La morte rimossa e il congedo impossibile. Un altro senso di “euthanasia” come compito comune


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I camion dell’esercito che trasportano le salme dei defunti per la pandemia in lontani cimiteri, per la cremazione, senza alcun segno di cordoglio, senza accompagnamento, senza una parola, sono il segno di un “punto cieco” del sistema di lotta sanitaria contro la pandemia. Nell’isolamento generalizzato, si muore soli e si è sepolti a parte, senza concorso di uomini, di parole, di fiori, di lacrime. Qui incontriamo il “caso-limite” di una sensibilità verso la morte che tende sempre più a “rimuoverla”, ad “appartarla”. A ciò corrisponde un imbarazzo anche della teologia, che da tempo sa bene quanto le “forme” incidano sulla sostanza. Proviamo a riflettere brevemente sulla questione generale, e sulla sua figura particolare, in questi giorni.

La morte era già “isolata”

L’imbarazzo dell’attuale teologia della morte rispetto alla “rimozione del morire” che avanza nella società post-moderna era stata riconosciuta profeticamente da K. Rahner, molti anni fa:

A differenza di quel che succedeva in passato, ai giorni nostri, quando il malato muore ormai in ospedali del tutto anonimi, il morire non conosce più uno ‘stile’”1.

Per questo oggi, di fronte a tale rimozione, senza rinunciare al grande contributo della teologia, dobbiamo necessariamente riscoprire la grande tradizione civile ed ecclesiale che si prende cura dell’”exitus medico”, senza lasciarlo all’autorità necessaria, ma non sufficiente, della competenza sanitaria. Non si tratta, in altri termini, di prendere le distanze dai “casi” di morte, di ricondurre ad essenza il morire, quanto piuttosto di occuparsi dei minimi dettagli dell’accompagnamento alla “eu-thanasia”, delle forme di elaborazione del lutto, dei gesti, delle parole, delle musiche, delle vesti e dei silenzi che accompagnano e consolano il morente e chi gli sopravvive. La grande tradizione cristiana si è affidata a grandi “simboli-rituali”, che oggi possiamo riscoprire con efficacia.

Il riti di congedo non possono essere rianimati, se dovessimo prendere congedo dai riti. Ogni elaborazione del lutto ha bisogno di delicate soglie espressive e simboliche, senza le quali si cade inevitabilmente in una progressiva privatizzazione dell’esperienza del morire. Vi è oggi, non solo nella Chiesa, una attesa urgente di parole e di gesti autorevoli, che sappiano contrastare la afasia diffusa. Si tratta, in ultima analisi, di accettare una mediazione rituale della teologia pasquale, senza più potersi permettere fughe in soluzioni astratte che, in quanto tali, non costituiscono più una risposta sufficiente alla nostra crisi. La morte, che era già isolata, in regime di “quarantena” è ridotta a numero.

La morte “smaltita” non è un destino

Il grande impegno profuso in queste settimane dalla macchina sanitaria non può impedire che molti uomini e molte donne escano dalla “rianimazione” non rianimate, ma defunte. La migliore organizzazione sanitaria non può impedirlo. Anzi, ne è consapevole. Se, come è accaduto negli ultimi giorni, decine e decine sono i defunti di un solo ospedale, ciò significa che tutti questi pazienti si sono aggravati e hanno perso la vita del tutto privi di ogni compagnia diversa da quella professionale e funzionale della cura sanitaria. Una persona “vicina”, che conforti, che tenga la mano, che accarezzi, che consoli, non c’era e non poteva esserci. Ma è inevitabile che sia così? E’ inevitabile che, in queste circostanze, in cui è davvero ragionevole fare tutto il possibile perché ogni paziente sopravviva, si rianimi e torni in salute, corrisponda ad un nulla di progettato e di previsto per il caso di aggravamento, di fase terminale e di cordoglio? Forse in questo ambito la Sanità da un lato e le Chiesa dall’altro – tutte le Chiesa e tutte le fedi – possono fare qualcosa di forte e di necessario. Forse una “forza di presenza simbolica” – che sia presenza al malato e mediazione dei parenti – potrebbe aiutare a riumanizzare una fine che, così come ora accade, giunge a livelli di estraneazione e di indifferenza davvero pericolosi. Forse su questo punto le istituzioni civili e le istituzioni religiose possono riconoscersi un dovere di cura che oggi è difficile, ma non impossibile onorare. Non solo cura del vivere e della vita, ma anche cura del morire e della morte. Euthanasia, nel senso più antico, è proprio questo modo umano, non indifferente e non estraniato di morire. E’ solo questo, ma è questo ciò di cui manchiamo ora e questa mancanza di umanità – che il sistema, non i singoli, produce strutturalmente – possiamo, o forse dobbiamo, avere il coraggio di porre in questione. E lo facciamo come città e come chiesa, per far valere una esigenza elementare, ma preziosissima, che riguarda non solo il credente, ma anzitutto il cittadino.

1 K. Rahner, Il morire cristiano, Brescia, Queriniana, 2009, 33.

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