La censura a Severino e la riforma della Chiesa
La morte del filosofo Emanuele Severino ha comportato, come è inevitabile, la rievocazione del suo pensiero e anche della sua storia, venata di amarezza. Molti giornali hanno ricordato come avesse insegnato all’Università Cattolica di Milano, dal 1954 fino al 1970, quando fu costretto a trasferirsi a Venezia, avendo subito un processo canonico, che stabilì la contraddizione tra il suo pensiero e la dottrina cristiana. L’oggetto della condanna fu di aver negato “la infallibilità della Chiesa”. Il procedimento vide coinvolti il Card. Carlo Colombo, il Rettore Giuseppe Lazzati, ed ebbe, come consultore del S. Ufficio, il prof. Cornelio Fabro. E’ singolare che, in modo generalizzato, tutto questo oggi venga ritenuto normale. Certo purtroppo lo fu allora, e sarebbe un grave anacronismo giudicare le cose di 50 anni fa come se fossero attuali; ma oggi, in occasione della morte del filosofo, non sarebbe il caso che la Chiesa cattolica, in buona coscienza, riesaminasse almeno alcuni aspetti di quel procedimento? Provo ad illustrarne almeno tre.
a) Il legittimo dissenso
E’ del tutto normale che si rilevi criticamente nel pensiero di Emanuele Severino una critica radicale alla fede, alla rivelazione, alla creazione, a Dio e persino ad ogni esperienza. Il divenire, essendo negato, conduce ad una affermazione dell’essere di ogni ente, che differisce solo perché o appare o non appare. La “struttura originaria” del suo pensiero è affascinante e conturbante. Uno tra coloro che con maggior lucidità l’ha esaminata è proprio quel Cornelio Fabro che ha costruito il fascicolo con cui il suo pensiero è stato formalmente ritenuto in contraddizione con la rivelazione, perché immanentistico e attualistico. Ma il potere della Chiesa in ambito filosofico resta una pretesa pre-moderna. Che trova in Aeterni patris la sua versione ottocentesca e in Humani generis la sua versione novecentesca. Ma il Concilio Vaticano II ci ha insegnato la autonomia delle realtà temporali. Tra cui, dobbiamo riconoscerlo, sta anche il pensiero filosofico.
b) La differenza tra filosofia e teologia
Il giudizio sul pensiero di un teologo, che si occupa direttamente della tradizione cristiana, prevede inevitabilmente un giudizio sulla eventuale contraddizione tra le sue affermazioni e quelle considerate tradizione del depositum fidei. Su questo può essere discusso il modo e il metodo, ma il merito è pacifico. Invece, a proposito di un filosofo, il sindacato sulla sua “compatibilità con la rivelazione” appare, oggi sicuramente, una pretesa esorbitante. Il mestiere del filosofo, nella sua delicata autonomia, non prevede un controllo “ex auctoritate”. La ragione filosofica, per metodo e per vocazione, procede per evidenza, non per autorità. Così, salvaguardare uno spazio franco per il pensiero, anche nell’ambito di una Università cattolica, oggi è diventato, io credo, un elemento di necessaria qualificazione. Proprio la “pretesa salvifica” del pensiero di Severino avrebbe potuto essere custodita all’interno della istituzione, piuttosto che scomunicata all’esterno. L’idea che la filosofia debba essere “cattolica” è pur sempre un paradosso…
c) La fecondità del dibattito
In terzo luogo, proprio il fatto che un pensiero così forte, e così discutibile, alimentasse un dibattito vivo, ben al di fuori della Università cattolica, avrebbe potuto garantire, proprio all’interno di una istituzione cattolica, una fecondità quasi inesauribile. In positivo e anche in negativo: trovare argomenti, disputare, confutare, scoprire i punti deboli, apprezzare i punti di forza. Lo sviluppo di tutto questo avrebbe permesso ben altro esito, tanto per la istituzione quanto per lo stesso pensatore.
Per questo, non senza qualche stupore, mi colpisce il fatto che, alla notizia della morte di Emanuele Severino, nessuno abbia pensato che fosse giunto il momento di fare il punto e di purificare la nostra memoria. Non si tratta, tuttavia, di condannare coloro che hanno allestito questa inquisizione o di diffidare di coloro che hanno proclamato o accettato una decisione tanto grave. Né si tratta di riabilitare un pensiero che resta, nel suo fascino, altamente problematico. Si tratta, piuttosto, di accettare e di confessare un cambiamento di stile e di metodo. Misurarsi davvero con la “società aperta” significa cambiare i metodi con cui si accede alla verità. E’ vero che, dopo quello di Emanuele Severino, nessun pensiero filosofico risulta sia stato più indagato in questo modo inquisitorio. Ma alla Chiesa non è sufficiente interrompere una pratica distorta. Essa deve esplicitamente prendere le distanze da quel modo di intendere la garanzia della verità, in forma chiara e ufficiale.
Alla fine del film “Salvate il soldato Ryan”, il vecchio soldato, per salvare il quale 60 anni prima erano morti tanti compagni d’arme, torna sulle loro tombe e chiede ai figli e ai nipoti: “Ditemi che ho vissuto bene”. Aver meritato tanta dedizione gratuita aveva dischiuso a Ryan una vita preziosa, da non sprecare. In modo analogo, ma a parti capovolte, la Chiesa cattolica potrebbe, sulla tomba del filosofo che negava il divenire, non interrompere la discussione, non sospendere le critiche, non addolcire le confutazioni, ma spogliarsi del potere di escludere e acconsentire ad una differenza nella comunione. La esigenza di una profonda revisione delle “pratiche del consenso” è in realtà uno dei profili più urgenti su cui la Chiesa cattolica attende reali processi di riforma e di conversione. Anche la morte di un filosofo, di cui ci si è preoccupati di condannare il pensiero, può aiutarci ad uscire dalla ossessione della condanna. E può aprire il cuore sul confronto anche più profondo, sulla critica più radicale, ma salvaguardando le autonomie dei campi di indagine e le differenze di prospettive nello sguardo. La pretesa di una Chiesa, che detti al filosofo una ontologia normativa, è una tragica illusione, che speriamo sia morta per sempre. La morte di chi ne ha subito la logica arcaica potrebbe essere occasione propizia per dirlo apertis verbis, tanto per la sua quanto per la nostra dignità.
Severino ha riconosciuto lui stesso che il suo pensiero era incompatibile con la rivelazione cristiana. Si legga la sua filosofia della prassi e la valutazione del sapere per fede e per ragione e l’opposizione del secondo al primo non permette alcun dialogo. dalla sua scuola sono nati tantissimi agnosticie tei che hanno insegnato nei licei volutamente contro la fede e e la Chiesa. Inoltre la sua filosofia se osserva bene non è stata recepita da nessuno. Questo vuoto attorno a lui e l’impossibilità di dialogo nelle sue conferenze e una sorta di autorità contro tutti non ha giovato al suo pensiero. Hedeiggeriano non ha aiutato a comprendere l’ “essere” e il suo senso. Inoltre ha svelato il lato debole di Bontadini la cui filosofia, acttolica non ha lasciato garndi eredi
Grazie per le osservazioni, che largamente condivido. Certamente la impostazione del pensiero severiniano non è né dialogica né disponibile ad un confronto con la fede, che non si traduca in una critica “ontologica” della fede stessa. Ma questo non significa che un pensiero filosofico autosufficiente, come quello di Severino, non possa costituire comunque un interlocutore serio del pensiero credente. E che quindi possa restare come interlocutore possibile dal punto di vista anche istituzionale. La Chiesa sarebbe stata più forte nel tenerlo con sé piuttosto che nell’allontanarlo da sé. E’ anche vero che le radici di Severino sono in Bontadini, sia pure con una radicalizzazione di cui Severino è stato l’unico responsabile. Ma in queste genealogie occorre controllare molto bene le responsabilità, perché altrimenti si ritorna neoscolastici in un istante.