La parrhesìa (At 4,13) come condizione della tradizione ecclesiale


petrusjohannes

Nella messa di ieri, sabato fra l’ottava di Pasqua, abbiamo ascoltato come prima lettura il brano degli Atti 4, 13-21, che inizia così: “Vedendo la franchezza di  Pietro e di Giovanni”. In greco il testo suona “theoroùntes de ten tou Pètrou parresìan kai Ioànnou”. Il sinedrio di Gerusalemme resta colpito dalla “parrhesia” di Pietro e di Giovanni. Questa parola, parrhesìa, è un termine-chiave per la stagione di cambiamenti che la Chiesa sta attraversando, sotto la guida del Vescovo di Roma.  Francesco sa che senza parrhesia non si può  camminare. Ma che cosa significa questa parola? Che cosa vuol dire essere “franchi”? Come si fa a imitare Pietro e Giovanni, più di 2000 anni dopo, con la medesima franchezza?

“Parrhesia” è una categoria che merita particolare attenzione. Pertanto cerco di offrire una prospettiva più ampia di analisi e mi lascio guidare da un maestro che potrà apparire piuttosto strano e quasi scandaloso. M. Foucault, negli ultimi anni di corso al Collège de France si è occupato in profondità proprio di questa categoria. L’ha studiata nelle fonti classiche e, proprio nella sua ultima lezione del 1984, anche nella tradizione cristiana. A me pare che, nel termine parrhesia possiamo trovare il “ponte” che unifica la chiesa delle origini con la chiesa di oggi, e in particolare possiamo scoprirla nel magistero di Francesco, dove la mistica e la politica, la cura del soggetto e l’ascesi del servizio si intrecciano. Sincerità, autenticità, eguaglianza, libertà e fratellanza, tutto insieme, scaturiscono dal termine classico, che appare, da questo punto di vista, provvidenziale per fare sintesi di ciò che Francesco indica come missione di tutti i cristiani. Va aggiunto, tuttavia, che Francesco sa custodire anche il senso “negativo” di parrhesia! Senza mai chiamarla così, evidentemente, Francesco reiteratamente ritorna su quella accezione del “dire tutto” e del “parlare totalmente” che prende il nome di “mormorazione” e di “chiacchiera”. Parrhesia è dunque la cifra di una “apertura” alla verità che struttura la “società aperta”, al cui interno la Chiesa deve trovare la propria dimensione profetica e testimoniale, senza correre il rischio di scambiare il “dire tutto” con il “chiacchierare”. Dunque, bisogna essere franchi e sinceri proprio perché non bisogna chiacchierare!

Il rettangolo della parrhesia, a partire da M. Foucault

Esaminiamo la “parrhesia”, dunque. Al centro del rapporto con Cristo, che istituisce la compagine ecclesiale, come “comunità sacerdotale”, intorno alla “pietra scartata”, c’è una “parrhesia” che è, allo stesso tempo, libero dono di grazia e libera coscienza del soggetto. Le due cose insieme, in modo complesso e sorprendentemente non contraddittorio. Stanno tra loro come una “polarità”, piena di tensione, non come una contraddizione. Qui, a mio avviso, troviamo uno dei punti originali, e teoreticamente più interessanti, della “teologia di Francesco”, forse ispirata dal pensiero “polare” di Guardini, ma anche segnata dalla storia dell’America e dalle evidenze culturali della cultura gesuita. Su questo “pinnacolo” alto e ardito, si colloca il magistero di Francesco, con una novità di toni e di movenze che davvero suscita stupore ammirato e sorpresa confortante. Finalmente, dal punto più alto (e più basso, nella piramide rovesciata della Chiesa), ovvero dalla più alta autorità, che è riconosciuta come massimo servizio. Francesco sa di poter essere “magister” – originariamente datore di doni – solo nella misura in cui si fa “minister” – recettore di doni. Egli sa di poter essere “magis” solo se riesce ancora ad essere “minus”.

In questa tensione, egli supera la contraddizione tra libertà di Dio e libertà dell’uomo. Sa che uomini e donne liberi non sono una minaccia, ma l’unica possibilità per la Chiesa di annunciare la “sovrana e inarrivabile libertà di Dio, della sua grazia, della sua misericordia”. Per questo abbiamo bisogno di diffidare non solo delle forme “apparenti” di libertà, ma anche delle forme “vuote o violente” di comunione.

Orbene, come possiamo pensare la libertà dell’uomo davanti a Dio? Se non come “parrhesia”, come una disponibilità alla verità, alla sincerità, alla autenticità? Per lavorare su questo termine, e indagarne la struttura e implicazioni, non possiamo assumerlo soltanto nella sua accezione “retorica”, che resta inevitabilmente superficiale. Dobbiamo riconoscere che per essere davvero esposti alla “parrhesia” – ai suoi incanti e ai suoi pericoli – non possiamo permetterci una retorica della parrhesia.

Tra coloro che hanno studiato più profondamente questo termine, sulla base dei testi antichi – pagani e cristiani – come dicevo c’ è senza dubbio Michel Foucault, che non è precisamente un “Padre della Chiesa”. Ma è un pensatore che può permetterci di entrare adeguatamente anche dentro il pensiero ecclesiale, perché ha dedicato gli ultimi anni di vita (morirà nel 1984, alla Salpetrière, a Parigi) allo studio della “parrhesia”, come attestano le edizioni dei Corsi al Collège de France degli anni 1981-1982, 1982-1983 e 1983-1984, dedicati rispettivamente ai temi: L’ermeneutica del soggettoIl governo di sé e gli altri e infine Il coraggio della verità.

Ovviamente non avrò qui la possibilità di entrare nell’immensa costruzione filologica, storica e teoretica di questi corsi. Voglio solo assumerne alcune idee importanti, preziose per capire meglio la nozione di “parrhesia” per definire colui che vive la libertà della figliolanza rispetto al Padre e della fratellanza con Cristo e con i fratelli, nella Chiesa.

Foucault, in un passaggio memorabile del suo secondo testo, presenta una sintesi preziosa, che chiama il “rettangolo della parrhesia”. Ritengo sia utile seguirlo brevemente in questa esposizione dei 4 vertici di tale rettangolo, che egli presenta in questi termini:

Primo vertice del rettangolo: democrazia, eguaglianza di tutti i cittadini;

Secondo vertice del rettangolo: il gioco della superiorità, dell’ascendente, della autorità;

Terzo vertice del rettangolo: il dire-il-vero, il riferimento alla verità;

Quarto vertice del rettangolo: il conflitto e il coraggio del conflitto.

Foucault può così sintetizzare la propria struttura con queste parole, che cito letteralmente:

Condizione formale: la democrazia. Condizione di fatto: l’ascendente e la superiorità di alcuni; Condizione di verità: la necessità di un logos ragionevole. Infine condizione morale: il coraggio, il coraggio nella lotta. La parrhesia, credo, è costituita da questo rettangolo con il vertice costituzionale, il vertice del gioco politico, il vertice della verità e il vertice del coraggio” (Il governo di sé, 169).

Quando ho letto per la prima volta questo testo mirabile, mi sono subito detto: ecco uno straordinario criterio per una profonda ermeneutica della tradizione di comprensione dlla vita cristiana, nella interpretazione che di essa possiamo dare oggi, grazie alle intuizioni e sollecitazioni di Francesco. La sua domanda di “parrhesia” può essere interpretata in modo non semplicistico solo se è collocata all’altezza e nella profondità di questo rettangolo, nel quale condizione formale e materiale, condizione oggettiva e soggettiva si intrecciano mirabilmente. E’ solo la loro unità che ci permette di camminare “sulle orme” di Pietro e di Giovanni. Qui è evidente che “parrhesia” non è una mera virtù soggettiva. Potremmo dire che è invece una “condizione complessa” perché vi sia una Chiesa.

 Il quadrilatero della tradizione, pensato con franchezza

Per comprendere la “parrhesia”, dunque, non possiamo pensare semplicisticamente alla “virtù di un soggetto”, o, magari, alle “stravaganze del soggetto sud-americano”!! La condizione di “parrhesia” è costitutiva del “cittadino cristiano” che voglia camminare sulla via pasquale, sulle orme di Pietro e Giovanni. Per entrare in questo cammino c’è bisogno di “condizioni complesse” che devono essere onorate nella “società aperta”. La Chiesa è sfidata, all’interno di tale società aperta, ad onorare tutte e 4 queste condizioni, per essere davvero “esposta alla verità”.

Non è un caso, infatti, che il discorso di Foucault sulla parrhesia sia preceduto dalla analisi – come sempre acuta e illuminante – del famoso scritto kantiano sull’illuminismo, che prevede la “uscita dallo stato di minorità”. Anche la Chiesa, per Francesco, deve uscire dallo stato di minorità, che è la sua “autoreferenzialità”. Questa analisi di Foucault ci permette di scoprire che la “società aperta” ha un rapporto con la parrhesia, e che tale rapporto ha carattere non lineare, complesso. Per questo rappresenta un criterio formidabile per rileggere l’esercizio del magistero in questo tempo, nel quale è urgente “tradurre” la tradizione cattolica nella società aperta. Francesco sa che, sia pure con tutta una serie di abbagli e di svarioni, la società contemporanea effettivamente è uscita dallo “stato di minorità”. A partire da Gaudium et spes questa “uscita” non è più identificabile con il “peccato originale della modernità”. Poi, con Dignitatis Humanae, abbiamo saputo riconoscere persino la libertà di coscienza come parte della rivelazione cristiana. Quindi, per parlare ad una tale società la Chiesa non può più ammantarsi delle vesti della “societas perfecta” e della “societas inaequalis”. Per questo può diventare “sincera” – può essere ancora capace di “parrhesia” – soltanto nelle condizioni specificate dal “rettangolo” presentato da Foucault. Proviamo ad esaminare brevemente questo “rettangolo” della parrhesia ecclesiale nel contesto del “cambiamento d’epoca” che stiamo attraversando:

a) La condizione formale della parrhesia: la Riforma della Chiesa. La uscita da una società chiusa e la costruzione di una società aperta è, da 200 anni, una provocazione grande per la Chiesa. La Chiesa aveva “imparato a camminare” nelle forme della amministrazione, della giurisdizione e dell’esercizio della autorità tipiche dell’”ancien regime”. La Riforma della Chiesa è oggi anzitutto il riconoscimento di una “complessità della autorità”, che richiede “procedure complesse” per non smentire l’approccio al reale che la “libertà di coscienza” ha introdotto negli ultimi 200 anni nella esperienza del mondo e della Chiesa stessa.

b) La condizione autorevole della parrhesia: Parola e sacramento come “auctoritates” e come “ascendenti”. La differenza, ecclesialmente, sta sempre “al di qua” e “al di là” dei soggetti implicati. La gestione dei “fatti ecclesiali” deve guadagnare una trasparenza e una elasticità in cui il centro stia, ripeto, prima e dopo, citra e ultra, non “in sé”. La Chiesa “per altro”, non “per sé” è anche, inevitabilmente, una “nuova teoria di politica ecclesiale”. Parrhesia è, in tal senso, accurata distinzione dei livelli di parola e di sacramento rispetto a tutti gli altri.

c) La condizione di verità della parrhesia: la incompletezza della dottrina e della disciplina. Tutta la dottrina e tutta la disciplina “accompagnano” alla verità, che sta nella “esperienza del Mistero” e nella “esperienza degli uomini”. La “esposizione alla verità” è principio di fedeltà e di rigore, ma impone una inquietudine, una incompletezza e una immaginazione sempre vive e sempre in azione.

d) La condizione morale della parrhesia: la condizione di conflitto e il coraggio della testimonianza. Parrhesia non è mai una condizione “garantita”. Ha sempre bisogno di un atto di coraggio, di una entrata in conflitto, di una lotta necessaria alla testimonianza. Il coraggio del confronto, anche del conflitto, permette una apertura maggiore e una autentica esposizione al vero.

Forse potrà sorprendere: il fatto di avere “parrhesia”, cosa che come abbiamo visto si presenta come una caratteristica talmente originaria e costitutiva della identità ecclesiale, da essere quasi la prima cosa che viene notata nel comportamento e nelle parole di Pietro e di Giovanni, è una condizione per la “trasparenza della testimonianza ecclesiale”. Una Chiesa che sappia ancora essere “franca” si lascia attraversare dal mistero, si pone seriamente al servizio di una parola e di una azione più grande di lei, si apre al discernimento paziente e può custodire il centro del messaggio nel dialogo con la cultura.

La Chiesa è come la luna: ricordiamo le parole di J. M. Bergoglio qualche giorno prima della elezione a papa: “La Chiesa, quando è autoreferenziale, senza rendersene conto, crede di avere luce propria; smette di essere il “mysterium lunae” e dà luogo a quel male così grave che è la mondanità spirituale”. Quando invece ricorda questo mistero lunare, la Chiesa sa essere luminosa, ma sa di non esserlo di luce propria. E sa anche che, per essere “luna nuova”, deve passare per la invisibilità. Come fa ogni anno, nel Triduo pasquale: si disperde sotto la Croce per ritrovarsi davanti al sepolcro vuoto. Come la “bocca baciata” di cui si canta nel Falstaff, anche la Chiesa, alla sequela del Crocifisso Risorto e con il dono della parrhesia, “non teme ventura, ma si rinnova, come fa la luna”.

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