La penitenza è un sacramento? Una domanda per la quaresima
Avvicinandosi la quaresima, il cammino ecclesiale dovrà porre di nuovo la domanda sul “fare penitenza” che sembra caratterizzare in modo particolare proprio questo tempo dei 40 giorni. E’ altrettanto ovvio che resta ancora molto facile identificare il “tempo di quaresima” con un momento opportuno per accedere con maggior frequenza e intensità al sacramento della confessione.
Questa sovrapposizione del “tempo di penitenza” con il “sacramento della penitenza” a suo modo appare istruttiva e indica, nella forma più chiara, una questione che merita di essere affrontata in modo esplicito.
Per la coscienza della Chiesa fino al XVI secolo, ossia fino alle soglie del mondo moderno, la penitenza era una parte costitutiva della vita cristiana. Il “fare penitenza” era una dimensione ordinaria della vita dei battezzati, che nessuno confondeva con un sacramento diverso dal battesimo e dalla eucaristia. Per questo, nella terminologia che la scolastica ha introdotto, la penitenza è chiamata “virtù”, ossia una “capacità” di vivere il perdono, ricevuto da Dio ed esercitato verso il prossimo, che fa parte dei doni ricevuti con il battesimo. Questa penitenza, questa virtù che fa tesoro della esperienza battesimale, può però patire una crisi. Solo allora entra in campo il “sacramento della penitenza”, ossia il processo ecclesiale, quello che ancora il concilio di Trento chiama “battesimo laborioso”, e che restituisce al battezzato la virtù di penitenza. Per farlo, oltre a rinnovare il perdono di Dio con la solenne dichiarazione della “assoluzione”, vengono messi in opera quegli “atti del penitente” che sono costitutivi del sacramento. Il sacramento è perciò il percorso di recupero della virtù di penitenza, basato su un “giudizio” circa il lavoro del pentimento e della soddisfazione, che permette al penitente di rientrare, gradualmente, nella comunione ecclesiale.
Questo sistema, che è ancora chiaro a metà del 500, inizia a mutare proprio attraverso la mediazione tridentina, che impone una nuova visione, segnata allo stesso tempo da apologetica e da individualismo e da burocrazia, secondo le nuove esigenze del mondo moderno. Sul piano apologetico, tende a prevalere una visione generale del sacramento, a discapito delle specificità dei singoli sacramenti. L’idea che i sacramenti sono efficaci “ex opere operato” tende ad avvalorare una lettura immediata della loro efficacia: questo ha sulla penitenza un effetto molto pesante, poiché opera uno spostamento di ottica. Siccome la prospettiva della “virtù” sembra essere assunta dalla posizione luterana (e in generale riformata), il cattolicesimo inizia ad identificare la penitenza con il sacramento della penitenza. Questo fenomeno implica, inoltre, una progressiva formalizzazione dell’elemento “virtuoso” interno al sacramento. Se, come abbiamo visto, sono gli “atti del penitente” forme evidenti della virtù, ma rilevanti all’interno del sacramento, la tendenza prevalente, dopo il Concilio di Trento, è quella di “formalizzare” gli atti del penitente e dare rilievo quasi esclusivo alla autorevolezza gerarchica della parola di perdono. Posta una confessione da parte del penitente e pronunciata una assoluzione da parte del ministro competente, tutte le dimensioni di contrizione e di soddisfazione sembrano ridursi ad atti formali. Questo tuttavia non ha impedito che la esperienza ecclesiale, comunque, elaborasse a suo modo questa realtà, introducendo due diversi “usi” del medesimo sacramento della penitenza. Quella diversità che prima era gestito dalla differenza tra virtù di penitenza e sacramento della penitenza, ora diventa il diverso modo di accostarsi al sacramento, per necessità o per devozione. Necessaria è anzitutto la confessione del “precetto pasquale”, ma anche il sacramento giustificato da “colpa grave”. L’uso devoto consiste, invece, nel domandare il sacramento per esercitare la virtù, non per superare la scomunica. Questa è una novità moderna: ogni esperienza penitenziale tende sempre più ad essere assorbita dal sacramento, sia quando il sacramento stesso è necessario (potremmo dire come era prima della modernità) sia quando il bisogno di esercitare la virtù sente (solo ora) di dover ricorrere sempre al medium sacramentale, anche quando esso non è necessario. Di qui deriva il fatto per cui, a partire dal XVIII secolo, sempre più la recezione della dottrina tridentina ha prodotto una esperienza di penitenza quasi totalmente sovrapposta al sacramento. Se dici “penitenza”, tutti capiscono “sacramento della penitenza” e non se ne esce.
La chiesa che oggi abitiamo ha ancora, nel suo corpo, la inerzia di questo sviluppo moderno, che ha integralmente sacramentalizzato l’esperienza di penitenza, dimenticando il fondamento battesimale ed eucaristico della virtù, e ritenendo che ogni “riconciliazione” abbia nel IV sacramento la sua sede più significativa e più immediata: quasi con un soggetto che resta “in contumacia”. Questa esagerazione, tuttavia, ha dimenticato una parte costitutiva della tradizione teologica e anche della dottrina tridentina. Da un lato, infatti, dovremmo ricordare che per Tommaso d’Aquino, che non aveva ancora il problema di Lutero, ma che era uomo lucidissimo, valeva il principio generale per cui “può esserci virtù di penitenza senza sacramento, ma non può esserci sacramento della penitenza senza virtù”. Ovviamente, dopo Lutero, questa frase suona “pericolosa”: ma resta vera e dice una verità inaggirabile anche del sacramento. Come resta vero che il Concilio di Trento non ha detto soltanto che i sacramenti sono sette, né più né meno, ma che è sbagliato pensare che siano tutti della stessa dignità. Una differenza strutturale tra battesimo e sacramento della penitenza può essere garantita solo dal fatto di concepire il sacramento della penitenza come “battesimo laborioso”. Una penitenza che si imponga alla esperienza del cristiano senza “lavoro” è in realtà un nuovo battesimo. Ma su questa lettura tutta la tradizione è concorde nel dire che si tratta di un errore irreparabile. Per questo oggi siamo nel delicato passaggio di una riscoperta: al posto del “sacramento di devozione”, magari inflitto già ai bambini come “prima confessione”, dovremmo ripensare, con nuova terminologia, la dinamica tra penitenza battesimale (virtù) e sacramento della penitenza, senza illuderci che uno strumento di guarigione possa essere il surrogato di un accesso originario alla comunione. Un sacramento della crisi non può essere un sacramento della iniziazione alla comunione. Questa è la sfida per la quale anche la “penitenza quaresimale” non deve affrettarsi a tematizzare soltanto una intensificazione del IV sacramento, ma può partire dai testi/gesti eucaristici e dal ritmo della preghiera per onorare in modo più intenso il dono e il compito, ecclesiale e personale, del “fare penitenza”.