(K)ein Widerspruch: La “non contraddizione” tra matrimonio indissolubile e nuove nozze secondo la canonista Sabine Demel
Un nuovo contributo al dibattito sui “divorziati risposati”.
In questo breve ma intenso contributo, Sabine Demel propone una lettura strettamente giuridica della questione dei “divorziati risposati” e riconosce alla Chiesa il potere di provvedere a una soluzione diversa rispetto alla “dichiarazione di nullità”. L’apertura è basata sul “potere della Chiesa” di autorizzare le seconde nozze senza mettere in discussione il principio di indissolubilità, ma mediante una revoca degli effetti giudici del vincolo matrimoniale. E’ una posizione originale, che cerca di ovviare, sul piano strettamente giuridico, ad alcuni inconvenienti della attuale disciplina. Merita una attenta considerazione.
(Il testo tedesco è disponibile all’indirizzo; http://www.herder-korrespondenz.de/aktuelle_ausgabe/special/details?k_beitrag=4100506; per la traduzione italiana si può leggere sul sito “fine settimana”, nella rassegna stampa, mirabilmente curata da Giancarlo Martini)
Indissolubilità del matrimonio e autorizzazione a un secondo
matrimonio. C’è contraddizione o no?
di Sabine Demel*
in “www.herder-korrespondenz.de” del giugno 2014 (traduzione: www.finesettimana.org)
Nella Chiesa cattolica esiste una discrepanza non trascurabile: benché ogni matrimonio sia
considerato indissolubile, alcuni matrimoni vengono tuttavia sciolti. Se però l’indissolubilità stessa
è una caratteristica essenziale del matrimonio, l’autorizzazione effettiva a un secondo matrimonio è
giuridicamente pensabile solo per casi in cui non il matrimonio stesso, ma i suoi effetti giuridici
vengano revocati.
Siamo alle solite: si dibatte aspramente nella Chiesa cattolica sui divorziati risposati. Da decenni
succede a ondate, più o meno intensamente. Ciò che è nuovo attualmente nel dibattito in corso è il
fatto che ora anche dalla bocca di numerosi vescovi [ndr.: tedeschi] si sentono parole, indicazioni e
argomentazioni, che in tutti questi ultimi decenni erano stati formulati ripetutamente da coloro che
erano direttamente coinvolti, da gruppi di riformatori, da teologhe e teologi, come espressione di
rimostranza, di speranza o di proposta. Le due principali affermazioni sono le seguenti. La prima:
“Ci deve pur essere anche per fedeli civilmente divorziati e risposati la possibilità di un nuovo
inizio nell’amore e nella vita di coppia!”. La seconda: “Non può essere che tutti i divorziati risposati
senza eccezione vivano per tutta la vita in peccato grave – cioè in adulterio!”. Se queste due
affermazioni non devono rimanere bella retorica senza conseguenze pratiche, per la soluzione ci
possiamo porre due fondamentali domande: come può presentarsi questo nuovo inizio in modo da
non violare la dottrina dell’indissolubilità del matrimonio saldamente ancorata nella tradizione della
Chiesa cattolica? E: come dev’essere considerato il secondo matrimonio concluso civilmente da
parte di persone civilmente divorziate, se non è più considerato, come prima, un adulterio, o come
una violazione del primo legame matrimoniale ancora esistente?
Indissolubile, più indissolubile, indissolubile al massimo
Da parte della gerarchia del papa e dei vescovi, queste domande però non vengono poste. Qui si fa
piuttosto ripetutamente riferimento quasi come uno stereotipo alla dottrina della indissolubilità del
matrimonio che non può essere messa in discussione in alcun caso. Deve continuare a valere –
senza se e senza ma! Come teologa specialista di diritto canonico, la cosa mi meraviglia moltissimo.
Che affermazione audace: l’indissolubilità del matrimonio è intangibile! I rappresentanti della
gerarchia hanno forse dimenticato che l’indissolubilità del matrimonio in senso stretto non c’è più da
lungo tempo, e forse non è mai esistita in senso assoluto? Al più tardi dal XII secolo nella Chiesa
cattolica vige la convinzione che non ogni matrimonio è indissolubile, nemmeno ogni matrimonio
sacramentale, e nemmeno ogni matrimonio sessualmente consumato, ma solo quel matrimonio che
è consumato, compiuto, sia sacramentalmente che sessualmente. È stato papa Alessandro III ad
insegnare questo per la prima volta. Si trovava allora, nel XII secolo, di fronte alla sfida di definire
giuridicamente quando un matrimonio è valido per la Chiesa: se lo è già dopo la dichiarazione della
volontà al matrimonio di entrambi i partner, come era nel diritto romano, oppure tramite la
consumazione sessuale del matrimonio, come era nella concezione giuridica germanica? Deve
essere introdotta nella Chiesa la teoria del consenso del diritto romano, secondo la quale il
matrimonio diventa effettivo anche solo tramite la reciproca, libera dichiarazione di volontà al
matrimonio, o la teoria dell’unione sessuale, secondo la quale il matrimonio diventa effettivo solo
con il primo rapporto sessuale?
Alessandro III non decise tra le due teorie, ma le unì con la seguente regolamentazione: il
matrimonio diventa effettivo con il consenso e viene convalidato dall’unione sessuale. Questa
regolamentazione vale tutt’oggi e si presenta nel diritto canonico in questa forma: da un lato, ogni matrimonio viene considerato indissolubile. Così sta scritto nel codice di diritto canonico, Codex
Iuris Canonici (CIC) del 1983, inequivocabilmente: “Le proprietà essenziali del matrimonio sono
l’unità e l’indissolubilità, che nel matrimonio cristiano conseguono una peculiare stabilità in ragione
del sacramento” (c. 1056).
Quindi, non solo il matrimonio cristiano è conseguentemente indissolubile, ma ogni matrimonio;
inoltre tale indissolubilità del matrimonio viene definita come una proprietà essenziale, una
proprietà cioè che per natura è di ogni matrimonio.
Dall’altro lato, però, nel c. 1141 CIC si stabilisce che: “Il matrimonio rato e consumato non può
essere sciolto da nessuna potestà umana e per nessuna causa, eccetto la morte”.
Nella conclusione avversa deriva da questa disposizione del c.1141 CIC, che il matrimonio non
sessualmente consumato e il matrimonio non sacramentale possono essere sciolti, allora però non
sono indissolubili. E in effetti, la Chiesa cattolica conosce procedimenti di scioglimento del
matrimonio per entrambi i casi: un matrimonio non consumato può essere sciolto dal papa con un
atto di grazia. Il presupposto è che sia provato con speciale procedura il fatto che il matrimonio non
è stato consumato (cc. 1061 e 1141 CIC). Un matrimonio non sacramentale di due persone non
battezzate può essere sciolto se uno dei due si fa battezzare e il partner non battezzato si separa da
lui, non essendo più disposto a proseguire il matrimonio con un battezzato oppure non garantisce al
battezzato un libero esercizio della sua fede (cc.1143-1150 CIC). Qui il matrimonio viene sciolto a
favore della fede (il cosiddetto privilegio paolino secondo 1Cor 7,12-15): la fede ha diritto di
precedenza sul legame matrimoniale. Quindi il battezzato/la battezzata in queste condizioni ha
diritto al divorzio. Questo ha come conseguenza che il partner battezzato/la partner battezzata può
contrarre un nuovo matrimonio.
Oltre a queste due procedure di scioglimento di matrimonio che vengono regolamentate nel CIC, c’è
ancora una terza procedura di scioglimento di matrimonio, che viene regolamentata al di fuori del
CIC. Seconda questa, anche un matrimonio tra due persone non battezzate senza che ci sia un
battesimo successivo di uno dei due, o un matrimonio tra una persona battezzata ed una non
battezzata, può essere sciolto, se questo è necessario per la salvezza dell’anima o per il bene della
fede di una terza persona cattolica e battezzata che vuole sposare uno dei due partner. Questa
separazione di matrimonio avviene tramite il papa in forza di un atto di grazia papale (il cosiddetto
privilegio petrino).
La possibilità di scioglimento di matrimoni non consumati e in particolare il privilegio paolino e
petrino provocano direttamente la domanda se la Chiesa cattolica nella prassi fa ciò che nella logica
non funziona, cioè consideri diversi gradi di indissolubilità, secondo la seguente legittimità: in
principio ogni matrimonio è indissolubile, però quando il matrimonio indissolubile è consumato o
quando è sacramentale, allora è più indissolubile di indissolubile. Se poi il matrimonio indissolubile
è consumato e sacramentale, allora arriviamo a “indissolubile al massimo”. Che lo si formuli in
questa maniera limite o diversamente, fatto sta che nella Chiesa cattolica esiste la seguente
discrepanza: benché ogni matrimonio (non solo quello sacramentale!) sia considerato indissolubile
(c. 1056), tuttavia nella Chiesa cattolica determinati matrimoni vengono sciolti (c. 1141 i. V.m. cc.
1142 – 1115 CIC).
Le procedure ecclesiastiche di scioglimento del matrimonio sono procedure di autorizzazione
per un secondo matrimonio.
Veramente indissolubile nello stretto senso letterale nella Chiesa cattolica è quindi solo il
matrimonio ecclesiasticamente valido, sacramentale e sessualmente consumato. È il matrimonio più
indissolubile tra tutti i matrimoni indissolubili – e lo è non per un motivo specifico di legge naturale
o per un motivo teologico, ma solo perché il legislatore ecclesiastico supremo ha stabilito così.
Infatti nel c. 1141 CIC come anche nelle disposizioni precedenti non viene in alcun modo fatto
ricorso alla natura o alle proprietà essenziali del matrimonio, ma solo viene regolamentata l’assoluta
indissolubilità del matrimonio, senza motivarla. In parole semplici questo significa una cosa sola: che in ultima analisi l’assoluta indissolubilità del matrimonio è stabilita solo da una disposizione
ecclesiastica.
Allora ci si pone la domanda di come sia giuridicamente fondata questa potestà di stabilire una
disposizione ecclesiastica e fino a che punto questa potestà può arrivare. Potrebbe essere che arrivi
più in là rispetto a quanto l’autorità ecclesiastica (attualmente) ne sia consapevole? “Forse la Chiesa
può sciogliere tutti i matrimoni, ma non lo sa ancora” (Rudolf Weigand, Die Kirche und die
wiederverheirateren Geschiedenen, in: “Anzeiger für die Seelsorge” 107 [1998], 433-439. 438)?
Oppure: lo scioglimento ecclesiastico di alcuni matrimoni in realtà non è uno scioglimento, ma solo
un’autorizzazione al secondo matrimonio (cf. Matthäus Kaiser, Können Ehen aufgelöst werden?
nella rivista di diritto canonico “De Processibus Matrimonialibus”, DPM 2 [1995], 39-67. 67)?
Entrambi gli autori qui citati rispondono alla loro domanda con un chiaro “sì”. Perché rispondere
con un “no” significherebbe mostrare la concezione del matrimonio della Chiesa cattolica come
contraddittoria in sé. Perché se l’indissolubilità è veramente una proprietà essenziale del
matrimonio, come è spiegabile che determinati matrimoni – nello specifico quelli non sacramentali
e quelli non consumati – vengano sciolti? Se però l’indissolubilità non è una proprietà essenziale del
matrimonio, perché la scioglibilità del matrimonio viene limitata ai due criteri della non
sacramentalità e della non consumazione del matrimonio stesso? A queste domande in definitiva ci
sono solo due possibilità di risposta (cf. per quanto segue Markus Güttler, Die Ehe ist unauflöslich!
Eine Untersuchung zur Konsistenz der kirchlichen Eherechtsordnung, Essen 2002, in particolare
216-222): o l’indissolubilità è una proprietà essenziale del matrimonio – e allora ciò che viene
definito “scioglimento” del matrimonio, di fatto deve essere definito un’autorizzazione ad un
secondo matrimonio. Giuridicamente si può pensare solo che nei casi citati sono gli effetti giuridici
del primo matrimonio (non il matrimonio stesso) ad esser revocati, e questo tramite l’istituto
giuridico della dispensa (liberazione dall’imposizione ad un obbligo di una legge per specifici
singoli casi). Oppure l’indissolubilità non è una proprietà essenziale del matrimonio – e allora
devono essere stabiliti dalla Chiesa dei criteri per la scioglibilità dei matrimoni, criteri che devono
essere adattati in maniera sempre nuova in base ai segni dei tempi.
Queste sono le sole due possibilità di risposta all’interno della logica della concezione del
matrimonio della Chiesa cattolica. Indipendentemente da quale delle due risposte viene dichiarata
corretta (pertinente), per ognuna diventa evidente che la Chiesa, rappresentata dal papa come
supremo legislatore, ha ed esercita una potestà giuridica sul matrimonio che le compete. Questo di
nuovo è in relazione col fatto che, secondo la dottrina cattolica, i sacramenti non sono solo azioni di
Gesù Cristo, ma anche azioni della Chiesa. In questo senso si dice molto chiaramente nel c. 840
CIC che i sacramenti sono “istituiti da Cristo Signore e affidati alla Chiesa, cosicché essi
contemporaneamente sono “azioni di Cristo e della Chiesa”.
Perciò anche la Chiesa, rappresentata dalla suprema autorità ecclesiastica, può e deve stabilire per la
celebrazione dei sacramenti dei criteri specifici per ogni singolo sacramento. Nel linguaggio di
diritto canonico sul punto addotto la cosa viene espressa in questo modo: “Poiché i sacramenti sono
gli stessi per tutta la Chiesa e appartengono al divino deposito, è di competenza unicamente della
suprema autorità della Chiesa approvare o definire i requisiti per la loro validità e spetta alla
medesima autorità o ad altra competente, a norma del can, 838, §§ 3 e 4, determinare quegli
elementi che riguardano la loro lecita celebrazione, amministrazione e recezione, nonché il rito da
osservarsi nella loro celebrazione” (c.841 CIC).
L’organizzazione dei sacramenti deve quindi essere determinata da parte della Chiesa, e
giuridicamente è indicato con precisione chi determina i criteri per la validità e chi i criteri per
l’ammissibilità della celebrazione dei sacramenti. Di conseguenza, la suprema autorità della Chiesa
deve sempre di nuovo approvare e definire ciò che è necessario per la validità dei singoli
sacramenti, naturalmente senza con questo cambiare la sostanza del sacramento. I criteri di validità devono quindi essere “previsti non facoltativamente” (Joseph Ratzinger, Grenzen kirchlicher
Vollmache. Das neue Dokument von Papst Johannes Paul II. zur Frage der Frauenordination, in:
“Communio” 23 [1994], 337-245, 338), devono invece sempre tener conto dell’essenza del sacramento.
Per questo essi però non devono essere “trasmessi solo in rispettosa fedeltà”. Altrimenti c. 841 non
sarebbe valido, e non sarebbe teologicamente spiegabile il parziale grande cambiamento storico che
si deve constatare nei criteri di validità di alcuni sacramenti come per esempio la penitenza,
l’unzione degli inferni e il matrimonio.
Questa potestà giuridica sui sacramenti, la Chiesa cattolica l’ha abbondantemente impiegata, proprio
in riferimento al matrimonio. Chiare ripercussioni di questo sono le numerose disposizioni
giuridiche sugli impedimenti al matrimonio (cc. 1073-1094 CIC), le mancanze di consenso
(cc.1095-1107 CIC) e le formalità da osservare affinché si realizzi validamente lo scambio del
consenso matrimoniale (cc.1108-1117 CIC). Anche le disposizioni per rendere valido un
matrimonio non valido attraverso la cosiddetta “sanazione in radice” (cc. 1161-1165 CIC) sono
espressione di questa potestà giuridica. Infatti il procedimento di “sanazione” del matrimonio non
valido sta nel fatto che l’autorità della Chiesa attribuisce o meglio concede al “matrimonio” gli
effetti giuridici che esso per effetto della sua non validità non possiede – e questi effetti giuridici
vengono concessi addirittura retroattivamente.
Liberazione dagli effetti giuridici del primo matrimonio come opzione per il futuro
Se, in primo luogo, alla Chiesa sono affidati non solo i sacramenti in sé, ma in particolare anche la
loro organizzazione giuridica, se, in secondo luogo, la Chiesa ha già fatto fino ad ora uso in
molteplici modi di questa competenza di elaborazione giuridica nell’ambito del sacramento del
matrimonio e se, in terzo luogo la salvezza delle anime nella Chiesa deve sempre essere la norma
superiore, come si dice chiaramente nell’ultima disposizione del diritto canonico della Chiesa (c.
1752 CIC), allora, considerata la situazione giuridica dei fedeli civilmente divorziati e risposati, è
ovvia una proposta di riforma che prenda sul serio sia l’indissolubilità del matrimonio come
proprietà essenziale, sia la potestà giuridica della Chiesa sul matrimonio e, conseguentemente,
ragioni a fondo sulla cosa.
Sia il principio dell’indissolubilità del matrimonio, sia la convinzione della potestà giuridica della
Chiesa sul matrimonio dovrebbero essere collegati l’uno all’altra, così che in futuro, per ogni
matrimonio – quindi anche nel matrimonio sacramentale e sessualmente consumato – a determinate
condizioni, gli effetti giuridici derivanti dalla celebrazione del matrimonio possano essere revocati e
possa essere autorizzata una seconda celebrazione di matrimonio. Tra questi presupposti dovrebbero
rientrare, da una parte, la sincera ammissione di entrambi i coniugi, che il loro matrimonio, dal
punto di vista di entrambi, è fallito irrecuperabilmente e che nessuno si sente abbandonato dall’altro
con cattiveria. Dall’altra parte, il partner che desidera sposarsi nuovamente dovrebbe dimostrare in
modo attendibile di aver elaborato, in un processo di penitenza, il fallimento del primo matrimonio
e riconosciuto la sua parte di responsabilità, in particolare quella per propria colpa, e di
conseguenza contragga il secondo matrimonio consapevole del proprio rimorso.
Infatti “se vengono accettate la propria responsabilità ed una possibile colpa, aumenta la probabilità
di trovare una nuova prospettiva ed eventualmente di non fallire di nuovo in una nuova vita di
coppia per i motivi già precedentemente esistenti. Molte coppie, rispettivamente donne e uomini,
hanno una elevata disponibilità a porsi queste domande, poiché non desiderano altro se non che la
loro vita futura e una possibile seconda convivenza abbiano successo”, come ha indicato in maniera
sintetica, precisa e mirata il documento dell’arcidiocesi di Friburgo sull’accompagnamento di
persone separate, divorziate e risposate.
Questa proposta di riforma, di revocare a determinate condizioni gli effetti giuridici del primo matrimonio, per permettere a cattoliche e cattolici divorziati civilmente un nuovo inizio in un
secondo matrimonio, deriva da due deduzioni, che risultano dalla potestà giuridica finora esercitata
dalla Chiesa sul matrimonio: se compete alla Chiesa stabilire i criteri per la realizzazione degli
effetti giuridici di un matrimonio, allora le compete anche stabilire i criteri per la loro fine. Se la
Chiesa può garantire ad un matrimonio non valido gli effetti giuridici di un matrimonio valido,
come nel caso della sanazione in radice, allora essa deve anche poter, all’opposto, revocare gli effetti
giuridici di un matrimonio.
Dalla potestà giuridica derivante dal fatto che in certi casi la Chiesa può liberare dagli effetti
giuridici del primo matrimonio in base all’istituto giuridico della dispensa, possono essere
sottolineati in particolare due aspetti: che non viene revocato il primo matrimonio, ma vengono fatti
terminare “solo” gli effetti giuridici del primo matrimonio. La decisiva base teologico-giuridica di
questo è la distinzione tra l’indissolubilità del (concreto) matrimonio da un lato e la revocabilità
degli effetti giuridici del matrimonio indissolubile dall’altro. L’indissolubilità è la conseguenza
intrinseca del consenso al matrimonio mutuamente scambiato e quindi indisponibile, tanto per i
coniugi quanto per la Chiesa, mentre gli effetti giuridici del matrimonio indissolubile per la coppia
possono essere revocati dalla Chiesa. Perciò anche con la revoca degli effetti giuridici del
matrimonio, continua ad esistere la storia della relazione ovvero il legame stabilito dai partner
contraendo il matrimonio.
La liberazione dagli effetti giuridici del legame matrimoniale valido non rappresenta la regola, ma
l’eccezione per matrimoni falliti. Altrimenti la dottrina dell’indissolubilità non sarebbe più presa sul
serio. Conseguentemente non esiste alcun diritto dei partner a questa liberazione, ma solo la
possibilità giuridica di chiederla come concessione eccezionale. Il mezzo giuridico per questo è la
dispensa; la base per tale dispensa è l’esistenza di un giusto motivo (ad esempio un danno umano e
spirituale), in base al quale la coppia o uno/una dei due partner presenta la richiesta e l’autorità
ecclesiastica competente valuta se la liberazione dagli obblighi giuridici del legame matrimoniale,
considerato l’insanabile dissesto di quel matrimonio e la rielaborazione del suo fallimento
contribuisce al bene spirituale dei partner oppure no. Con questa nuova regolamentazione e prassi
della liberazione dagli effetti giuridici del primo matrimonio tramite dispensa, sarebbe superata in
primo luogo l’incoerenza tra indissolubilità e scioglimento del matrimonio e in secondo luogo
sarebbe alleviato lo stato di profondo disagio spirituale di molti fedeli civilmente divorziati e
risposati, nonché delle loro famiglie e delle persone incaricate della pastorale.
*Sabine Demel (nata nel 1962) è professoressa di diritto canonico all’Università di Ratisbona. Le
sue più recenti pubblicazioni presso la casa editrice Herder: Frauen und kirchliches Amt.
Grundlagen, Grenzen und Möglichkeiten, Freiburg 2012; Vergessene Amtsträger/-innen? Die
Zukunft der Pastoralreferentinnen und Pastoralreferenten, Freiburg 2013; Handbuch Kirchenrecht.
Grundbegriffe für Studium und Praxis, Freiburg, 2. Auflage, 2013.
Solo una breve nota. Il fine ultimo di questo mutamento di prospettiva è sempre e comunque l’uomo e il suo desiderio di felicità e successo cui Dio e la Chiesa devono piegarsi sempre e comunque. Cambiano i dogmi e le norme per rendere piu’ facile all’uomo la via alla felicità (terrena) e al successo. Ma è Dio al servizio nostro ovvero noi al servizio di Dio (anche con le nostre sofferenze e con l’accettazione che la felicità non è garantita in questo mondo, come le prestazioni pensionistiche e il servizio sanitario universale)?