La liturgia come “schermo” e la tentazione della “semplice amministrazione”


 leereecclesia

In un ciclo di conferenze “on line” organizzato dall’Istituto IHU-UNISINOS sul tema Igreja, Ministérios, Liturgia. Desafios e perspectivas na confluência das crises atuais. Ho tenuto una breve conversazione sul tema “Ministérios, liturgia, eucaristia. Chances para além do clericalismo” (che si può ascoltare in traduzione portoghese QUI). Ecco la versione scritta italiana.

Ministeri, liturgia, eucaristia. Opportunità al di là del clericalismo

 Voglio partire dall’ultima parola del titolo: Che cosa intendiamo per “clericalismo”? In ultima analisi, si tratta di un fenomeno di “sostituzione”. Al posto della Chiesa si pongono i suoi ministri i quali, anziché “servire” Cristo e la Chiesa, si pongono invece “come Cristo e come Chiesa”. E così la “autoreferenzialità” diventa la regola inaggirabile e persino benedetta! Anzi, per essere davvero “cristologici” ed “ecclesiologici”, in questa visione distorta ma piuttosto diffusa, occorre essere iniziati al “clericalismo”. La iniziazione alla Chiesa si riduce così ad imparare il linguaggio e la azione clericale. Una sorta di “immunizzazione dal reale”, che mette al riparo dalla realtà. Clericalismo è questo ridurre la vita cristiana alla scrivania di un ufficio e alla esperienza di un ufficiale con colletto alto, senza famiglia, ma con una bella casa, una grande televisione e una macchina di lusso. Ci sono fior di clericali in colletto romano, ma anche in giacca e cravatta e persino in tailleur e tacco a spillo. Una autentica lotta alla cultura “clericale” passa però necessariamente attraverso una limpida riconsiderazione della centralità del culto, nella sua realtà più autentica. Potrei dire, in modo programmatico, che non si può sconfiggere radicalmente la “cultura clericale” se non si imposta una diversa e più profonda “cultura cultuale”. Talvolta si confondono pericolosamente le cose. Persino si confonde la liturgia con il clericalismo! Nella Chiesa abbiamo bisogno di “cultura liturgica” per non diventare tutti cattolici da sacrestia! Così, nel titolo di questa conferenza si concentra, in modo estremamente chiaro, un “programma di riforma della Chiesa”. Proviamo a scoprirlo in una premessa (1) e in tre passi consequenziali (2, 3, 4).

1. Premessa: la liturgia come “schermo”

Iniziamo dalla liturgia. Abbiamo appena vissuto e continuiamo a vivere un tempo nel quale la “pandemia” può ridurre tutta la azione della Chiesa all’atto di culto. Così il culto appare un formidabile “schermo”, nei due significati che esso assume nella lingua italiana:

 – la liturgia è “schermo” perché con essa ci si difende dal mondo. Schermo qui è quasi sinonimo di “scudo”, di “difesa”, di “presidio”. La liturgia ci “scherma” dal mondo, dalla realtà, dalla vita e ci permette di rimuovere le questioni…

 – la liturgia però è “schermo” anche in un secondo senso: su di essa si proiettano, come sullo “schermo” del cinema e della TV, tutte le caratteristiche della Chiesa e della preghiera, della mente e della coscienza. Dimmi come celebri e ti dirò chi sei…

 Questo “schermo” pertanto diventa il luogo privilegiato su cui proiettiamo i nostri ideali, difendendoci dalla realtà. Ma è anche la proiezione dei nostri pregiudizi, delle nostre idiosincrasie, delle nostre ingenuità e delle nostre incomprensioni.

 La liturgia come “schermo” ci ha mostrato, in questi mesi di pandemia, accanto ad una Chiesa che si rimbocca le maniche e si mette in gioco, una Chiesa che torna ad evidenze quanto meno sospette. Poiché si è trovata ufficialmente in difficoltà, a causa delle normative sanitarie, ha cercato di ricorrere a due strumenti classici del pensiero liturgico-sacramentale:

 – la autosufficienza del “minimo necessario”…

– il primato del formalismo valido sulla relazione fruttuosa

 Questo “schermo” merita di essere adeguatamente considerato, anche sul piano teologico e pastorale, come una “manifestazione”, quasi come una “epifania”. Potremmo dire che le “mascherine” – che la pandemia ci ha imposto – sono anche la occasione preziosa per scoprire realtà nascoste, che si manifestano proprio “in obscuris”. E tuttavia “impavidos ferient ruinae”. Possiamo superare anche questa difficoltà nella difficoltà, questa scoperta che dal Concilio Vaticano II abbiamo imparato molto bene la “retorica liturgica”, ma abbiamo imparato poco la “autorità rituale”, come ridimensionamento di una chiesa clericale. Vediamo meglio questo primo passaggio decisivo.

 2. Primo passo: la autorità del ministro consiste nella sua “perdita di potere”

 La tradizione cattolica ci ha consegnato un tesoro, ma in vasi di creta. La Chiesa sa bene che è proprio nella azione rituale che trova il proprio “culmen” e il proprio “fons”. Ma anziché pensare la autorità amministrativa mediante la analogia con questa azione liturgica primordiale ed elementare, ha per molti secoli preferito pensare la autorità liturgica in analogia con la autorità amministrativa. Non è un caso che la liturgia sia stata pensata e studiata, per più di un millennio (da Isidoro di Siviglia a Amalario di Metz, da Ruperto di Deutz a Guglielmo Durando, fino al Concilio di Trento) come DOVERE DELL’ECCLESIASTICO. Questa è, senza ombra di dubbio, una delle radici più profonde del clericalismo. L’idea che l’azione rituale sia “dovere del prete” proietta sull’atto di culto, sulla preghiera comune, sulla Chiesa e sulla vita cristiana una luce trasversale, distorta e contorta, che trasforma la realtà stessa del vangelo. Nel momento in cui la messa, la preghiera oraria, l’anno liturgico e i sacramenti sono “cose da preti”, la struttura stessa della Chiesa è compromessa. Per questo non è affatto casuale che il Concilio Vaticano II abbia voluto mostrare la sua “indole pastorale” – ossia la possibilità che la sostanza della antica dottrina del depositum fidei trovasse nuove formulazioni – soprattutto con una antica e nuovissima concezione della azione rituale. Nel momento in cui si riconosce che il soggetto autentico della azione liturgica è Cristo e la Chiesa, e che il “servizio” a questa azione viene prestato non solo da “uno”, ma da molti ministri, muta l’immagine della tradizione. Quando la Chiesa celebra, prende la iniziativa di perdere la iniziativa. Riconsegna la autorità al suo Signore. Si dispone ad ascoltarne la parola e a ripeterne le azioni di lode, di rendimento di grazie e di benedizione. E’ ministro, nella Chiesa, ogni battezzato che si pone al servizio del Signore e della sua Chiesa. Può avere autorità se lascia cadere ogni potere proprio. Di qui discende un mutamento “lessicale” di cui non ci stancheremo di sottolineare la centralità. Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica ha recepito in modo limpido la differenza decisiva tra “celebrare” – che è azione comune – e “presiedere”, che è azione riservata.

 3. Secondo passo: la natura della liturgia è azione comune di tutta la Chiesa, che esige partecipazione comune

 In poche righe del CCC, che ora voglio citare, troviamo concentrata tutta la novità.

E’ tutta la comunità, il Corpo di Cristo unito al suo Capo, che celebra” (CCC 1140);

L’assemblea che celebra è la comunità dei battezzati” (CCC 1141).

Il Concilio Vaticano II, nel testo di Sacrosanctum Concilium, definisce in modo icastico la partecipazione alla eucaristia con queste parole: “id bene intelligentes per ritus et preces” (SC 48) (comprendendo bene il mistero eucaristico attraverso i riti e le preghiere). Questo significa che la “intelligenza della liturgia” richiede a tutti di entrare nei riti e nelle preghiere come linguaggi della intimità del rapporto con Cristo e con la Chiesa. La Riforma Liturgica che il Concilio ha prospettato indica questa forma (nuova) di partecipazione come obiettivo. Tutti i battezzati, discepoli di Cristo, trovano nella liturgia nella sua integralità – eucaristia, sacramenti, liturgia delle ore, anno liturgico, musica, arte, spazio – una mediazione fontale, che non può essere “delegata ad altri”, ma deve essere assunta come linguaggio della Chiesa, per questo intesa come “comunità sacerdotale” (LG 11).

 La partecipazione non è soltanto un diritto o un dovere del soggetto, ma è un’arte , un “saper fare” della persona e della comunità. Nel momento in cui la liturgia diventa non solo compito comune, e nemmeno solo “diritto di ogni soggetto”, ma “dono condiviso e personalmente prezioso” cambia radicalmente l’investimento di tutta la assemblea nella sequenza rituale. Che si tratti delle celebrazione eucaristica domenicale, o di una celebrazione del matrimonio, di un rito di esequie o delle lodi mattutine, la sequenza di parola e di sacramento è integralmente “agita” da tutti. Così è inevitabile che ad una lunga tradizione, che riferiva la liturgia soltanto al “dovere del chierico” e che quindi aveva sviluppato una “arte del celebrare” che aveva solo il “sacerdote” come oggetto e soggetto, venga lentamente a sostituirsi una nuova e più complessa competenza comunitaria sui diversi linguaggi della azione rituale. I linguaggi verbali – non solo della parola ascoltata, ma anche della parola pregata, della domanda, della richiesta di perdono, della lode, del rendimento di grazie e della benedizione – si lasciano ora arricchire dalla grande cattedrale simbolica dei linguaggi non verbali – tattili, olfattivi, gustativi, iconici, vocali, musicali, spaziali, temporali… – la cui logica corporea e sensibile è tanto meno chiara e distinta quanto più potente ed efficace. I singoli “codici” di questa “foresta di simboli” non sono soltanto “possibilità espressive” del singolo e della comunità, ma “forme della esperienza” nella relazione col Dio uno e trino, con Cristo, con la figliolanza divina e con la fratellanza ecclesiale. E proprio i codici non verbali sanno “dire” e “istituire” questa esperienza con una profondità e una immediatezza più forte di tutte le nostre parole più alte.

 4. Terzo passo: il cuore eucaristico della Chiesa e la paura liturgica

 L’apertura della Chiesa al mondo e alla dimensione comunitaria, così come pensata e realizzata dal Concilio Vaticano II, ha trovato nella liturgia la sua prima espressione compiuta. Potremmo dire che questo “destino” è scritto nel DNA delle espressioni conciliari. Non deve stupire, infatti, che la “costituzione liturgica” abbia un “titolo” così “generico” come Sacrosanctum Concilium. In effetti essa contiene un “proemio” che è inaugurale non solo per il discorso sulla liturgia, ma per l’intero evento conciliare. Riascoltiamo dunque il testo di SC1, che è “proemio” di tutto il Concilio:

" Il sacro Concilio si propone di far crescere ogni giorno più la vita cristiana tra i fedeli; di meglio adattare alle esigenze del nostro tempo quelle istituzioni che sono soggette a mutamenti; di favorire ciò che può contribuire all'unione di tutti i credenti in Cristo; di rinvigorire ciò che giova a chiamare tutti nel seno della Chiesa. Ritiene quindi di doversi occupare in modo speciale anche della riforma e della promozione della liturgia."

Qui è evidente che la riforma (come crescita di vita cristiana, suo aggiornamento e adattamento, dialogo verso l’unità delle confessioni e del genere umano) è l’orizzonte generale nel quale viene incastonata, in modo inaugurale, la azione liturgica della Chiesa.

Ora non si tratta semplicemente di “iniziare dalla liturgia”, ma di considerare il rito cristiano come il punto delicatissimo di mediazione della tradizione. Recuperando una nozione più profonda di liturgia e di partecipazione, proponendo una accurata riforma della liturgia eucaristica e di tutti i sacramenti, rinnovando la dimensione temporale dell’anno liturgico e della liturgia delle ore come “esperienza comune” a tutto il corpo ecclesiale, vengono poste le basi per una ricomprensione della chiesa e della parola, delle altre confessioni e delle altre religioni. Il nuovo paradigma è tutto implicito nel nuovo rito.

Come la Riforma della Chiesa si “attiva” sul piano liturgico, così la medesima riforma di “blocca” sullo stesso piano. Proprio in questo tempo pandemico, a partire dai giorni di marzo in cui abbiamo iniziato a prendere coscienza della gravità e della potenza del fenomeno, abbiamo visto apparire una serie di fenomeni che rivelano, al di là di tutto, una grave forma di incomprensione della riforma liturgica e della sua stessa ragion d’essere. Proviamo a farne alla fine un breve elenco, che riepiloga e che rilancia la riflessione che ho cercato di proporvi.

 4.1. Una sofferenza liturgica

 Le categorie con cui abbiamo cercato di “far fronte” alla pandemia, sul piano liturgico, non raramente sono state rudimentali, arretrate, talora apertamente non conciliari. La paura del contagio ha riattivato, in modo singolarmente esplicito, la paura della liturgia:

– alcuni vescovi hanno scritto o brevi documenti, o lunghe lettere, al cui centro stava il prete che celebra da solo;

– le normative sulle “celebrazioni pasquali” – sia al centro sia in periferia – non raramente hanno avuto come interlocutori soltanto i preti, non il popolo di Dio, lasciato in fondo, come categoria residuale;

– la lettura del ministero ordinato in relazione alla liturgia è stato spesso inteso come “privilegio” o addirittura come “esclusiva” sulla azione rituale.

– il modo stesso di affrontare le singole “normative sanitarie” – a parte la tentazione di leggerle come “indebita limitazione della libertà di culto” – ha faticato ad assumere la forza interna delle categorie introdotte da SC e dalla riforma liturgica.

 4.2.Excursus: Corpus Domini in pandemia

 Del tutto singolare, ma anche assai istruttiva, è stata la “traduzione” della festa del Corpus Domini in condizione di “presidio sanitario”. Questo passaggio è stato rivelatore. Essendo impossibile compiere la “processione esterna alla Chiesa”, si è adattata la “festa” alla situazione, introducendo una sorta di momento di adorazione alla fine del rito di comunione, rinunciando al congedo della assemblea. Questa soluzione è frutto di un equivoco. La festa è festa di comunione. Nell’atto istitutivo della festa, nel 1264, Onorio IV dice esplicitamente che quel giorno “tutti si comunicano”. E lo pensa a rimedio della “dispersione del giovedì santo”. E’ assai istruttivo che questo contenuto originario si sia, nei secoli, tramutato in un primato della adorazione sulla comunione. Da questo punto di vista la pandemia ha favorito, ancora più del solito e per motivi pratici, questo primato della stasi sulla dinamica, che tuttavia non è né nelle corde originarie della festa, né nella rilettura della esperienza eucaristica promossa dalla Riforma Liturgica. La festa è nata perché tutti facciano la comunione. E noi l’abbiamo trasformata in un momento di adorazione e non riusciamo più a scoprire come la comunione sia, di per sé, pienezza di adorazione e di rendimento di grazie.

 4.3. La relazione tra riforma liturgica e riforma della chiesa

 Del tutto evidente, inoltre, è la correlazione tra ripensamento delle forme rituali, e le forme ecclesiali e ministeriali da rinnovare. Una interpretazione “tridentina” dell’eucaristia torna sempre comoda quando non si vuole cambiare di una virgola l’assetto del ministero ordinato e delle forme disciplinari della vita ecclesiale (come, ad es. la parrocchia). E’ sufficiente disinserire il valore originariamente comunitario della eucaristia, e degradarla ad “azione del prete”, per ottenere, in un sol colpo, un duplice risultato. Nulla cambia nel ministero del prete e nulla cambia nella organizzazione della parrocchia. Ma il presupposto di questa immobilità è la sordità nei confronti del Concilio e della Riforma liturgica. Questi eventi, la cui eredità sta a tutti valorizzare, hanno cambiato profondamente la cose, poiché hanno riletto la figura del prete, aiutandoci a capire la differenza tra “colui che celebra” e “colui che presiede”. Questa differenza è ancora piuttosto sconosciuta.

 4.5. Celebrare e presiedere

 Qualcuno mi ha detto: “ma dicendo così tu neghi che la messa sia valida anche se la celebra solo il prete”. E io rispondo: “No. Io non nego affatto che la messa celebrata da un prete da solo sia valida. Ma so due cose. Che la sua validità non impedisce che sia “illecita”, perché la normativa sulla messa prevede imperativamente che ci sia almeno un altro ministrante oltre al prete. E questo è già un segnale importante. Ma poi vi è un secondo punto, ancora più importante. La messa celebrata da un prete solo è certo valida, ma è “soltanto valida”. Se il suo valore viene pensato come l’insieme di tutte le parole e di tutti i linguaggi, in una comunità ricca e articolata, una messa valida è solo valida. Le manca tutta quella gratuità di cui ha bisogno in modo vitale, per essere pienamente se stessa. Per questo è giusto parlare del prete come colui che “presiede” un atto nel quale è tutta la Chiesa a “celebrare”. Ed è tutta la Chiesa che è chiamata, in relazione al pane e vino come corpo e sangue di Cristo, a diventare essa stessa quel corpo e quel sangue. L’atto non si chiude mai nel circolo ristretto e vizioso tra prete ed elementi, mediato dalla “formula”, ma nel circolo ampio e virtuoso che si istituisce tra comunità, ministri, presidenza, liturgia della parola e liturgia eucaristica.

 4.6. L’equivoco sulla liturgia e il blocco della riforma della chiesa

 E’ evidente che, se tutto questo non è chiaro, se ci sono ancora preti, e persino alcuni Vescovi e Cardinali, che hanno paura del Concilio e della Riforma Liturgica, e continuano a parlare in modo unilaterale del “potere del prete di rendere presente il Signore sotto le specie del pane e del vino” – come se fosse un atto solitario e una peculiarità personale e non ecclesiale e comunitaria –  allora non ci sono ragioni né per promuovere la riforma della liturgia, né per trovarne riscontro nella riforma della Chiesa. Una ministerialità bloccata e isterilita dipende da una visione della onnipotenza del prete, che tutto l’essenziale lo fa da solo, diremmo “di per sé”. E la parrocchia – o la diocesi – viene pensata a immagine e somiglianza di questo modello di sacramento e di prete. D’altra parte tutti sanno bene che, se si assume davvero fino in fondo la Chiesa eucaristica che il Concilio e la Riforma Liturgica hanno pur sempre disegnato, allora occorre mettere mano ad un grande ripensamento delle forme ministeriali e delle istituzioni in cui queste forme si esprimono. L’equivoco che grava su tutta questa materia è, in fin dei conti, un equivoco liturgico. Finché avremo, sia pure a certe condizioni, una duplice forma del rito romano, potremo sempre pensare che la Riforma della liturgia, come quella della Chiesa, sia soltanto un optional. E così potremo pensare che la vita ecclesiale possa garantirsi una sostanziale continuità senza alcuna fatica, per “pura amministrazione”. E potremmo persino illuderci di annunciare la “conversione missionaria della parrocchia” citando soltanto articoli del Codice di Diritto Canonico. E che il discorso sui “ministri” possa limitarsi a “colui che presiede”. Ma abbiamo bisogno di presidenze che aiutino a comprendere che la Chiesa ha bisogno di ministerialità articolata, maschile e femminile, della quale non possiamo più privarci, non solo nelle foreste della Amazzonia, ma anche nelle strade di Los Angeles, di Madrid o di Napoli!

Tuttavia, se ascoltiamo le parole del Concilio, così come papa Francesco ha saputo tradurle in EG, troviamo un monito che è una sorta di “sintesi”: “Ora non ci serve una semplice amministrazione” (EG 25). Per garantirci un futuro di “semplice amministrazione” – e vincere così la paura di una liturgia che ha la Chiesa intera come soggetto – è sufficiente promuovere – anche inconsapevolmente – una definizione tridentina di eucaristia. Che solo il prete – e il prete solo – può “celebrare” e “amministrare” la liturgia. In questo immaginario – così facile, comodo e quasi scontato – sta il difetto da superare, ormai da 60 anni. La pandemia lo ha messo in risalto, quasi ce lo ha sbattuto in faccia. Ora lo conosciamo meglio e possiamo superarlo con più limpida determinazione. Per poter ancora dire “credo” in modo autentico bisogna far diventare il clericalismo un oggetto su cui non solo dire, ma gridare “rinuncio”! Non è facile. Ma non ci sono alternative.

 Vi ringrazio per l’ascolto!

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