La foresta, l’ambone e l’altare: l’Amazzonia e il ministero femminile
Se si legge bene il testo della Lettera alla Congregazione per la Dottrina della Fede, si nota che la più esplicita anticipazione di quanto deliberato nel Motu Proprio “Spiritus Domini”, sulla estensione alle donne del ministero del lettorato e dell’accolitato, viene dal Sinodo sulla Amazzonia. Si tratta di una citazione tratta dal Documento Finale (non da Querida Amazonia) del Sinodo, nella quale si dice:
“Nell’orizzonte di rinnovamento tracciato dal Concilio Vaticano II, si sente sempre più l’urgenza oggi di riscoprire la corresponsabilità di tutti i battezzati nella Chiesa, e in particolar modo la missione del laicato. L’Assemblea Speciale del Sinodo dei Vescovi per la regione Pan-Amazzonica (6-27 ottobre 2019), nel quinto capitolo del documento finale ha segnalato la necessità di pensare a “nuovi cammini per la ministerialità ecclesiale”. Non solo per la Chiesa amazzonica, bensì per tutta la Chiesa, nella varietà delle situazioni, «è urgente che si promuovano e si conferiscano ministeri a uomini e donne … È la Chiesa degli uomini e delle donne battezzati che dobbiamo consolidare promuovendo la ministerialità e, soprattutto, la consapevolezza della dignità battesimale» (Documento finale, n. 95).” (LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL PREFETTO DELLA CONGREGAZIONE PER LA DOTTRINA DELLA FEDE CIRCA L’ACCESSO DELLE DONNE AI MINISTERI DEL LETTORATO E DELL’ACCOLITATO)
Questa citazione, con tutta la sua autorevolezza, è resa possibile per il fatto che Querida Amazonia non ha “assorbito” in sé il Sinodo, ma ha lasciato nella piena vigenza magisteriale il testo del Documento Finale, come dice espressamente all’inizio del testo. Abbiamo così la prova che era errata la interpretazione ufficiale – diffusa dalla Sala Stampa del Vaticano – che, contraddicendo il testo di QA, pretendeva di negare al Documento Finale valore magisteriale. Riprendo qui sotto il ragionamento che già quasi un anno fa dava sostegno ad una interpretazione che ora viene suffragata dalla realtà.
Come aveva detto in QA, Francesco ha usato “come magistero” il testo del Documento Finale, diverso da QA, ma integrato in QA. Questo significa conferire una nuova vitalità al magistero sinodale. Questo è essere “uomini di parola”.
Il Sinodo e la natura della dottrina. Alcuni chiarimenti formali intorno a “Querida Amazonia”
di Andrea Grillo
Tra i temi che sono diventati oggetto di dibattito, immediatamente dopo le ore 13 del 12 febbraio, con la presentazione della Esortazione Querida Amazonia, mi sembra che meriti attenzione la riflessione, spesso esasperata, sul “valore magisteriale” di QA in rapporto al documento finale (=DF) del Sinodo. Se qualcuno ha parlato di ”enigma” (Prezzi) è perché vi sono in atto elementi di “trasformazione” dell’esercizio stesso del magistero che mettono in imbarazzo i commentatori.
A ciò va aggiunto che, proprio sul versante ufficiale del Vaticano, durante la conferenza stampa, è venuta una “versione ufficiale” del rapporto tra i due testi – uno è magisteriale, l’altro no – che desta grande sorpresa, perché non rispetta la complessità dell’oggetto di cui si stava parlando. Per questo motivo credo sia utile fissare alcune delimitazioni al “libero dibattito” che, come sempre, può e deve seguire la approvazione di un documento ufficiale. Aggiungo, ancora in premessa, che in questa delimitazione non è fuori luogo che alcuni teologi (Faggioli, Cosentino, Albarello) abbiano preso la parola in modo anche dialettico, ma recando sicuramente un contributo prezioso, che può aiutare i giornalisti ad esercitare la loro funzione informativa in modo più adeguato. Come dunque possiamo “delimitare” il campo della discussione, in modo ragionevole? Definiamo due punti ciechi.
1. La pretesa di una assoluta differenza qualitativa tra QA e DF
La prima posizione, che in questo caso non può essere sostenuta, neppure se si riveste un ruolo ufficiale, è che l’unico elemento magisteriale da considerare sia QA, mentre DF sarebbe soltanto un documento “interno” all’iter di preparazione di QA. Questa posizione tradisce una debolezza abbastanza sorprendente. Perché sembra non aver letto il testo di QA nei suoi primi numeri. Come si fa sostenere che QA abbia “sostituito” DF, se QA dice, esplicitamente, di non volerlo sostituire? Come è stato messo bene in luce, soprattutto da Prezzi e da Faggioli, ma anche da Mons. Fernandez e dagli stessi Card. Czerny e Hummes, la novità consiste proprio nel fatto che QA decide, esplicitamente ed apertamente, di non sostituire DF. Dunque rimanda a DF per tutte le questioni di cui non si occupa direttamente. Ovviamente qui il rimando a DF è un rimando “condizionato”, dato che DF non è documento operativo, ma propositivo. Perciò, come si è già osservato, DF non può decidere perché rimanda la decisione a QA, ma QA si astiene dal decidere e rimanda ai contenuti di DF. Per un Sinodo, in cui obiettivo è assumere decisioni, sembra un po’ poco.
2. La confusione tra i due testi
La seconda posizione, anch’essa forzata, vorrebbe trascurare la differenza tra QA e DF e rilanciare immediatamente, come se fossero testi della Esortazione, i testi di DF. Questa via opposta tende ad affermare, a tutti i costi, un “concordismo” e una “continuità” tra i due documenti che invece pare problematica e che comunque esige una delicata mediazione. Forse la variabile decisiva, in questo caso, non è tanto quella del tempo – in futuro sivedrà – ma quella dello spazio – altrove rispetto a Roma. La distanza da Roma permette di vedere molta più sintesi di quanto non possa essere colta, immediatamente, collocandosi alle fondamenta del cupolone. Perciò bisogna distinguere bene tra chi solo per opportunismo cerca di “mescolare le carte” e mettere tutto in fila, senza salti, e chi, invece, per diversa esperienza ecclesiale e per diversa urgenza pastorale, sa che il risultato del cammino sinodale è comunque molto più grande che singoli punti di evoluzione disciplinare.
3. La interpretazione dei testi e la resistenza dei testi
In ultima analisi, mi parrebbe utile delimitare il campo dell’ampio dibattito, considerando queste due posizioni-limite come forme “ideologiche” di lettura dei testi.
Da un lato posso capire che vi sia l’interesse a “fare chiarezza” e che, per evitare la confusione, si propongano soluzione drastiche, come quelle che ho indicato. Ma queste risoluzioni, che certo mirano alla prudenza, sono in realtà gravemente imprudenti, perché aumentano anziché diminuire il conflitto. Le “interpretazioni autentiche”, infatti, devono rispettare il testo che interpretano. Non possono fargli dire quello che non dice. Chiarire il testo non significa non fagli dire quello che dice o fargli dire quello che non dice. Per questo, io credo, sarebbe utile che al comunicatore fosse sempre affiancato anche un “esperto” del contenuto. In questo caso un canonista e un teologo possono chiarire meglio le relazioni tra i testi ed evitare illusioni concordiste o opposizioni irriducibili. Comunque, una volta pubblicato, il testo esige sempre letture competenti. Il testo resiste a chi voglia costringerlo a dire quello che non dice. Il testo dice ostinatamente ciò che si vorrebbe non dicesse. Per questo il suo chiarimento non si riduce mai soltanto all’esercizio della autorità, ma chiede anche un “sapere sui segni e sui sogni” e una “coscienza dei lampi e degli enigmi”. Da questo punto di vista, per tutti coloro che comunicano nel campo delicato della “dottrina cristiana”, dovrebbe sempre valere il duplice principio: bisogna offrire chiarimenti e insieme salvare i fenomeni. Anche per comprendere la “natura della dottrina sinodale” questi due principi devono essere rispettati, anche se non è cosa facile. Se manca uno dei due – cioè se i chiarimenti si mangiano i fenomeni, o se i fenomeni non permettono più chiarimenti – la confusione è destinata solo ad aumentare.
Meditazioni per i pastori
Gennaio 21, 2021 / gpcentofanti
Maria stella del mattino, porta del cielo, salute degli infermi, rifugio dei peccatori. Il Magnificat. Le nozze di Cana.
Viviamo un tempo di grandi sofferenze di molti. Un pastore come può vivere il suo cammino? Cristo dalla croce ci ha dato Maria per mamma. Ci ha detto Gesù di rivolgerci a lei così come Maria ha incoraggiato i servi alle nozze di Cana a fidarsi di ciò che Gesù avrebbe loro detto. Ed è stata una grazia questo suggerimento perché Cristo ha chiesto ai discepoli un atto di fede non facile, come quello di portare l’acqua delle giare da essi riempite al maestro di tavola, come fosse vino. In una festa di nozze.
Maria è stata la prima ad accorgersi dei bisogni di quelle persone. Molti non hanno nemmeno mai saputo dei problemi che stavano emergendo. Dunque chiedere aiuto a Maria, con fiducia. Ave Maria. Con tale fiducia ascoltare quello che ci può dire Cristo, senza fermarci in logiche esclusivamente terrene.
Dunque un aiuto ad uscire da calcoli, prudenze, uscire dal sapere tutto io. Uscire dai pur talora inizialmente utili corsi di fede ed entrare a tempo debito in cammino, personale e comunitario, di fede. “Il Signore disse ad Abram:
“Vàttene dal tuo paese, dalla tua patria
e dalla casa di tuo padre,
verso il paese che io ti indicherò.
Farò di te un grande popolo
e ti benedirò,
renderò grande il tuo nome
e diventerai una benedizione.
Benedirò coloro che ti benediranno
e coloro che ti malediranno maledirò
e in te si diranno benedette
tutte le famiglie della terra”
Allora Abram partì, come gli aveva ordinato il Signore, e con lui partì Lot. Abram aveva settantacinque anni quando lasciò Carran. Abram dunque prese la moglie Sarai, e Lot, figlio di suo fratello, e tutti i beni che avevano acquistati in Carran e tutte le persone che lì si erano procurate e si incamminarono verso il paese di Canaan” (Gn 12, 1-5).
Lasciarsi portare nella fede che è Dio che dà vita sempre nuova, spirituale e umana, attento a tutta la persona, ai suoi bisogni. Cosa hai davvero da dirmi Gesù? Aprimi il cuore, le orecchie. Tu puoi manifestarmi cose che non mi aspetto, liberarmi dai paletti, anche culturali, che riducono preventivamente il mio ascolto. “Mετανοειτε”, agli esordi della predicazione di Gesù, veniva non di rado tradotto con “pentitevi”, poi con “convertitevi” ma egli propone subito l’uscita dal moralismo del salvarsi da soli verso la grazia che viene con delicatezza e gradualità ad aprire il cuore: “percepite oltre”, il regno dei cieli è vicino. E si tratta dunque di una vita che si può diffondere tra le persone.
Chiedere intensamente a Dio di aiutarci. Tendere, nei modi e nei tempi adeguati, a lasciare che Dio ovunque, anche nella scuola, faccia crescere ognuno sulla propria personalissima via, alla luce della identità liberamente cercata e nel solo allora autentico scambio con le altre. Da qui si può stimolare una viva partecipazione. Uscendo dagli spegnimenti, dalle omologazioni. Identità senza scambio e scambio senza identità si contrastano e si spalleggiano nello svuotare, manipolare, le persone.
Nessuno può sapere cosa ha da dire Dio ad un altro. Un padre spirituale può accompagnare la crescita di qualcuno, cercare insieme ma alla fine è la persona che opera nella luce il proprio discernimento, non un altro al posto suo.
Le vie di Dio non sono le nostre vie.
Io accenno ad alcune possibili piste. Gli ultimi tre papi hanno proposto strade variamente diverse, ognuna con le sue ricchezze. Forse la storia stessa ci stimola ad imparare gli uni dagli altri, a sviluppare nella vita e nella cultura la sinodalità. Proprio superando calcoli, paure, difese. Cosa possiamo fare, nei tempi e nei modi adeguati, perché nella Chiesa ci si apra ad una ricerca non formalistica, per mere competenze, del vero? Immaginiamo un profeta in antropologia teologica? Dove ci chiudiamo in calcoli, prudenze, di corto respiro? Cerchiamo di permettere ad ognuno di intervenire anche nel vario dialogo pubblico? Fino a che punto è possibile?
Sta maturando più diffusamente una spiritualità capace di aiutare ciascuno a crescere in un cammino personalissimo, ben al di là degli schemi, grazie e verso i riferimenti della fede. Attenti a tutta la sua vita, ai suoi bisogni. Stiamo uscendo dal moralismo del mero fare, funzionare, spirituale, psicologico, per entrare nella fiducia nella grazia che, cercando di accoglierla, viene gradualmente sempre più in noi. Ci aiuta ad aprire autenticamente il cuore integrale, la coscienza spirituale e psicofisica. Non dobbiamo “fare i bravi” ma tutta la nostra umanità è condotta con delicatezza, a misura, nel mistero. E dunque vede ogni cosa in modo sempre nuovo. In modo nuovo e più pieno un piccolo può rinnovare tutta la cultura.
Imparare da ciascuno, dalle esperienze, dalle stesse difficoltà, perplessità, delle persone. Imparare a non dare nulla per scontato.
Non si può sapere ciò che Dio propone in questo momento ad una persona, ad un pastore. Però Gesù stesso ha insegnato: Vi diranno eccolo qua, eccolo là, non andateci, perché il regno di Dio è in mezzo a voi. Egli ha qualcosa da donarci, da dirci, in ogni persona. Ecco, ascoltare Dio e gli uomini con vissuta attenzione, senza banalizzare, senza circoscrivere nei nostri schemi.
Nel vangelo vi sono mille cose da scoprire. Per esempio si riflette su quando dare o meno la comunione ma non ci si chiede se e come Gesù stesso nei vangeli ha dato l’eucaristia. Si crede in Cristo ma non si torna sempre nuovamente a lui, Dio e uomo, in ogni cosa, senza pensare di sapere già. Essere aperti alla grazia sempre nuova della Parola.
Ascoltare, non banalizzare, essere disposti a mettere in discussione le nostre più profonde impostazioni culturali, il nostro Gesù, nel Gesù vero, anche, nei tratti essenziali, quello dei vangeli, e, nei modi adeguati, anche nel Gesù, nella vita, degli altri. Magari poi si accendesse una profonda sete di Luce sempre nuova, non vista riduttivamente ma invece integrale, spirituale e umana.
La prima lettera di Giovanni fornisce criteri decisivi sul discernimento. Ogni spirito che riconosce Gesù venuto nella carne è da Dio. Vi sono astrazioni che non tengono conto dei cammini specifici, delle situazioni concrete. Vi sono astrazioni alla rovescia, che si schiacciano su un pragmatico presente senza cercare adeguate letture profonde, sviluppi possibili. Talora, magari spesso, è importante anche solo cominciare a parlare dei vari spunti qui citati. Le parole vere non sono concetti da comprendere col cervello e mettere in pratica con la volontà, ma semi di grazia che matureranno a suo tempo. Ecco un’altro insegnamento rivoluzionario di Gesù. Tutta la storia della cultura oscilla tra la teoria e la pratica senza trovare un incontro che nel profondo può essere solo un dono di Gesù, Dio e uomo. Lo Spirito vi condurrà alla verità tutta intera, che non è una dottrina astratta, né un mero fare, ma l’amore meraviglioso di Cristo. Ecco un motivo per cui Gesù non ha scritto. Non si esprime in astratto ma in situazione, amando dal vivo. E allora pure questi sono spunti che potranno meglio germogliare, approfondirsi, nella vita, nella condivisione concreta. Le consapevolezze del cuore si possono gradualmente comunicare, con più facilità, nella vita vissuta. E così, come al tempo di Gesù, è la gente nella vita quotidiana che sperimenta il beneficio delle vie nuove mentre i potenti dai loro palazzi possono meno agevolmente cogliere. Il vangelo stesso è nato e rimanda a letture personali e comunitarie dal vivo. Anche per questo il Figlio dell’uomo si esprime spesso in parabole, per stimolare la richiesta di dialogo dal vivo, per approfondire. https://gpcentofanti.altervista.org/gesu-compiva-piu-miracoli-allora-che-oggi/