La bicicletta e il fango. Il dibattito ecclesiale tra rassegnazione, dispositivo di blocco e esercizio della autorità


bici-fango

“Il Papa sembra aver la bicicletta giusta per pedalare fino alla meta, ma il terreno è ancora troppo fangoso. Paga una diffusa mentalità clericale da principi della Chiesa, non da servitori del Vangelo”. Con questa dichiarazione icastica Pierluigi Consorti, da canonista esperto, ha fotografato la situazione attuale del “processo riformatore”, in una intervista al “Quotidiano Nazionale” di ieri, 28/09/2020, rispondendo alle domande di Giovanni Sean Panettiere. Ovviamente questo giudizio, che ritengo pertinente, può essere utilizzato per considerare diversi aspetti della situazione attuale. Io vorrei utilizzarlo per continuare il dibattito ecumenico sulla “comunione eucaristica”, che sempre ieri ha visto un nuovo intervento, ancora in risposta a F. Ferrario, da parte di Giuseppe Lorizio, su SettimanaNews. Anche Lorizio non si mette il cuore in pace e riprende le questioni fondamentali in gioco, distinguendo i tre livelli classici di discussione ecumenica sulla eucaristia (presenza, sacrificio, ministero). Vorrei indirettamente dialogare con la sua risposta, per collocarla esplicitamente nell’ambito di quel “cambio di paradigma” senza il quale la discussione rischia di girare a vuoto.

Il “fango” in senso teologico

La affermazione sul rapporto tra bicicletta e fango, dalla quale ho preso le mosse, deve essere declinata anche teologicamente. Non vorrei, infatti, che si pensasse che il “terreno fangoso” di cui parla P. Consorti possa essere ridotto semplicemente ad “azioni di disturbo” di carattere politico, morale o burocratico, che vanno a bloccare l’azione di riforma di Francesco. Vi è un “fango teologico” che può essere rilevato in forme di “intelligenza della tradizione” che non garantiscono una reale comprensione dei fenomeni. La teologia è “pantano” se non fa le due cose alla quale è chiamata: se non offre chiarimenti, e se non salva i fenomeni. E’ molto facile che i teologi facciano abbondantemente solo una delle due operazioni, trascurando l’altra: offrono chiarimenti così profondi, che non salvano più alcun fenomeno; oppure salvano talmente ogni fenomeno che nessun chiarimento è più possibile. Per essere all’altezza dell’ “intellectus fidei” dobbiamo basarci su grandi “paradigmi di comprensione”, che però nella storia cambiano. Pensare di spiegare i fenomeni di oggi con il paradigma medievale o tridentino è, appunto, alimentare il fango e bloccare la bicicletta.

Il fenomeno da considerare e la intelligenza da predisporre

Con Giuseppe Lorizio concordo sulla vocazione “inquieta” e “non rassegnata” della teologia. Questo deve avvenire non soltanto nel tenere aperte le questioni, ma anche nell’approntare la categorie adeguate per comprendere i fenomeni. Qui ci è richiesta una grande chiarezza. Il documento “Insieme alla tavola del Signore” non è soltanto il frutto di un lavoro teologico fine da parte di un Gruppo ecumenico cattolico-evangelico, ma è anche la risposta a un fenomeno nuovo, che scaturisce da una storia imprevedibile fino a 100 anni fa. Nella storia di questo ultimo secolo, infatti, è cambiata, allo stesso tempo, l’esperienza della comunione e l’esperienza del matrimonio. Da un lato il cattolicesimo ha scoperto non solo la “comunione frequente” (a partire da Pio X) ma la messa partecipata che culmina nella comunione (a partire dal Concilio Vaticano II). Tutto questo ha rappresentato una grande rivoluzione che ha cambiato non solo le prassi, le devozioni, le abitudini, ma la stessa dottrina eucaristica. D’altra parte, contemporaneamente, è cambiato anche il modo di sposarsi, sia in termini di “libertà di scelta” del soggetto (maschile e femminile) rispetto a vincoli sociali ed ecclesiali, sia in termini di comprensione ministeriale del matrimonio. E anche questo ha mutato profondamente non solo la disciplina, ma la stessa dottrina matrimoniale. Questo è il fenomeno che la teologia deve “salvare”. Se pensasse, oggi, di “offrire chiarimenti” su comunione e matrimonio scavalcando con disinvoltura questi “fatti ecclesiali e culturali”, sarebbe inadempiente e contribuirebbe ad alzare il fango.

Il dispositivo di blocco e la sua “rinuncia” teologica

Di fronte a questi cambiamenti, che arricchiscono e modificano il paradigma classico di comprensione dell’eucaristia e del matrimonio, la soluzione più semplice è non considerarli. Fare tutto come se nulla fosse. E questa è di fatto una possibilità reale. Tale via facile può essere anche teorizzata dicendo che la Chiesa “non ha il potere” di modificare il paradigma medievale e tridentino, cioè identificando la rivelazione con una sua forma storica. Ma quando si dice così, si dimentica che il paradigma medievale e tridentino sono stati creati, a un certo punto della storia, come risposte alte ed autorevoli alle questioni “di quel tempo”. Questo modo di rispondere, di nascondersi dietro la autorità del passato, è teologicamente rinunciatario. E’ quel “mettersi il cuore in pace” che diventa sistema. E che blocca l’azione ecclesiale di riforma e di aggiornamento, sulla base di un teorema indimostrato e di una versione riduttiva e di comodo della tradizione.

Ordinamento e coscienza

Vi è poi una seconda via, più aperta, e che introduce un principio dinamico importante. E’ la via del “primato della coscienza”. Di fronte al sistema del diritto matrimoniale oggettivo, o delle relazioni ecumeniche di reciproca scomunica, si apre uno spazio della coscienza, che, rigorosamente “in foro interno”, viene riconosciuta come capace di un certo movimento. Questa è stata la profezia di “Amoris Laetitia”. Questa potrebbe essere la profezia del futuro per la cosiddetta “intercomunione”. Ma anche questa via, i cui meriti di “sblocco” del sistema sono obiettivi e devono essere riconosciuti, è un percorso incapace di incidere sulla istituzione, sulla struttura, sul riconscimento della comunione. Potremmo dire che soffre di un “deficit istituzionale”: rende possibili e accettabili forme della comunione, purché non siano pubblicamente ed ecclesialmente riconoscibili. E questo non va. Questa via, alla lunga, non è all’altezza della sapienza istituzionale e della profondità teologica della nostra tradizione cattolica. Se accettiamo una tale impostazione come orizzonte di soluzione, alimentiamo il fango e fermiamo la bicicletta. Sul piano tattico è del tutto comprensibile che si sblocchi il sistema passando da qui. Ma sul piano strategico questa soluzione è troppo intellettualistica e troppo dualistica per avere futuro: ipotizza una alternativa tra esteriorità ed interiorità che non spiega i fenomeni che dobbiamo comprendere. Mentre oggi abbiamo bisogno di “procedure istituzionali” che riconoscano la “comunione ecclesiale” quando scaturisce da condizioni “oggettivamente distorte”. C’è divorzio, ma c’è nuova comunione. C’è incomprensione tra le Chiese, ma nelle famiglie miste c’è comunione. Si tratta di accogliere la comunione esistente e possibile, senza esigere ad ogni costo la comunione ideale. Questa non è solo “strategia diplomatica”, ma è “nuovo paradigma teologico ed ecclesiale”.

Il nuovo paradigma istituzionale e teologico

Se rispondiamo alle nuove sfide restando sul piano “dogmatico-disciplinare” – e lo facciamo per il fine vita o per la comunione eucaristica, per le nuove forme di famiglia o per le nuove domande di ministerialità – comprendiamo i fenomeni in modo parziale e non offriamo veri chiarimenti. Trattiamo le questioni soltanto sul piano “oggettivo”, perdendo sia il profilo soggettivo sia il profilo intersoggettivo della esperienza. Pensare che la “comunione eucaristica” sia la “azione” che viene resa possibile solo da “corrette rappresentazioni dottrinali” o da “valide identità ministeriali” è un modo troppo semplice, troppo intellettualistico e troppo rigido di considerare i fenomeni. La storia dei soggetti implicati e le azioni che essi compiono nel rito eucaristico costituiscono non semplicemente “conseguenze di rappresentazioni dogmaticamente corrette”, ma “condizioni perché maturi una comprensione dottrinalmente fruttuosa”. In tutto questo la teologia può aiutare a correggere la lettura dei fenomeni e un loro più adeguato chiarimento, se essa vuole contribuire a “pulire la strada dal fango”, perché la bicicletta possa procedere più spedita. La teologia, che esercita in tutto questo, come ricorda S. Tommaso, una funzione magisteriale, ricorda alla Chiesa e ai suoi ministri di essere i titolari di una reale autorità sulle questioni. Papa Francesco, insieme agli organi collegiali da cui è affiancato, sa e deve sapere di poter esercitare la autorità, di avere spazi di manovra, di non dover semplicemente ripetere il passato. Il fango più insidioso, per la sua bicicletta, è la persuasione (non-teologica e addirittura anti-teologica) che la Chiesa viva oggi la migliore delle tradizioni possibili, che come tale non ha problemi. E che l’unica via di correzione possa essere la coscienza dei soggetti. Dobbiamo invece scoprire, teologicamente e pastoralmente, che le “mediazioni storiche della salvezza” esigono riforme strutturali, le quali possono diventare condizioni di esercizio della coscienza. Ci sono “segni dei tempi” che hanno grandi lezioni da dare. Teologi e pastori che siano “nati imparati”, che non abbiano nulla da ascoltare, che guardino al mondo contemporaneo solo con “timore e tremore”, e non anzitutto con “gioia e speranza”, contribuiscono, involontariamente, a far crescere il fango che blocca ogni iniziativa, ogni fenomeno da riconoscere e ogni chiarimento da offrire. Che poi la bicicletta sia mezzo sufficiente o abbia magari bisogno di una “pedalata assistita”, o forse di una “squadra di ciclisti”, o addirittura che si trasformi almeno in “motorino”, questo è un altro discorso.

 

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