Infallibilità, autorità e storia: 150 anni dopo una “regolata eccezione”
“Contemperare sulla storia l’annunzio della verità con il silenzio su ciò di cui non siamo ancora in grado di sopportare il peso”
(E. Benvenuto)
Che cosa significa far memoria, dopo 150 anni, della “definizione della infallibilità papale” da parte del Concilio Vaticano I? Alcuni testi, apparsi in questi giorni, ci aiutano a istruire a dovere la “causa”. Le domande ficcanti sollevate da Fulvio Ferrario su FB, la lettura storica di Daniele Menozzi, la intervista a Carlo Fantappié su Avvenire ci aiutano a guardare prospetticamente all’evento. Sullo sfondo lascio un duplice testo, che ha ormai più di 20 anni, scritto da S. Dianich e dal compianto E. Benvenuto e che si trova alla voce “infallibilità” nel Dizionario “Teologia” di San Paolo, curato da Barbaglio-Bof-Dianich. Sulla base di queste letture mi sembra utile tentare di formulare una serie di considerazioni, che aiutino a comprendere la complessità e la delicatezza del tema.
a) Evitare le riduzioni
La prima cosa utile, di fronte al pronunciamento di 150 anni fa, è tenere largo lo sguardo. Non chiudersi nelle evidenze/inevidenze teoriche – che pure sono forti – e non sigillarsi in una prospettiva di lettura meramente funzionale, direi puramente politica ed ecclesiastica. Il “dogma della infallibilità” – se possiamo chiamarlo così – dice qualcosa di nuovo e lo dice in modo estremo, quasi “sopra le righe”. Merita perciò di non essere ridotto, con le formule facili, ma rischiose, con cui diciamo “non è altro che…”. Proviamo a partire dal riconoscimento che quel testo forte, e quel gesto estremo, è sempre anche altro!
b) Il contenuto dogmatico e la fine del magistero negativo
Sul piano strettamente dogmatico, due osservazioni dovrebbero accompagnare l’analisi. Il modello di pronunciamento resta nello stile del “magistero negativo” – non afferma, ma nega una negazione – e lo fa in linea con una serie di affermazioni parallele, anche se non coperte da questo grado di autorevolezza, come “inerranza”, “indefettibilità”, “indissolubilità” e ora anche “infallibilità”. Per certi versi, se escludiamo la lunga stagione dell’antimodernismo, che in forme quasi parossistiche perpetuerà ancora per 80 anni questo nobile stile classico, il 1870 segna anche la fine di questo stile. E’ lo stesso Vaticano I ad essere testimonianza viva, travagliata e cosciente – almeno nei suoi padri più lucidi – della “crisi del magistero negativo”. Già allora era evidente che non fosse più sufficiente “negare l’errore”, come il magistero ecclesiale aveva fatto per secoli, nel 99 per cento dei suoi interventi. Lo stesso progetto di Concilio Vaticano I aveva concepito, almeno all’inizio, l’idea di poter essere una sorta di “silloge” di tutte le “condanne” del XIX secolo. Ma poi si comprese che quella strada era ormai preclusa, almeno come primario compito conciliare.
c) La questione della autorità e le ferite della storia
Il rapporto con la storia e con il suo senso è decisivo per la Chiesa. Una collocazione equilibrata tra l’anticipazione di ogni giudizio e la sua procrastinazione – tra una chiesa etica e una chiesa escatologica, tra una chiesa non indifferente e una chiesa indifferente – mette sempre in gioco la autorità e le sue forme di esercizio. Dogma e storia si fronteggiano e faticano a trovare una mediazione. Un incondizionato, un assoluto, un trascendente prende necessariamente forma ecclesiale, ma in quale modo e a quali condizioni? La fatica di tenere il passo della storia può trovare e riconoscere, fuori di essa, un principio altro. Che però stenta a darsi forma adeguata, non solo in un “altrove”, ma con un “prima” e con una lettura idealizzata e nostalgica di questo prima. I disegni “intransigenti” di lettura del papato hanno proiettato sulla infallibilità molto più di quel che è. Per certi versi hanno trasformato un moscerino in un cammello. E noi siamo tutti vittime – e un poco anche carnefici – di questa mancanza di proporzioni. E si sa che quando le cose piccole diventano grandi, le grandi cose si fanno piccole piccole…
d) Il modello di Chiesa e la evoluzione difficile
Questa prerogativa papale, che è in realtà prerogativa ecclesiale e che come tale è anche richiamata nella formula ufficiale di proclamazione, orienta la lettura del “corpo mistico” in modo assai unilaterale. Impiegherà quasi un secolo la Chiesa a trovare una lettura diversa, in un altro Concilio – nella discontinuità dal Vaticano I, visto che si chiarì subito che si trattava non della continuazione di quel concilio “incompiuto”, ma di un “altro concilio”. La piramide si rovesciava: il servizio papale dell’unità recuperava quella forza ecclesiale che era stata invece estenuata, per quasi un secolo, sul versante politico e istituzionale. Un altro modello di Chiesa – non societas inaequalis ma “popolo di Dio – permetteva di leggere diversamente anche le prerogative eccezionali del suo servus servorum Dei. Per comprendere la Chiesa è chiaro che, senza negare né popolo né suo pastore supremo, una cosa è “iniziare dal papa” e altra cosa è “iniziare dal popolo”.
e) La sfida epistemologica: K. Rahner e E. Benvenuto
Karl Rahner negli anni 70, in occasione del centenario del Vaticano I, e quasi 30 anni dopo di lui E. Benvenuto, nel testo che ho citato all’inizio, e che resta come una “perla evangelica” nella riflessione di fine secolo scorso, hanno messo in luce il problema che la definizione del 1870 solleva sul piano strettamente epistemologico. Da un lato, infatti, essa pare estendere alla Chiesa quella “auto- testimonianza” che solo di Cristo può essere affermata in senso stretto. Estendere alla Chiesa e al Papa una prerogativa singolarissima riservata al Figlio di Dio è operazione audace e rischiosa. D’altra parte, propria la accuratissima serie di “condizioni” cui è subordinata la “operatività garantita” della infallibilità papale chiarisce bene che l’equilibrio tra “autoimplicazione” e “fondazione” è assai difficile da mantenere. Il fatto che, in 150 anni, si sia ricorsi solo una volta alla formula tecnica della “infallibilità papale” – nel 1950 per la Assunta – mostra il valore più simbolico che effettuale del pronunciamento. Nel dire più una potenza che un atto, esso afferma una autorità almeno “in potenza” incondizionata e intrinseca, ma riconosce anche, “in atto”, tutte le condizioni estrinseche e non disponibili, che contribuiscono storicamente a determinarlo.
f) La regola e l’eccezione: una ricomprensione alla luce del Vaticano II
Che il papa, in determinate condizioni, possa essere garantito da ogni errore, dopo il Concilio Vaticano II, non può essere il principio di comprensione della Chiesa. Viceversa, nella indefettibilità dalla verità, che è di Cristo e della Chiesa, recuperata come vita alimentata dalla preghiera liturgica, dall’ascolto della parola, dalla articolata relazione ecclesiale e dal dialogo sorprendente col mondo, al vescovo di Roma è riservata, eccezionalmente e a condizioni assolutamente definite, una possibilità di interpretazione autentica ed efficace di questo “certo permanere nella verità”. Che è prima e indubitabilmente di Cristo, poi del corpo della Chiesa, casta meretrix, e da ultimo sta nei suoi interpreti autorizzati e autorevoli, sopra i quali il Vescovo di Roma esercita il suo servizio alla unità. Ma, come è avvenuto per il magistero in senso generale, anche per il Papa è finito il tempo della “negazione delle negazioni”, di cui fa parte anche la terminologia della “infallibilità”. Come al magistero ecclesiale nel suo complesso non è più sufficiente “affermare la verità mediante la condanna dell’errore”, così, anche per il papa, alla qualifica di “non poter dire la cosa sbagliata” – garantitagli dal dogma solo a certe condizioni – si sostituisce il calore vibrante della parola biblica, la forza elementare dell’azione rituale, la intensità calda del rapporto di comunione ecclesiale, la profezia piena di sorpresa nel riconoscere i percorsi dello Spirito di santità, che agisce apertamente e per vie segrete nel mondo. Possiamo avere misericordia della “elefantiasi” antica e moderna proiettata sulla infallibilità papale a patto che sappiamo riconoscere, sulle orme del Concilio Vaticano II, ma già nella stessa eredità paradossale del Vaticano I, che la infallibilità più autentica è solo quella della misericordia. E’ la peculiarità non ordinaria di un pastore che, alla sequela del Signore e sulle orme di Maria, possa riconoscersi e presentarsi anzitutto come “miserorum miseratus”.