La domanda nuova e il movimento “in uscita”
Su “Settimana” (33/2015) esce oggi un nuovo contributo della rubrica Si.No.Do. Questioni intersinodali. Eccone il testo
La domanda nuova e il movimento “in uscita”
Una grande novità, maturata solo alcuni giorni fa, e che entrerà in vigore a partire dall’ 8 dicembre prossimo, è venuta dalla riforma del processo canonico per la dichiarazione della nullità del legame matrimoniale, decisa col Motu Proprio “Mitis Iudex Dominus Iesus” da papa Francesco. Ciò che prima avveniva secondo una procedura complessa, lenta e spesso cavillosa, potrà essere portato a termine con rapidità, prossimità e prezzi ridotti. Il tutto, poi, verrà ricondotto alla “competenza episcopale”, con una intenzione che non è soltanto giuridica, ma pastorale ed ecclesiale.
E’ naturale chiedersi in quale rapporto debba essere posto questo provvedimento rispetto al prossimo Sinodo dei Vescovi. Vi è chi ha detto, con qualche ragione, che questa riforma semplifica il compito del prossimo Sinodo. Ma occorre intendersi bene su che cosa significhi questa semplificazione. Senza dubbio essa consiste nell’aver liberato il Sinodo dal dover provvedere su questa materia “processuale”. Ma se si pensasse che la semplificazione consista nell’aver già assunto il Papa le decisioni che spettano al Sinodo, allora questa interpretazione risulterebbe non solo azzardata, ma anche pericolosa. Vediamo perché.
La domanda sul passato
Vi è una “domanda classica”, con cui la tradizione medievale e moderna ha cercato di dare risposta alle “crisi familiari” – e che resta ancora oggi una domanda del tutto legittima. A tale domanda tradizionale la Riforma del Codice potrà offrire una risposta più efficace, più accessibile e meno “autoreferenziale”. Questa domanda classica potrebbe essere così formulata: “Il legame matrimoniale che vincola i soggetti oggi in crisi è veramente esistito al suo inizio?” Tale domanda è del tutto legittima, corrisponde a vissuti reali e interpreta una parte delle vicende che i cristiani hanno sperimentato e sperimentano nel corso della loro vita matrimoniale. Il problema, tuttavia, sorge quando questa domanda acquisisce la caratteristica di essere l’unica domanda possibile per rimediare alla crisi dei soggetti in relazione. Infatti tale domanda, nella sua parziale validità anche per l’oggi, non riesce ad intercettare la gran parte delle “cause di crisi” che le famiglie sperimentano da almeno un secolo. In queste crisi la domanda centrale non può più essere rivolta soltanto al passato, ma deve interrogare il presente e il futuro. Dio, per tutti questi casi di crisi, non sta solo in un “inizio assoluto” delle nozze, ma in una presenza attuale e misericordiosa e in una speranza aperta per l’avvenire.
La domanda sul futuro
Se questo è il nostro tempo, con le sue gioie e i suoi dolori, occorre allora considerare l’emergere di un’altra domanda che, senza smentire la possibilità di sollevare ancor oggi la domanda classica, la integra, la amplia e la traduce nel contesto attuale. Come ha detto di recente un bravo teologo, la domanda classica sulla fragilità dell’nizio genera una pretesa imbarazzante di “riduzione al nulla” di tutto il rapporto coniugale: ma occorre riconoscere apertamente che “non può mai essere come se non fosse accaduto nulla”. Per evitare che in futuro un “matrimonio difficile” possa essere considerato, con troppa facilità, un matrimonio mai esistito, occorrerà predisporre, anche per i singoli, gli strumenti per superare le difficoltà presenti o per elaborare il lutto di ciò che è passato ed aprirsi al nuovo. Non di rado, infatti, nelle storie dei soggetti implicati, la rimozione del passato è l’errore più grave, al quale la Chiesa non dovrà fornire alibi. Dovremo dunque avere la forza di cambiare la domanda con cui intercettiamo queste “storie di vita”: dovremo chiederci, in altre parole, quale peccato possa essere superato e quale grazia sia possibile, vivibile e sopportabile, oggi e domani, da parte dei coniugi. La loro “storia”, la loro “coscienza”, la loro “libertà nella comunione” diventerà il centro di una “cura ecclesiale” impostata non sulla “indagine del passato”, ma sulla dinamica del presente verso il futuro. Una “pastorale non giudiziaria”, in altri termini, potrà scaturire soltanto se, accanto a questa giusta riforma del Codice di Diritto canonico, il Sinodo saprà proporre una riforma del “codice comportamentale” della pastorale, del modo di parlare e di ascoltare, dello stile del giudicare e del consolare, delle forme dell’accompagnare e del consigliare.
Una pastorale “non giudiziaria”
La Riforma del Codice e delle procedure è stata fatta con giusta sollecitudine, con il lavoro di una commissione e sotto la responsabilità diretta di Papa Francesco. La riforma pastorale dovrà passare attraverso il necessario confronto con tutti i Vescovi nella mediazione sinodale. Dovendo intercettare le differenti chiese e le diverse culture, avrà bisogno di molte sfumature, di tante attenzioni e di molta sapienza.
Comunque sia, un dato risulta chiaro; ciò che con la Riforma del Processo è iniziato non potrà restare senza seguito. Se ad una riforma delle procedure per la nullità non si accompagneranno riforme della pastorale per andare incontro ai matrimoni “falliti” (ma non nulli), l’effetto sarà soltanto quello di una grave “distorsione”: se alla rapidità processuale corrisponderà un immobilismo pastorale, ogni movimento passerà inevitabilmente per le procedure, con esiti molto problematici e carichi di non poca ipocrisia.
La Riforma del Codice non è solo un “fatto”, ma anche un “monito”: invita ogni Vescovo della assemblea sinodale a fare la propria parte. Il papa ha fatto la sua, ora tocca al Sinodo mostrare la propria determinazione nel dare alla Chiesa gli strumenti per sanare le ferite delle famiglie infelici e per dare speranza alle comunioni ingiustamente impossibili. Per farlo dovrà sapere anzitutto ascoltare le voci che pongono la “domanda nuova”, senza pretendere di ridurre tutta la cura pastorale soltanto a “forme processuali rinnovate”.
Per essere “in uscita” una Chiesa deve imparare a muoversi. Ma per muoversi deve sbilanciarsi. Se volesse restare sempre in equilibrio, diventerebbe come una statua. Ma se si sbilancerà, dovrà imparare a muovere entrambe le gambe: quella giudiziaria e quella pastorale. Altrimenti cadrà.