si conclude mai nel fantasma del suo “oggetto/referente”,
ma è un continuo richiamo al qui e ora concreto, circostanziale,
dell’interrogazione e dell’etica: le prescrizioni pratiche vengono certo
fornite, ma non hanno mai un carattere definitivo e dogmatico.
In termini lacaniani potremmo allora dire che il significante della Legge
non viene mai completamente delimitato dal suo significato, pena
l’idolatria e la fissazione: la dinamica tra Legge Orale e Legge Scritta è
inesauribile e, proprio per questo, il desiderio è ad essa consustanziale.
Si tratta di un “cammino” desiderante: il termine halakha deriva infatti
dalla radice halakh che significa “mettersi in marcia”; essa non è quindi la
mera legge concreta da applicare al caso specifico, ma anche il cammino
che ad essa conduce. La positiva tensione tra halakha e aggada produce lo
spazio vuoto dell’inter-detto, di quella riserva inesauribile e propositiva
che è un riflesso del divino in atto; e quello spazio è il passaggio/pasquale
insito nel nome stesso di “ebreo”, nella sua radice ivrt che è origine sia di
questo attraversamento, sia della rottura o trasgressione, sia del feto nel
suo formarsi e nascere – rifiuto e impossibilità dell’essere come ontologia
in senso greco, di quell’io sono che la stessa psicoanalisi ha messo
radicalmente in crisi e che la grammatica ebraica non contempla nelle sue
regole.

Al centro della Legge c’è quindi un vuoto costitutivo, così come al centro
della sua concretizzazione comunitaria: è il taglio – espressione anche
lacaniana in relazione alla cura – della berit, dell’Alleanza; ed è il Santo
dei Santi del Tempio. Questo spazio vuoto, questa distanza, questo ritirarsi
che è però qualcosa di positivo e che impegna eticamente l’uomo – questo
“meno” che è un “di più”, una eterogeneità all’interno del pericolo
omogeneizzante e omologante – è letteralmente un buco nei linguaggi e
nei codici umani: certo un problema e una interrogazione continui, ma
anche il Luogo in cui la vita può avvenire. Il problema non è allora quello,
pur presente inevitabilmente, relativo all’horror vacui ma, al contrario,
quello del “Tutto”: il rischio della totalizzazione paranoica e della
massificazione, della mancanza di un “fuori” all’interno dello spazio
condiviso. La tradizione ebraica ha da sempre combattuto contro tale
tentazione: il taglio dell’Alleanza, infatti, non è altro che il creare una
distanza da se stessi come pienezza chiusa e autocentrata e
dall’assimilazione dell’A/altro e nell’A/altro.
“Non cedere di fronte al proprio desiderio”, come dice Lacan, non è quindi
una generica proposta di “vita piena” o di rifiuto dell’incontro con la Legge
e la castrazione ma, al contrario, un non cedere alla riduzione a oggetto
dell’orientamento infinito del proprio desiderio, lasciare uno spazio vuoto
nel quale il desiderio possa fluire e, di conseguenza, sentirsi sempre
mancanti, circoncisi, attraversati dalla Parola mentre la attraversiamo e in
essa, nelle sue leggi, nasciamo ogni giorno con la fatica e le contraddizioni
del “non va”, del “non ancora” del “non-tutto” insiti nel sintomo singolare
e unico che tutti siamo. In una modalità davvero pasquale.
Bisogna anche sottolineare che il continuo rimando all’Altro, nel nostro
caso inteso come “Legge del Padre” con tutto il suo corollario edipico,
rischia di diventare una vera e propria rimozione in senso psicoanalitico,
facendoci dimenticare che il fondamento biblico della stessa civiltà trova il
suo punto più problematico non tanto nella relazione con il Padre come
vorrebbe Freud, ma in quella tra fratelli, da Caino e Abele fino a Giuseppe
e a molti altri episodi. Questo ci dice che il “ritiro” del Creatore è uno
spazio etico di libertà pericolosa che l’uomo deve prendere su di sé nel
rischio e nella possibilità. I commenti rabbinici, non a caso, ci dicono che
la Legge è quella sinaitica ma che le leggi sono fatte dagli uomini in una
modalità dinamica e non idolatrica della stessa istanza nomica. Certo Dio è
al centro della comunità ebraica, ma come vuoto, come “resto” che è un di
più e non uno scarto, come “primizia”: Be-reshit. E anche al centro del
cristianesimo dovrebbe esserci questo vuoto, quello del sepolcro che
raduna intorno al Mistero in atto senza ridursi all’automatismo burocratico
della Resurrezione come qualcosa di garantito una volta per tutte.

Si potrebbe allora forse sostenere che la Legge di Dio è lo spartito, il ritmo
e la possibile e difficile melodia che può incarnare desiderio e mancanza in
senso positivo, la capacità di essere attenti al proprio desiderio singolare e
al singolare desiderio dell’altro e di Dio stesso come essere desiderante. Il
caso di Caino e Abele, ma non abbiamo il tempo di svilupparlo qui, legato
alla mitzvot sulla lana e il lino, ci mostra proprio la mancata armonia di
questa mancanza e di questo desiderio: Caino offre molto, praticamente
tutto in abbondanza, di fatto cercando di colmare il vuoto, di tappare e fare
quindi proprio il buco vivente del desiderio di Dio (che non riguarda certo
l’offerta in se stessa ma i modi della relazione) per padroneggiarlo e
rendersene proprietario; mentre Abele guarda, più che alla quantità che
soffoca l’Altro e il suo desiderio, alla qualità singolare di tale vuoto
desiderante che è Dio, offrendo le “primizie”.
Niente viene detto del desiderio di Dio, perché non è una legge e Dio non
ha certo bisogno delle offerte degli uomini: è appunto un vuoto desiderante
a cui accostarsi. In questo accostarsi relazionale Caino è la lana grezza,
mentre Abele è il lavorio ricco di attenzione del lino. Per questo motivo,
lana e lino non possono essere mischiati nell’abbigliamento; per questo
motivo non è possibile chiudere il vuoto ma solo porsi di fronte ad esso in
una modalità di ascolto che non lo richiuda con le “buone azioni” e
nemmeno con l’automatismo assicurato della Resurrezione – ma con il
tentativo di scoprirne ogni volta di nuovo la nota singolare.

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