“Individua coniunctio”: matrimonio autorevole e individuo libero
“Individua coniunctio” – Che cosa significa il matrimonio indissolubile nell’età della libertà individuale?
“Cum igitur instinctus naturalis sit in specie humana ad hoc quod coniunctio maris et feminae sit individua, et quod sit una unius, oportuit hoc lege humana ordinatum esse”
S. Tommaso d’Aquino, Summa Contra Gentiles, III, 123, 7
“Ubi gratia largenda est, Christus adest; ubi exercenda severitas, soli adsunt ministri, deest Jesus”
Ambrogio, De Abraham, I, 6, 50
Il titolo della mia relazione vuol mettere in luce “la” questione che risulta sottesa al dibattito in corso: ossia il conflitto – che ritengo non insuperabile – tra due letture della “identità umana” e del suo rapporto con il Vangelo che appartengono a due epoche e a due concezioni diverse della cultura cristiana. Il Vangelo può essere tradotto nella prima o nella seconda. Il principio di autorità (“individua coniunctio”), tipico della società tradizionale e “chiusa”, si confronta con il principio di libertà (“individua libertas”), che caratterizza la società tardo-moderna e “aperta”. Mi sono convinto che la pretesa di ricondurre direttamente al Vangelo la dottrina del matrimonio rischia continuamente di confondere una legittima (ma variabile) esigenza sociale e culturale con la verità incontrovertibile della Parola di Dio, risultando così incapace di mediare la “differenza culturale” necessaria per un accesso non fondamentalistico al Vangelo e alla esperienza degli uomini1.
Che la “coniunctio” matrimoniale sia “individua” è una esperienza culturale tanto antica quanto l’uomo. La tutela del “coniuge” e quella dei “terzi” (figli) è una evidenza sociale e culturale innegabile, anche oggi e nonostante tutto. Ciò che nella storia è mutato è il modo con cui questa esigenza viene tutelata dalle istituzioni. Su questo piano deve essere interpretata la novità tardo-moderna di una “legislazione” che si prende cura delle nuove forme di “famiglie allargate”, nelle quali viene superata la indissolubilità assoluta, introducendo un principio formale – e paritario – di dissolubilità relativa. Ciò che non si poteva sciogliere, per una giustificata istanza meta-individuale, ora può essere sciolto, ad istanza dell’individuo, anche se non senza condizioni determinate e vincolanti. “Individuo” diventa, ora, il predicato anzitutto del singolo e non della comunione matrimoniale2.
Questo passaggio culturale non può essere giudicato in modo unilaterale. L’autorità del matrimonio si confronta oggi con l’autorità della coscienza, della libertà e della autodeterminazione del singolo nonché con la storia di queste delicate relazioni: nuovi equilibri sorgono, senza che l’istanza “comunitaria” venga semplicemente cancellata a favore della istanza “individuale”. Questo fenomeno comporta un lento lavoro di risignificazione teologica del matrimonio, nel quale occorre distinguere bene i livelli della esperienza, della pratica e della teoria. Anche in teologia, a partire dalla tarda modernità, non si dà in alcun caso un “sapere senza soggetto”. Ogni illusione, in questo ambito, è sempre controproducente. Ciò che mi accingo a fare è proprio un lavoro di distinzione e di discernimento, utile per non sbagliare la direzione del domandare e quella del rispondere intorno alla qualifica “indissolubile” del matrimonio. Mi interrogherò sul “significato” del termine (§.1), sulla sua recezione classica e tardo-moderna (§.2), per focalizzare poi il rilievo che Dignitatis Humanae ha avuto nella storia recente di tale recezione (§.3). A ciò farò seguire un rapido quadro del dibattito attuale sul tema (§.4), formulando poi alcune “tesi fondamentali” per un ripensamento (§.5), indicando le principali prospettive di soluzione effettiva ed efficace dell’impasse attuale (§.6) e concludere con la formulazione di una ipotesi di ripensamento sistematico e disciplinare della “individua coniunctio” (§.7).
1. A quale livello parliamo di “indissolubilità”?
La storia della parola – dell’aggettivo “indissolubilis” o “individuus” o “indivisibilis” applicato al matrimonio – risale in origine ad Agostino, ma è stata sviluppata soprattutto dalla riflessione giuridica e sistematica della scolastica. Essa non dipende però, direttamente, dalla “storia religiosa” o dalla “tradizione teologica cristiana” in senso stretto. Uno specchio sufficientemente lucido di questa situazione si trova nel pensiero di S. Tommaso d’Aquino. Potremmo così sintetizzare le acquisizioni più sorprendenti di un suo grande testo della ScG (III, 123) : nel contesto tradizionale, la “giustificazione” della indissolubilità è antropologica, prima che teologica. Ciò ha indotto la tradizione, progressivamente, a proporre un concetto “fisico” e “ontologico” di indissolubilità, la cui evidenza anticipa e quasi spiazza il Vangelo, che sarebbe solo la ribattitura di una evidenza maturata su un terreno filosofico-antropologico, sottratto alla storia, alla tradizione e alla cultura. “Elevare il matrimonio a sacramento” è la espressione riferita a Cristo che spesso viene ripetuta, non di rado senza vera comprensione, della “differenza” che tale sacramento manifesta nel quadro della esperienza cristiana. Ciò dipende, probabilmente, dalla competenza giuridica esclusiva che la Chiesa cattolica ha avuto sulla materia matrimoniale fino al 1804 e che molto ha pesato sul modo di pensare e di disciplinare il tema.
In altri termini, dovremmo riconoscere che il modello medievale di comprensione del matrimonio indissolubile, passando per la “forma canonica” tridentina, è giunto fino alla codificazione del 1917: in questa vicenda possiamo scoprire un progressivo irrigidimento del paradigma “oggettivante”, che, muovendo da motivazioni “culturali” e “tradizionali” del tutto pacifiche nel mondo pre-moderno, sempre più ha assunto e trascritto nel proprio registro esigenze istituzionali e motivi apologetici. Si è quasi potuto identificare, nella “resistenza di una competenza giuridica esclusiva della Chiesa sul matrimonio”, la sopravvivenza di un “potere temporale”, di una “societas perfecta”, di una possibilità di determinare, senza mediazioni, la società e la cultura in “obbedienza” al Vangelo. Tutto questo va considerato come “contesto prossimo” del definirisi della nozione di “indissolubilità”, che, in quanto termine astratto – non più soltanto come “aggettivo” di “coniunctio” o di “vinculum – è una tipica “negazione di negazioni” su cui la Chiesa tardo-moderna si è “arroccata” di fronte alle nuove evidenze culturali dell’epoca liberale: avviene con “indissolubilità” un fenomeno simile a quanto accade con “infallibilità” e con “inerranza”. Su queste “negazioni di negazioni” è stata edificata una barricata contro la corrosione moderna dei costumi e delle coscienze che oggi rende assai difficile attingere alla verità della esperienza dei soggetti e della Parola di Dio. La nostra storia teologica ci impedisce di fare i conti con la realtà: questo “mondo ideale” inquina il nostro rapporto con il reale, cui deve essere riconosciuto il primato.
2. Come abbiamo recepito tale discorso negli ultimi 200 anni? Dalla “opposizione” al moderno al Concilio Vaticano II, fino a Familiaris Consortio
Il Vangelo del matrimonio per antica tradizione riposa e fiorisce, dunque, su evidenze “di convenienza”, che tuttavia nella storia possono mutare. Il mutamento degli ultimi 200 anni è stato strutturale. Se lo guardiamo in prospettiva, osserviamo una serie di svolte molto rilevanti, che riguardano la determinazione del soggetto in relazione alle proprie azioni. La “coscienza”, non più intesa solo come “giudizio”, ma come “abito”, risulta profondamente trasformata da questi mutamenti.
Nello sviluppo storico non possiamo non ammirare la libertà e la forza con cui la Chiesa, lungo i secoli, è intervenuta con la propria dottrina e con la propria disciplina a “regolare”, “governare” e “articolare” la relazione matrimoniale tra uomini e donne. Ed è ovvio come, proprio in materia matrimoniale, la accuratezza e la finezza della intelligenza ecclesiale abbia dovuto tener conto della “complessità dei livelli in gioco”. Vorrei qui ricordare, con grande ammirazione, la lucidità con cui Tommaso imposta il discorso nella sua “Summa contra Gentiles” a proposito del matrimonio3: lo spazio descritto da questo lampo di luce appare assai ricco e finemente articolato. Soprattutto esso ridefinisce a dovere i diversi livelli (naturale, civile, ecclesiale) su cui la “generatio” prende il suo senso e svolge il suo ruolo. Venendo da molti secoli fa, questa descrizione sommaria ci riconcilia con il mondo che abbiamo dinanzi a noi. Soprattutto mostra di quanta “autonomia” godesse il “matrimonio” nella concezione scolastica e quanto difficile sia oggi, soprattutto per alcuni settori del mondo cattolico, ascoltare con libertà questa parola medievale. Se liberiamo la parola medioevale dalle retroproiezioni moderne (tridentine) e tardo-moderne (dal Codex in poi), tale parola può diventare per noi motivo di profezia ecclesiale e principio di nuova lucidità. Essa contiene, in altri termini, una “visione prospettica” della questione matrimoniale che il dibattito teologico dell’ultimo secolo ha quasi totalmente smarrito, rinchiudendosi in evidenze teologiche troppo asettiche e troppo isolate dal sostrato naturale e culturale del sacramento4.
Il Concilio Vaticano II, tuttavia, non ha perduto l’occasione di dire una parola autorevole in proposito, che è rimasta tuttavia come implicita e in secondo piano, rispetto ad altri temi portanti della dottrina conciliare. Il “bonum coniugum” è la categoria “intersoggettiva” che appare in GS e che attesta l’inizio ufficiale di un riposizionamento della dottrina matrimoniale secondo una “prospettiva nuova”. E’ lo sguardo che inizia a mutare, per un atto di fedeltà al Vangelo e alla esperienza degli uomini (GS 46). Mutare lo sguardo, nella prospettiva di una valorizzazione “personalistica” del matrimonio, significa mediare in modo diverso la libertà del soggetto e l’autorità del vincolo. Soprattutto significa uscire dalle logiche che oppongono semplicisticamente oggettivo e soggettivo, per accedere a logiche intersoggettive. Questa svolta crea lo spazio, direi lo spazio concettuale ed esperienziale, per tradurre la dottrina della indissolubilità in termini nuovi, creando le condizioni per una disciplina diversa. Lo spunto conciliare, rimasto a lungo quiescente, ha ispirato i due passaggi fondamentali con i quali ci troviamo a fare i conti: il primo, attestato da Familiaris Consortio (1981), è avvenuto con il riconoscimento della “non separazione” dei divorziati risposati dalla Chiesa5; il secondo, oggi auspicato da papa Francesco, di un annuncio di misericordia effettivo, capace di riconoscere non solo il peccato, ma anche la malattia; non solo una fine, ma anche un inizio; non solo una perdita di comunione, ma anche una possibile nuova esperienza di comunione6.
Tutto questo, in quanto sviluppo post conciliare, trova certamente in GS 47-52 il suo presupposto primo, come è ovvio. Ma, ancora più radicalmente, poggia sul presupposto di una “scoperta”, a dire il vero assai innovativa, che il Concilio Vaticano II ha realizzato anzitutto nella Dichiarazione Dignitatis Humanae (=DH). L’esame dell’influsso che, a lunga gittata, questo testo ha esercitato sulla teologia e sulla disciplina del matrimonio, merita una analisi più attenta di quanto normalmente non si faccia. In effetti, essendo collocato il sacramento del matrimonio “a cavallo” tra esperienza privata ed esperienza pubblica, esso risente in modo molto più forte del mutamento di prospettiva che – sul piano pubblico – è stato introdotto con la assunzione positiva della “libertà di coscienza” nell’orizzonte della rivelazione cristiana7.
3. Nuova autocoscienza del soggetto e nuovo equilibrio tra libertà e autorità: le acquisizioni di “Dignitatis Humanae”
Forse non avevano pensato, i padri conciliari del Concilio Vaticano II, che la accettazione della “società aperta” – che avviene ufficialmente con il testo di DH – avrebbe tanto modificato proprio il sacramento che sta “a cavallo” tra privato e pubblico, istituendo le “forme” della comunione vivibile tra uomo e donna. La storia stessa della collocazione del matrimonio nel “sistema giuridico” – il diritto di famiglia può essere collocato, di volta in volta, nel “diritto privato” o nel “diritto pubblico” – avrebbe potuto facilmente far capire che la accettazione della “libertà di coscienza” – come principio tanto osteggiato dal magistero della Chiesa cattolica per quasi due secoli – avrebbe profondamente inciso su tutte le forme di “comunione visibile”, e anzitutto sul matrimonio-famiglia.
La grammatica del matrimonio cristiano è destinata a cambiare profondamente, quando ad ogni soggetto viene riconosciuta, per principio, una relazione originaria con la libertà. Alla donna come all’uomo, al figlio come al padre, al figlio legittimo come al figlio naturale. Questo nuovo orizzonte di “percezione” e di “esperienza” del mondo e dell’uomo – nel quale l’accesso alla libertà è assicurato “per principio” ad ogni soggetto – muta non tanto l’atto del matrimonio, quanto il rapporto di matrimonio. E lo rende, allo stesso tempo, più profondo e più fragile.
Non è questo il luogo adeguato per una analisi accurata del testo della Dichiarazione De libertate8, ma possiamo soltanto assumere alcune dimensioni-chiave del testo, per coglierne le conseguenze indirette nella riformulazione della questione familiare e matrimoniale nel nostro tempo e, appunto, all’interno di una “società aperta”. E’ invece una esperienza piuttosto amara costatare che una non piccola parte della teologia cattolica del matrimonio sembra oggi volere – e quasi dovere – retrodatare il calendario civile e politico di almeno duecento anni, per poter dire qualcosa di significativo per gli uomini e le donne di buona volontà.
I due dati fondamentali della Dichiarazione De libertate sono:
– la accettazione che non si è liberi perché si è nel vero, ma che la libertà è condizione della verità;
– che questo assunto è non solo “tollerato”, ma teologicamente e antropologicamente fondato, oltre che giuridicamente da tutelare.
Questo rapporto tra libertà e verità, che subisce un approfondimento tanto solenne e così vistosamente differente dal passato, costringe ben presto a una profonda revisione di tutte le esperienze e di tutte le istituzioni “comunitarie”. Esso ridefinisce, in qualche modo, le “forme della comunione vissuta”. In primis, questo vale per il matrimonio, anche se immediatamente era parso che lo Stato e la città (e la Chiesa) fossero i “luoghi” più tipici di esercizio della libertà. Vi è dunque un impatto serio e sapiente di DH sulla teologia del matrimonio e sul modo di pensare il vincolo “indissolubile” che lo costituisce. (segue…)
1In questo momento dello sviluppo civile ed ecclesiale, la tentazione di alcuni settori della Chiesa è fare delle questioni “matrimoniali” una “barricata” contro la società aperta. Quasi un punto di resistenza di un modello di fede e di Chiesa recisamente anti-moderno.
2D’altra parte, affermare Dio non può significare negare il soggetto libero e la storia della coscienza. Identificare Dio con la assenza di libertà e con la mancanza di storia è un luogo comune tipico dell’antimodernismo.
3“Considerandum est autem quod, quando aliquid ad diversos fines ordinatur, indiget habere diversa dirigentia in finem: quia finis est proportionatus agenti. Generatio autem humana ordinatur ad multa: scilicet ad perpetuitatem speciei; et ad perpetuitatem alicuius boni politici, puta ad perpetuitatem populi in aliqua civitate; ordinatur etiam ad perpetuitatem Ecclesiae, quae in fidelium collectione consistit. Unde oportet quod huiusmodi generatio a diversis dirigatur. Inquantum igitur ordinatur ad bonum naturae, quod est perpetuitas speciei, dirigitur in finem a natura inclinante in hunc finem: et sic dicitur esse naturae officium. Inquantum vero ordinatur ad bonum politicum, subiacet ordinationi civilis legis. Inquantum igitur ordinatur ad bonum Ecclesiae, oportet quod subiaceat regimini ecclesiastico. Ea autem quae populo per ministros Ecclesiae dispensantur, sacramenta dicuntur. Matrimonium igitur secundum quod consistit in coniunctione maris et feminae intendentium prolem ad cultum Dei generare et educare est Ecclesiae sacramentum: unde et quaedam benedictio nubentibus per ministros Ecclesiae adhibetur. “ (Contra Gentiles IV, 78)
4Non di rado, questa impostazione non nasconde un intento sostanzialmente “apologetico”: rivendica una “diversità cristiana” che porta a leggere il sacramento “contro” il contratto e “contro” la natura. Questa tendenza, come è evidente, perde progressivamente il contatto non solo con la realtà naturale e civile, ma anche con il Vangelo.
5“Insieme col Sinodo, esorto caldamente i pastori e l’intera comunità dei fedeli affinché aiutino i divorziati procurando con sollecita carità che non si considerino separati dalla Chiesa, potendo e anzi dovendo, in quanto battezzati, partecipare alla sua vita.“ (Giovanni Paolo II, Familiaris Consortio, 84)
6Nel primo passaggio si riconosce che la condizione dei “divorziati risposati” non è estranea alla comunione ecclesiale. Nel secondo, 35 anni dopo, si riconosce a quella condizione una qualità di comunione ecclesiale. Il che suppone un aggiornamento del concetto di “indissolubilità”.
7E anche le resistenze, che oppongono innumerevoli ostacoli ad ogni variazione della disciplina del sacramento del matrimonio, provengono non tanto da evidenze teologiche, o da priorità pastorali, quanto da urgenze politiche e da resistenze ecclesiologiche: è un modello di rapporto Chiesa-mondo e di concezione ecclesiale che trova, oggi, nel matrimonio una quasi naturale “barricata”, pronta alla battaglia contro lo spirito tardo-moderno. In certo modo, il matrimonio diventa il banco di prova per resistere al progetto conciliare di “traduzione della tradizione”.
8Per un primo approfondimento dei noti “teologici”, “antropologici” e “istituzionali” presenti nel testo conciliare, rimando al recente studio di P. Trianni, Il diritto alla libertà religiosa. Alle fonti di Dignitatis Humanae, Città del Vaticano, Lateran University Press, 2014.