La difficile coesistenza di diverse forme storiche del rito romano




Già nel mese di settembre questo intervento era comparso sulla rivista “La Croix”; ora è stato ripreso anche dall’autorevole “Documentation Catholique”: nel dibattito sulla “forma straordinaria del rito romano” entrano con lucidità due professori dell’Università di Lovanio. Meritano di essere ascoltati con attenzione.





L’antico rito liturgico romano e quello attuale possono coesistere senza
conseguenze?

di Joris Geldhof e Arnaud Join-Lambert (professori di liturgia all’Università cattolica di
Lovanio)
in “La Croix” del 10 settembre 2011 (traduzione: www.finesettimana.org)

L’istruzione Universae Ecclesiae  del 13 maggio sull’antico rito romano tridentino è stata talvolta
accolta come una “pacificazione” in Francia, il solo paese in cui di fatto costituisce un problema
pastorale non marginale. I problemi legati alla coesistenza di due forme di uno stesso rito sono
risolti? I liturgisti professori di facoltà di lingua francese, tedesca, olandese e italiana hanno tutti
rilevato nel 2007 le difficoltà inedite poste dal motu proprio che facilitava l’antico rito. Eppure
nessuno di loro è un iconoclasta anticlericale, al contrario. Insistevano sulle conseguenze di una
dissociazione tra la lex orandi (la regola della preghiera) e la lex credendi (la regola della fede). La
liturgia attuale è l’espressione di una teologia in parte diversa dall’antica. Evidentemente questo non
riguarda il cuore della fede cristiana. Tuttavia, le differenze teologiche non sono trascurabili. Per
evidenziare le poste in gioco teologiche, cominciamo con le tre contro-verità presenti negli ambienti
tradizionalisti.
1) La riforma liturgica sarebbe stata fatta da un gruppetto di intellettuali, andando al di là del
mandato affidato da Paolo VI.
Qualsiasi studio imparziale stabilisce senza difficoltà la continuità tra il movimento liturgico nato
all’inizio del XX secolo, la sua crescita fino al Concilio, ai lavori conciliari e all’attuazione delle
decisioni. Nel 1956, Pio XII definiva già il movimento liturgico “passaggio dello Spirito Santo
nella sua Chiesa”. La riforma decisa nel 1963 non è sorta dal nulla. E la composizione dei libri
liturgici attuali è stata un lavoro gigantesco e minuzioso realizzato da molti vescovi e teologi di tutti
i continenti.
2) L’attuazione della riforma liturgica sarebbe stata caratterizzata da molteplici errori ed abusi.
Non esiste a tutt’oggi alcuno studio scientifico su quel periodo e su quegli abusi. E che cos’è un
abuso in questo ambito? Come c’erano molti preti disarmati per mettere in atto questa riforma, così
è infondato presentare gli anni 1969-1975 come un vasto periodo di confusione. La crisi sociale a
partire dal 1968 ha provocato nella Chiesa un profondo sisma ed una grave crisi di identità.
Attribuirne la responsabilità alla riforma liturgica è una semplicistica scorciatoia. Il rinnovamento
liturgico è stato e resta fonte di progresso per la vita della grande maggioranza dei cattolici.
3) La restaurazione della forma antica della liturgia sarebbe un adattamento liturgico e nient’altro.
Anche se certi non contestano il Vaticano II partecipando a delle celebrazioni secondo l’antico rito,
non si possono però trascurare le incidenze teologiche, come se l’arricchimento teologico del
Messale attuale fosse negato. Significa dimenticare l’accento posto ad esempio sulla partecipazione
attiva e consapevole di tutti, la proclamazione biblica arricchita, l’invocazione dello Spirito Santo
nella preghiera eucaristica, ecc. Andiamo ancora più in là con l’antico Rituale romano, anch’esso
autorizzato. Ricorrervi equivale a minimizzare, se non a rigettare dei progressi teologici e pastorali.
Per il matrimonio, si mantiene un’antropologia medioevale accanto ad una interpretazione moderna
delle relazioni uomo-donna nel nuovo rituale. Che dire allora dell’estrema unzione, che torna nella
pratica dei tradizionalisti, mentre il Vaticano II l’aveva modificata in unzione degli infermi per
allargare la celebrazione ai malati non in situazione di agonia? Molti altri esempi mostrano quanto
la riforma sia stata un progetto sistematico e teologico, supportato da un aggiornamento ai bisogni
degli uomini e delle donne del nostro tempo.
Che fare allora? La cosa più urgente è la formazione dei preti e dei seminaristi. Essere consapevoli
di tutte le dimensioni della liturgia è essenziale per acquisire un’autentica ars celebrandi, un’arte  di
celebrare che sveli la ricchezza delle liturgie. Suggerire che i seminaristi siano formati al rito
tridentino, come dice l’istruzione, rientra in un approccio ritualistico, quasi che basterebbe saper
fare per fare bene. Invece, bisogna prima “entrare” in un rito, nella sua spiritualità, nella suateologia, nella sua portata mistagogica. Non sono due forme intercambiabili. Del resto è urgente
formare ad una teologia liturgica negli istituti tradizionalisti, sulla base della Costituzione conciliare
sulla santa liturgia.
Giovanni Paolo II aveva autorizzato nel 1984 la celebrazione con l’antico Messale per motivi
unicamente pastorali, permettendo a delle persone di continuare a nutrire la loro fede senza seguire
Mons. Lefebvre. L’Istruzione prosegue l’allargamento iniziato nel 2007. È legittimo chiedersi se
questo sia veramente opportuno. Incoraggiare una sorta di bi-ritualismo inedito nella storia appare
rischioso. Sarebbe irresponsabile non esaminare i problemi teologici legati alla liturgia in tutta la
loro complessità.

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