La comunione del non cattolico: dal pericolo di morte alla comunità di vita e di amore


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Una serie di reazioni alla Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede del 25 maggio 2018 ci permette di svolgere qualche considerazione sulla portata di questo testo e sulle conseguenze che potrà avere nel vissuto ecclesiale di cui si occupa.

1. La questione in gioco

La prospettiva di “comunione eucaristica” per soggetti appartenenti a tradizioni cristiane protestanti non può certo essere impostata sulla base del can 844, 3-4. Di fatto questa sembra essere la via scelta dal testo tedesco e su questa via rischia di restare soffocata la prospettiva nuova che tale testo della Conferenza episcopale tedesca vuole proporre per indicare la via di una comunione possibile. In effetti il testo del canone parla di accesso ai sacramenti (eucaristia, penitenza e unzione) anche da parte di soggetti non cattolici a condizione che:

– vi sia pericolo di morte o altra grave necessità

– che il soggetto “manifesti la fede cattolica” e sia ben disposto

Come è evidente questo canone legge il possibile “Einzelfall” (caso particolare) nell’ottica di una condizione in extremis, e nella prospettiva di una “conversione”. Questo è il massimo che la legge canonica può prevedere, almeno oggi. Ma questo resta largamente al di qua della questione oggi sul tappeto. Vediamone meglio le argomentazioni

2. Le argomentazioni e i riferimenti

Due interventi pubblicati su SettimanaNews ci aiutano in questa riflessione: un commento di W. Kasper ( http://www.settimananews.it/sacramenti/una-controversia-inutile/) , e una toccante testimonianza da parte di un fedele luterano (http://www.settimananews.it/sacramenti/la-disputa-vista-dallaltra-parte/) . Da punti di vista diversi, i due testi ci permettono di notare alcune questioni decisive:

a) La domanda “pastorale”, se vuole occuparsi davvero della crescita dei soggetti nelle forme di vita in cui costruiscono la loro esistenza, non può essere affrontata mediante il riferimento al can 844. La questione non riguarda “stati di necessità”, ma “forme di vita”. I pastori non possono affrontare la questione con criteri sbagliati, perché così compromettono tutto, condizionando il rapporto con le “vite” mediante categorie che non corrispondono alla esperienza dei soggetti. La “singolarità” del caso non è, lo ripeto, dovuta al “contrarsi dello spazio e del tempo”, ma al “distendersi dello spazio e del tempo”: un uomo cattolico e una donna protestante, in quanto marito e moglie, possono condividere non solo la mensa di casa, ma anche quella della Chiesa?

b) I riferimenti debbono essere trovati, piuttosto, come suggerisce Kasper, in alcuni precedenti importanti: UR 8, Ut unum sint e Ecclesia de Eucharistia pongono le premesse per una “communicatio in sacris” che apra vie di comunione effettiva, fondate su una condivisione sacramentale pensata non semplicemente come un “premio” per la raggiunta concordanza dottrinale, ma piuttosto come un “farmaco” e come un “aiuto” per comprendere meglio la unità nella differenza. Tenendo conto che la comunione eucaristica è il grado più ricco e insieme più elementare della esperienza di comunione.

c) I sacramenti, ai quali deve essere aperta la prospettiva di comunione non sono quelli del “coniuge morente”, ma del “coniuge vivente”. Qui, come è evidente, un intero mondo di argomentazioni e di attenzioni è destinato a tramontare; una “forma mentis” deve essere corretta e riorientata. La forza di una “azione comune” in Cristo deve prevalere su una rappresentazione di verità, cui il soggetto aderirebbe mentalmente e individualmente. L’implicito della lettera pensa la esperienza sacramentale della comunione eucaristica come se la Riforma Liturgica non ci fossa mai stata! Pensa alla ricezione “comune” del frutto di grazia, non alla comune celebrazione dell’evento di salvezza.

d) Infine, ma dovremmo dire anzitutto, nella lettera della Congregazione, che pure si dice giustamente consapevole del cammino di costruzione di maggiori esperienze di comunione operato dall’ecumenismo, non viene dedicata alcuna attenzione ad un punto che sistematicamente e dottrinalmente dovrebbe risultare decisivo: il rapporto “coniugale”, al cui interno si può aprire una comunione sacramentale, garantisce una comunione effettiva e reale, di cui il sacramento è figura. I coniugi dovrebbero essere autorizzati ad essere quello che già sono? La loro condizione di “coniugi”, in altri termini, li rende “esperti” di comunione, in una forma del tutto particolare, e che la Chiesa deve saper riconoscere, con strumenti nuovi.

3. La nuova rilevanza della famiglia e del matrimonio

In effetti, il cammino ecumenico, così come si presenta nella proposta dei Vescovi tedeschi, registra, evidentemente, il nuovo ruolo di “soggetto” che la famiglia ha gradualmente acquisito lungo il XX secolo. Questo cammino ha riconosciuto alla famiglia la qualità di “chiesa domestica”, di soggetto di evangelizzazione, di testimonianza e di culto. Ora, nel testo della Lettera firmata da Mons. Ladaria, non solo non vi è traccia di questa coscienza, ma si continua ad affidare ogni autorità soltanto al Vescovo. Qui vi è un “cono d’ombra”. Se la questione della “comunione”  riguarda una “vita familiare”, alla autorità del Vescovo si associa, inevitabilmente, quella dei singoli coniugi e della loro “comunione di vita e di amore”. Se vi è comunione di vita  e di amore in Cristo, credo che nessuno dei coniugi, per quanto di confessioni diverse, possa essere tenuto lontano dal banchetto eucaristico. Lo Einzelfall, ossia il giudizio sul caso particolare, dovrebbe valere per la esclusione, non per la inclusione. Dove vi è matrimonio tra soggetti di diverse confessioni, il primato della eucaristia esigerebbe l’accesso ordinario del coniuge non cattolico alla mensa cattolica. Salvo quando vi sia motivo per negarlo. Insistere anche solo nel dire il contrario, restando nella prospettiva del can 844, non significa custodire la verità, ma contribuire a sottrarne ogni residua evidenza.

4. Una irrilevanza di Amoris Laetitia?

Aggiungo, da ultimo, una annotazione che viene dal riflesso di luce con cui il testo di AL avrebbe dovuto influenzare la Lettera della Congregazione. Infatti questo “magistero matrimoniale”, di cui con tanta facilità si parla nei discorsi astratti, diventa facilmente irrilevante quando ci si pone di fronte a questioni “giuridiche” e di “autorità”.  Uno dei grandi meriti di AL, come si è detto molte volte, è stato proprio di riconoscere ai coniugi una vera autorità, cui corrisponde, lucidamente, un magistero che non deve risolvere tutte le questioni.

Nel nostro caso il discorso classico pensa l’accesso al sacramento come “caso limite” che prelude o alla morte o alla conversione. I sacramenti evocati sono, in effetti, viatico, confessione e unzione. Sia pure solo “in extremis”, era una forma con cui il sistema “restava aperto”, ma solo all’estrema sua periferia  e senza riconoscere alla vita matrimoniale alcuna autorità. Prendeva in considerazione il “singolo fedele”, non la “coppia”. Oggi abbiamo bisogno di un cambio di paradigma e di una rivoluzione culturale, che pensi i sacramenti “aperti” al coniuge di altra confessione:

– non solo come “amministrazione”, ma come “celebrazione”;

– non solo per scongiurare la morte, ma per nutrire la vita.

La Lettera della Congregazione elabora dunque la questione con categorie vecchie e con prospettive di corto respiro. Dimostra però di essere consapevole che occorre ancora lavorare e approfondire. Per rispondere davvero alle sfide di oggi, che sono ben presenti alla esperienza della Chiesa tedesca, la comunione ecclesiale esige la elaborazione coraggiosa di altre categorie, che possano nutrire una più convincente lungimiranza. In questo ripensamento un ruolo assolutamente decisivo è costituito  dal valore “originario” e “fontale” della comunione eucaristica, di cui ogni Chiesa deve riconoscersi anzitutto serva, e non padrona. In questo comune servizio, che ogni tradizione non può mai pretendere di ridurre integralmente alle proprie categorie dottrinali e disciplinari, si aprono gli spazi effettivi e praticabili per una comunione più ampia e più piena.

 

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