La liturgia secondo Lanzetta: non “cronolatria”, ma “cronofobia” in un video


 

In un video di 75 minuti (comprendente conferenza e dibattito) il prof. Serafino Lanzetta ha proposto una comprensione del cuore della mia intervista su Messainlatino, nella quale non posso proprio riconoscermi. Il professore usa toni felpati, ma utilizza concetti rozzi e grossolani. Perciò ritengo utile brevemente replicare alle sue affermazioni più azzardate e più ingiuste, non tanto verso di me, che conto niente, ma verso la Riforma Liturgica, Paolo VI e papa Francesco.

a) La comprensione della liturgia offerta da Lanzetta è preghiera e dottrina: il ruolo della azione sembra totalmente assente. Sembra che Lanzetta non conosca nessuno dei grandi padri del Movimento Liturgico: né Guardini, né Casel, né Vagaggini, né Marsili, né Jungmann. Per questo sembra del tutto ignorare la lunga stagione che ha preparato il Concilio Vaticano II e che ha messo in opera quel delicato lavoro di “traduzione della tradizione” che è la riforma liturgica. Invece Lanzetta esaspera il ruolo della “riforma” come se fosse una “cosa nuova”, un “prodotto originale”, senza rapporti con la storia e con la tradizione. La sottolineatura del “futuro”, che lui traduce in “rottura”, è un vero errore metodologico nel comprendere non tanto quello che ho scritto io, ma quello che il Movimento Liturgico, il Concilio, Paolo VI e Francesco hanno detto lungo un secolo. Tutto questo per Lanzetta non esiste: lui vede soltanto l’arbitrio di una “rottura”, dimenticando la profonda rilettura della tradizione che ha preparato e accompagnato la riforma liturgica.

b) Ad un certo punto, Lanzetta propone un esempio. Ma l’esempio fa letteralmente cadere le braccia. Era difficile scegliere un esempio peggiore. Egli dice: la riforma liturgica è come una “mela” che vuole essere valorizzata, ma condannando il ramo su cui era attaccata, il fusto da cui sporgeva il ramo e le radici che sostenevano il tutto. Ora, questo esempio è del tutto fuoriluogo. Se per capire un interlocutore io lo costringo in un esempio distorto, ho facilmente ragione, ma non sto parlando con lui, ma con la mistificazione che di lui mi sono costruito. La riforma liturgica valorizza l’intero albero, dalle radici al frutto. Non è una parte, ma il tutto in una nuova figura. Ed è qui che Lanzetta sembra totalmente sordo: il rito romano, nella sua pienezza, sta ora nella forma assunta con la riforma successiva al Vaticano II, dal Vaticano II richiesta e posta alla Chiesa come obiettivo. Nessuno condanna lo sviluppo che ha portato alla riforma, ma ciò che viene giudicato errato (da Paolo VI e da Traditionis Custodes) è il fatto di creare una condizione in cui il rito romano, la cui forma è stata riformata, possa essere celebrato e vissuto come se la riforma non ci fosse stata. Questo è il vulnus: e se Lanzetta non se ne accorge, il problema sono le categorie con cui legge il fenomeno.

c) Il terzo punto riguarda proprio il MP Summorum Pontificum. Lanzetta dice che quel provvedimento era una grande intuizione teologica di unità, non era principio di divisione. Ma io chiedo a Lanzetta: è sicuro che sia una buona teologia quella che “pensa in astratto”? Se uno pensa in astratto che mettere in concorrenza due forme diverse e conflittuali del rito romano possa essere “pacificazione”, ma realizza solo “conflitto”, io credo che si debba mettere in dubbio che quella sia una buona teologia. La teologia non si fa in astratto, ma in concreto. Fin dal 2007 era chiaro che SP sarebbe stato un disastro, non avrebbe portato pace dove c’era conflitto e avrebbe invece portato conflitto dove c’era pace. Così è stato. Due forme, che interpretano non solo due figure di liturgia, ma diversi equilibri ecclesiali, spirituali e oranti, non possono essere “contemporanee”. Nella storia sono le forme legittime, ma di una evoluzione che non può essere né fermata né capovolta. Per questo si dice “irreversibile”: perché la storia non si può negare. Il vero problema non è che vi sia una “cronolatria”. Il vero problema è quello di una forma astratta e astorica di comprensione della teologia e della liturgia. Non cronolatria, ma una cronofobia e una rimozione della storia hanno illuso alcuni che si potesse, attraverso una “rianimazione” del VO, arrivare a negare il Concilio Vaticano II. La paura della storia fa cercare in un passato idealizzato la forma della liturgia in reazione alla forma vigente, che non si accetta per principio e per pregiudizio.

d) Infine, nella foga (sempre misurata) con cui Lanzetta esponeva le sue idee, ad un certo punto è arrivato a dire (riferendosi non a me, ma a Traditionis Custodes) che così si nega la tradizione e che la riforma liturgica è una rottura con la tradizione. Poi subito si è preoccupato di precisare che “gli altri”, i “più radicali” dicono così. Ma che, in qualche modo, questi sono giustificati perché certi professori affermano che c’è una condanna dell’albero e delle radici per affermare soltanto i diritti della mela. Dire che c’è “una sola lex orandi” non è affatto una rivoluzione, ma è dire la cosa più elementare, che vale sempre in ogni unità di tempo e di spazio. Da sempre è così. La cosa strana, frutto di “cronofobia”, è pensare che tutto resti contemporaneo e che lo sviluppo sia solo apparenza. Le forme del rito romano nella storia sono state diverse. Ma in ogni tempo una sola era vigente, salvo i casi di specificità locali o personali. Pensare di poter celebrare, oggi, nella forma riformata o nella forma senza riforma significa sollevare il dubbio sulla necessità di promuovere una riforma della liturgia e della chiesa, come il Concilio Vaticano II ha espressamente domandato. Ridurre questo alla fissazione di alcuni, professori o papi che siano, non è una bella prestazione per la fatica del concetto che il prof. Lanzetta cerca di esercitare, certo con accurata applicazione, ma in questo caso con un eccesso di irriflessa unilateralità.

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