La liturgia, tra figliuol prodigo e fratello maggiore


Sull’ultimo numero di “Vita Pastorale” è uscito questo mio articolo, che propongo qui di seguito.



La ritrovata natura teologica della liturgia. Il fondamentale rapporto tra liturgia e Chiesa

La domanda che dobbiamo porre a noi stessi, per svolgere adeguatamente il tema di questa breve riflessione, deve andare in profondità, fino al fondo della nostra esperienza. Se la “natura teologica” della liturgia è stata “ritrovata”, come dice bene il titolo di questo articolo, ciò significa che ciò che è stato ritrovato, prima era perduto. In altri termini, nella coscienza ecclesiale, la “qualità teologica” della liturgia ha vissuto, per secoli, una vicenda simile al “figlio minore”, al “figliol prodigo”: era perduta ed è stata ritrovata.

1. La parabola del “figlio prodigo” per capire il “ritus servandus”

Ma che cosa era stato perduto? Dobbiamo chiedercelo con tutta chiarezza e schiettezza, per non fare o affermazioni avventate o caricature della storia.
Una ottima porta di entrata su questa “differenza” (o discontinuità)  ci viene offerta da modo con cui possiamo attribuire al “rito” una portata “teologica”. Su questo punto io ritengo che “stia o cada” tutta la impalcatura teorica che la Chiesa si è data negli ultimi 50 anni, per giustificare – a se stessa e agli altri – il “ritorno a casa” del figlio prodigo.

a. La estraneità del rito alla teologia: il pericolo del rito autoreferenziale

Per una lunga stagione, inaugurata già alla fine del primo millennio, e poi accentuata lungo il Medioevo e nella Prima età moderna, il rito si è gradualmente “decontestualizzato”: ha perso il legame non solo con il Padre, ma anche con il Figlio e con lo Spirito Santo, diventando, progressivamente, soltanto il compito del prebitero/vescovo: “ufficio sacerdotale”. Nella acquisita autonomia, il rito diventa autoreferenziale, diventa “sacra cerimonia esteriore”, diventa prerogativa di una “classe” o di una “casta”, unica a essere competente nel compiere una serie di azioni sacre.

b. La riscoperta della eloquenza rituale: bisogno e desiderio di simboli rituali

Mentre avviene questo fenomeno, parallelamente, il rito “ritorna in sé”, torna cioè a capire di essere originario “luogo e forma di mediazione” tra uomo e Dio. Ma questo avviene “lontano dal Padre”. Il rito ritorna in sé in terra straniera, nella attenzione di studi e di prospettive assai lontane dalla teologia e dalla fede. Paradossalmente, solo “in mezzo ai porci” il rito può rientrare in se stesso e ritrovare se stesso. In altri termini, è stata la vicenda traumatica e salutare della “rilettura non religiosa” dei riti cristiani a permettere di riscoprire la loro forza e la loro autorità.

c. Il ritorno al Padre e la festa: recupero della esperienza rituale come culmine e fonte

Se il rito “torna a casa”, viene dunque “ritrovato” come modalità originaria della esperienza di rivelazione e di fede, questo non lascia insensibile il fratello maggiore. Anzi, turba, rende irrequieto e pieno di sospetti il fratello maggiore che è in noi, e che dice: “non può essere così, il vero rito è quello di sempre, che io incarno, e che non può cambiare. Anzi, ogni cambiamento, ogni riforma è solo “allontanamento”, “tradimento”, “sovversione” della casa del padre…”.

A questa piccola narrazione parabolica possiamo associare le due forme del rito che abbiamo conosciuto fin qui: da un lato il “ritus servandus”, intepretato dal “fratello maggiore”; dall’altro il “ritus celebrandus”, interpretato dalla relazione tra Padre e fratello minore. La morale del racconto parabolico è la seguente. Il “ritus servandus” è una forma di schiavitù, una forma di fuga, una forma di alienazione del rito da se stesso. Il rito esce dalla schiavitù quando riconosce di poter essere se stesso solo come “ritus celebrandus”. Può “servire il padre” sono nella riacquisita coscienza di figlio; può essere “osservato” solo nella pienezza della esperienza di festa che rende possibile. Festa, veste, calzari, vitello grasso, musica, rimettono in sesto il rito come linguaggio originario della fede. La semplice “osservanza” non basta a mantenere la qualità filiale della relazione.

In questo lungo paragone abbiamo forse capito meglio una cosa: che il rito riscopre e ritrova la propria “natura teologica” attraverso un lungo esodo, una lontananza, – esodo e lontananza che accomuna chi parte e chi resta, figli minori e figli maggiori – esodo che mostra i limiti di un approccio minimalistico e scrupoloso, e riscopre una vocazione antica e sempre nuova. Il senso teologico della liturgia è la riacquisita capacità del rito di parlare, di convocare, di far ascoltare, di far pregare, di offrire e ricevere doni, da condividere e da portare nel mondo.

2. Due accezioni di “ars celebrandi” in Sacramentum Caritatis

Oggi la coscienza di questa novità è presente nella forma di una duplice accezione dell’”ars celebrandi”: il fine della “actuosa participatio”, ossia della condivisione da parte di tutti i battezzati dell’unica azione di culto, esige dalla Chiesa una diversa “uscita dalla autoreferenzialità”. Non basta cambiare testi, non basta modificare le competenze e i ministeri. Non basta, cioè, lavorare sui registri dogmatico-disciplinari interni alla liturgia. Occorre, oggi, fare quel passaggio che troviamo bene illustrato da “Sacramentum Caritatis”, ai nn. 38 e 40, ossia assumere una nuova comprensione dell’ars celebrandi.
Da un lato, infatti, resta vero che

“L’ars celebrandi è la migliore condizione per l’actuosa participatio. L’ars celebrandi scaturisce dall’obbedienza fedele alle norme liturgiche nella loro completezza, poiché è proprio questo modo di celebrare ad assicurare da duemila anni la vita di fede di tutti i credenti, i quali sono chiamati a vivere la celebrazione in quanto Popolo di Dio, sacerdozio regale, nazione santa (cfr 1 Pt 2,4-5.9)” (Sacramentum Caritatis, 38)

Questa affermazione ribadisce semplicemente una verità che accompagna la Chiesa da molti secoli. Ma una esigenza nuova è indicata precisamente dalla “pastorale liturgica”, ossia dal bisogno di ritrovare nei riti un momento nutriente e autorevole per l’esperienzza cristiana. Così la stessa esortazione apostolica cambia registro e dice, della stessa ars celebrandi, cose molto diverse:

“Altrettanto importante per una giusta ars celebrandi è l’attenzione verso tutte le forme di linguaggio previste dalla liturgia: parola e canto, gesti e silenzi, movimento del corpo, colori liturgici dei paramenti. La liturgia, in effetti, possiede per sua natura una varietà di registri di comunicazione che le consentono di mirare al coinvolgimento di tutto l’essere umano. La semplicità dei gesti e la sobrietà dei segni posti nell’ordine e nei tempi previsti comunicano e coinvolgono di più che l’artificiosità di aggiunte inopportune. L’attenzione e l’obbedienza alla struttura propria del rito, mentre esprimono il riconoscimento del carattere di dono dell’Eucaristia, manifestano la volontà del ministro di accogliere con docile gratitudine tale ineffabile dono”. (Sacramentum Caritatis 40)

In questo testo ulteriore non troviamo la smentita o la sconfessione del primo, ma piuttosto il suo superamento e compimento, in un orizzonte più ampio, più complesso e più ricco. In altri termini, si passa dal “ritus servandus” al “ritus celebrandus”. E’ una intera concezione del rito e del’approccio ad esso che viene ripensata e riorientata. In tale riorientamento (che è anche un nuovo senso di “ressourcement”), liturgia, scrittura, antropologia e vita ecclesiale si fondono in modo nuovo e originale.
Proprio questo recente sviluppo magisteriale attesta i passaggi che abbiamo finora vissuto e che progressivamente ci liberano dalla autereferenzialità, riscoprendo la delicatezza del “tatto” come organo primario della comunione ecclesiale. La sfida, oggi, è quella di lasciare che il “mistero di Dio” possa riformare e convertire la sua Chiesa, permettendo che si esprima su tutti i registri di cui è ricca la celebrazione rituale. Questo è obiettivo pastorale primario, che ha bisogno di una “nozione teologica di rito”.

3. La liturgia come “forma ecclesiae”nel “ritus celebrandus”

Quando diciamo “nozione teologica di rito”, tuttavia, dobbiamo essere ancora più chiari. Con questo termine vogliamo indicare che nella azione rituale della Chiesa, nei “riti cristiani”, non si tratta di “cerimonie esterne”, di “apparati rituali”, di “macchine celebrative”, ma di esperienza di comunione con Dio Padre, per mezzo di Cristo, nello Spirito; si tratta di iniziazione al rapporto di fede in Cristo e con la Chiesa. Per questo dobbiamo ora svolgere brevemente il sottotitolo del nostro articolo: il “fondamentale rapporto” tra liturgia e Chiesa significa, in primis, che la liturgia è “culmen et fons” di tutta l’azione della Chiesa. Ed è questa sommità e questa sorgente precisamente per ciò che essa “mette in atto” in termini di spazio, di tempo, di relazioni ministeriali, di dialogo, di canto, di ascolto, di processione, di silenzio. Tutto questo, evidentemente, ha un impatto di grande forza sull’intera pastorale ecclesiale: sulle forme della iniziazione come sulle forme della guarigione, sulle forme del servizio come sulle modalità di vivere spazio e tempo. In ultima analisi la verità di una nuova nozione teologica di liturgia si verifica, oggi, nella capacità con cui la Chiesa è capace di ricominciare ad essere se stessa dai propri riti: di farne cioè quel “fons” e quel “culmen” di tutta la azione ecclesiale che era e rimane il vero obiettivo della Riforma Liturgica. Perché la Chiesa possa essere riformata dai propri riti, che essa non padroneggia, ma dai quali si lascia ammaestrare.

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