La impellenza della fraternità e la teologia: su “Salvare la fraternità – Insieme” (/2)


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Proseguendo l’esame dell’appello “Salviamo la fraternità – Insieme”, di cui ho proposto già una considerazione generale e formale in un post di alcuni giorni da (qui), esamino ora la prima parte del testo, quella che precede i due “appelli” rivolti ai Discepoli e ai Saggi. Ci troviamo di fronte ad una “descrizione” della attuale condizione culturale, teologica ed ecclesiale che presenta molti elementi di interesse. Mi riferisco alle pp. 1-14 del testo (disponibili qui) che risultano così suddivise:

a) Introduzione (1-2)

b) Kairos attuale della fede (2-5)

c) Segno globali della crisi (5- 10)

d) La teo-logia, bene comune (10-14)

Procediamo con ordine.

a) La introduzione, oltre che fissare la forma dell’approccio dialogico di cui abbiamo già parlato nel primo post già citato, fissa nella Enciclica “Fratelli tutti” quella “definitiva provocazione” che spinge a cercare il

“clima di una “fraternità intellettuale” che riabiliti il senso alto del “servizio intellettuale” di cui i professionisti della cultura – teologica e non teologica – sono in debito nei confronti della comunità” (SF 1)

Vi è una “coincidenza” tra parola magisteriale e condizione universale di sofferenza per la pandemia che diventa “occasione propizia”, dentro e fuori la Chiesa: il servizio intellettuale appare così unico e comune. Vedremo che questo è uno dei temi portanti del testo: superare le barriere, abbattere i muri e i bastioni, uscire da categorie senza respiro per “onorare la realtà”. Questo impegno si concretizza in una duplice formula, che percorre il testo e che suona così:

“è moralmente chiuso il tempo di ogni civetteria intellettuale con l’esercizio spensierato del relativismo dissacratore dell’humana communitas, come anche il tempo della ottusa ripetizione di formule sacre che custodiscono un vuoto di affetti e di legami” (SF 1-2)

Di fronte a questa “duplice deriva” – che caratterizza parallelamente la cultura civile e la cultura ecclesiale –  la reazione deve essere quella di una onestà intellettuale critica e autocritica, insieme ad una alleanza testimoniale. Un “pensiero sulla fraternità” realmente fondato è la sfida comune, per pensare la “humana communitas”, l’umano che è comune, senza accontantarsi di letture romantiche, sentimentali e rigidamente ripetitive di stereotipi. Ecco allora la “occasione opportuna”, il kairos di questo tempo e di questo testo.

b) Il Kairos attuale della fede

La “destinazione” della Chiesa alla “comunità di tutti gli uomini” è iscritta nel DNA del Vangelo: la differenza tra il Signore e la sua Chiesa non è un accessorio secondario: la incorporazione nel Corpo di Cristo non è mai sostituzione del Signore, bensì sequela e ascolto. Il legame con il Signore “mai diventa proprietà privata della communitas fidelium” (SF 4). Nel nostro tempo questa evidenza è contraddetta da consacrazioni profanate e da vocazioni contraddette. Qui il testo giunge ad espressioni di grande denuncia:

“L’eccesso di questa inettitudine degli apparati ecclesiastici è ormai un’evidenza planetaria. Le litigiosità e le immoralità che abitano la provincia ecclesiastica sono ora percepite come un indice di fragilità del sistema, non semplicemente come debolezze occasionali. Non c’è dubbio che questa manifestazione faccia torto ad una enorme diaspora ecclesiale di sinceri e semplici credenti, come anche alla dedizione del servizio istituzionale di moltissimi uomini e donne. Ma è necessario ammettere che la gravità del fenomeno non consente la via delle cure palliative.”  (SF 4)

La istituzione  deve prendere congedo da forme di vita e di governo ecclesiale che soffrono di una deriva clericale patologica. Il cuore della risposta non sta in aggiustamenti marginali, ma nel ripensamento radicale del rapporto tra Chiesa e mondo. Il “campo totale della città dell’uomo” è il luogo dell’annuncio e della realizzazione del regno di Dio.

“La nostalgia di un mondo più accondiscendente, e il risentimento per un mondo troppo ostile, vanno ugualmente deposti. Non esiste un mondo già pronto per l’avvento del regno di Dio” (SF 5)

Da ciò deriva il motivo della sfida che “Fratelli tutti” lancia alla teologia: il gesto con cui rilegge la tradizione provoca la teologia e la intelligenza comune ad un profondo ripensamento delle categorie di interpretazione della storia e della realtà.

c) Segni globali della crisi

Ci sono “segni” che annunciano il “nuovo mondo che dobbiamo imparare ad abitare”. Qui, a me pare, il testo riprende con nuovo slancio la sollecitazione che viene da Giovanni XXIII, da Paolo VI e ultimamente da Francesco: la Chiesa può/deve imparare dai “segni dei tempi”, che sono una forma di “apprendistato”. Quali sono questi segni? Essi derivano da una progressiva tensione tra secolarizzazione e religione, tra etica umanistica e sviluppo materiale. La “forma europea” con cui abbiamo pensato ed imposto il progresso conosce limiti strutturali nuovi, che la pandemia ha in qualche modo messo in scena nel modo più evidente:

“L’irruzione di una religiosità pervertita del sacrificio (il terrorismo fondamentalista), l’inganno della produzione finanziaria della ricchezza (la speculazione sul debito), la disperazione crescente dei popoli abbandonati (le migrazioni di massa), la fragilità sottovalutata della gestione tecnocratica (la paralisi della pandemia): sono gli eventi-sintomo di un presente della disillusione che si affaccia all’orizzonte dell’epoca.” (SF 6)

Questi segni si uniscono agli effetti strutturali di una globalizzazione “ingovernabile”:

“La crescita della disuguaglianza proprietaria e dell’abbandono sociale, d’altra parte, moltiplica gli effetti negativi di una globalizzazione tecno-economica vistosamente separata da una corrispondente evoluzione della solidarietà etico-umanistica. L’effetto emerge, culturalmente, dalle zone d’ombra della modernità occidentale del soggetto. La politica e il diritto della città secolare sono vistosamente in affanno nei confronti dello scarto ingovernabile tra la libertà delle affezioni individuali e i vincoli del bene comune. Il processo della loro separazione reale corre più veloce di ogni progetto di ideale ricomposizione” (SF 7)

Qui si innesta una riflessione di carattere antropologico, nella quale affetti e legami, individuo e società, libertà e autorità vengono pensati in vista di un nuovo equilibrio. Potremmo dire i “tre segni dei tempi” di Giovanni XXIII (emancipazione del lavoro, dei popoli e delle donne) sono riconsiderati nella loro complessità, per il livello di “ingiustizia” che combattevano e combattono tuttora, ma anche per le nuove ingiustizie e distorsioni che producono. Nella descrizione di questo “impatto complesso” degli ideali di emancipazione si mette in luce la ingenuità di una ricostruzione “lineare” del mondo, che genera mostri:

“Dopo tutto, chi non vorrebbe vivere come noi? I supermercati sono sempre aperti, il divertimento è sempre in scena, le connessioni ci rendono presentiovunque, la velocità moltiplica le opportunità, i servizi sessuali sono in libero accesso, i quartieri residenziali sono bolle di confortevole insediamento, protetto ed esclusivo, per il cittadino globale di ogni metropoli del pianeta.” (SF 8)

La denuncia di questa “perversione” del mondo dei “liberi e uguali”, dipinta in queste pagine con una lucidità quasi spietata, crea lo spazio per una ripresa del tema della fraternità e della comunità. Se il mondo che si progetta come composto da “liberi e uguali” produce tanta ingiustizia, quale via per rimediare, recuperando il “terzo vocabolo” della triade rivoluzionaria, ossia la fraternità? Occorre chiedersi, tuttavia: la “demoralizzazione” e la “indifferenza” crescenti sono davvero soltanto il prodotto di una “libertà e uguaglianza senza responsabilità”? Non è questo anche il frutto di “communitates” in cui la autorità è stata incapace di custodire i legami? La domanda è legittima. Per questo la “promessa di libertà” che il mondo moderno ha sapientemente costruito chiede un supplemento di anima, di prassi e di pensiero sul tema della fraternità e della prossimità, secondo quanto profeticamente dice “Fratelli tutti”.

d) La teo-logia, bene comune

Il titolo dell’ultimo paragrafo – prima dell’appello e della Lettera aperta – contiene una buona dose di sana provocazione. Che la teologia sia un “bene comune” sembra un dato ignoto non solo alla “cultura civile”, ma alla stessa teologia, spesso impegnata soltanto ad “evangelizzare se stessa” e a chiarire che cosa il cristianesimo “non è”. Questo modo di pensare mette in questione l’esercizio stesso del lavoro teologico, spesso condannato ad una totale sterilità ed irrilevanza, dentro e fuori della Chiesa. La tradizione teologica, che nei secoli si è data categorie così fini per interpretare il “sacro” che scuote il rapporto di ogni uomo/donna col prossimo e con Dio, e che ne conosce bene anche le perversioni, oggi ha solo una strada davanti a sé:

“La teologia ecclesiale deve perciò acquisire lo stile di un pensiero creativo e ospitale per tutti, non ridotto a un gergo per iniziati. Sembra evidente che questo comporterà un significativo mutamento delle istituzioni ecclesiali” (SF  11)

Questo passaggio è di grande importanza: perché implica un esercizio del lavoro teologico “creativo ed ospitale”, che non elabori soltanto un “gergo da iniziati” e che si sporga coraggiosamente sul “mutamento delle istituzioni ecclesiali”. Qui, come è evidente, si tocca un passaggio delicatissimo, spesso lasciato sotto silenzio dai teologi. La qualità creativa ed ospitale, critica e dialogica, ma anche necessariamente riformatrice sul piano istituzionale del pensiero teologico chiede modifiche radicali, anche nel  modo con cui la Chiesa cattolica pensa il lavoro del teologo. Il modo stesso con cui il Codice di Diritto Canonico pensa la funzione del teologo a partire dal 1983 – diversamente dal 1917 .  contrasta duramente con questo nobile progetto. La obbedienza teologica, pensata come poco creativa e poco ospitale, non trova la sua verità nel silenzio, ma nella parola. Che questi termini, così espliciti, di ripensamento della teologia giungano da un gruppo di lavoro strettamente legato a due istituzioni ufficiali è un segno di grande speranza e di svolta reale .

Restituire la teologia alla sua destinazione popolare, alla folla, e non solo ai discepoli, implica un profondo cambiamento di metodo, di linguaggio e di obiettivi. Anche nelle forme del concreto esercizio del lavoro teologico. Questo significa, con una immagine, costruire un “ponte” tra Ecclesiam suam (Paolo VI 1964) e Fratelli tutti (Francesco 2020), condividendo la aspirazione comune alla “redenzione dell’uomo”, in cui mistero dell’uomo e mistero della Chiesa si danno insieme, senza dualismi, senza contraddizioni anche se non senza delicatissime opposizioni polari. Costruire questo “ponte”, che per primi i teologi devono osare attraversare, è una loro peculiare responsabilità, qui ed ora. Chi si ostina a pestare l’acqua nel mortaio della tradizione fa semplicemente un altro mestiere.

Questa lettura complessiva della crisi, dei “segni dei tempi” e del ruolo della teologia, costituisce la grande premessa nella quale si inseriscono i due testi successivi, che appaiono quasi come il “fine ultimo” del documento stesso: ossia l’appello ai Discepoli e la lettera aperta ai Saggi, di cui ci occuperemo nel prossimo post.

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