La pericolosa frattura tra ordine e giurisdizione nella partecipazione delle donne alla autorità ecclesiale
Riprendo con qualche precisazione un testo di tre anni fa, che la recente nomina a Prefetto di Simona Brambilla rende assai attuale e urgente. Sembra che di fronte alla pandemia, e di fronte alle donne, si possa solo arretrare su posizioni arretrate, anche dimenticando ciò che di buono si è iniziato a pensare e a fare a partire dal Concilio Vaticano II.
Dopo aver letto con grande interesse ciò che U. Del Giudice e P. Consorti hanno scritto tempo fa sui loro blog (i cui contributi si possono leggere qui e qui), propongo un piccolo percorso storico sul ministero episcopale. Rifletterò sul piano sistematico e sul piano storico, a partire da due eventi, il primo legato alla pandemia, mentre il secondo è recentissimo.
Vorrei sollevare subito una questione che appare decisiva per la nostra breve indagine: ci siamo chiesti perché, con poche luminose eccezioni, i Vescovi nel biennio “pandemico” 2020-2021, spesso abbiano parlato come “notai”, come “avvocati”, citando quasi solo codici, norme, leggi? Perché mai, di fronte al dramma di una condizione tanto precaria e difficile, hanno citato quasi solo “normative”, “disposizioni” e “decreti”? D’altra parte, è anche evidente che per permettere a una donna di “partecipare al governo della Chiesa” sembra imporsi, di nuovo, una riduzione della autorità alla potestas iurisdictionis, senza alcun riferimento obbligato alla dimensione della ordinazione.
Provo a rispondere rileggendo brevemente la nostra storia cattolica, che nell’ultimo secolo è profondamente mutata. Per capirlo, il riferimento “normativo” risulta inaggirabile. Senza di esso, si rischia di parlare a vanvera.
1.La differenza tra due codici
Per tentare di capire partiamo da alcuni dati elementari, ma che spesso sfuggono alla percezione comune:
– un primo confronto utile è tra i due CjC del 1917 e 1983.
a) nel 1917, il can. 949 distingue nel “DE ORDINE” tre ordini maggiori (presbiterato, diaconato e suddiaconato) e quattro ordini minori (accolitato, esorcistato, lettorato e ostiariato). A ciò il can 950 aggiunge la consacrazione episcopale e la tonsura. Il Codice del 1917 – e l’esperienza ecclesiale fino al Vaticano II e al codice successivo (1983) rimane immersa in questa visione, nella quale il Vescovo è “prodotto” non da un sacramento, ma da un semplice “sacramentale”.
b) nel 1983, il can. 1009 in modo lapidario dice: “Ordines sunt episcopatus, presbyteratus et diaconatus”.
Ovviamente, tra i due testi vi è il Concilio Vaticano II. Che compie una grande rivoluzione nel modo di concepire il ruolo e la struttura della “costituzione gerarchica della Chiesa”. (LG III capitolo, 18-29).
Questa differenza di prospettiva è del tutto decisiva, anche se sembra restare in ombra sia davanti alla pandemia, sia davanti alle donne.
2.Una diversa comprensione del sacramento dell’ordine e del ministero episcopale
Che cosa cambia, in questo periodo che matura dal 1917 al 1983? Cambiano almeno 4 cose fondamentali:
– La posizione sistematica del “ministero ordinato” viene dopo il mistero della Chiesa (I) e il Popolo di Dio (II);
– Per una lunga tradizione, i 7 gradi dell’ordine non comprendevano l’episcopato, che ora viene reintegrato al suo posto di eccellenza e di pienezza sacramentale, insieme ad un radicale ripensamento dei “7 gradi” (ridotti a 3, dopo i ministeri istituiti);
– Nella visione precedente, accanto alla dimensione “sacerdotale” – che era conferita dal “sacramento dell’ordine”, culminante nel sacerdote-presbitero – l’episcopato aggiungeva un “potere di giurisdizione”, che univa potere dottrinale e potere di governo, ma all’esterno del sacramento!
– Questa comprensione secolare ha generato il fenomeno di “sfasatura” dal quale siamo partiti. Sia nella persona del vescovo, sia nel popolo di Dio, è facile che sia ancora forte la tensione tra “autorità sacramentale” e “potere di giurisdizione”.
Da dove viene il mutamento? Potremmo dire dalla fine del modello medievale-moderno di interpretazione del ministero ordinato.
3.Modello medievale, moderno e conciliare
Ci sono piccoli e grandi fraintendimenti nel passaggio tra modello medievale e modello moderno (tridentino).
La lezione del medioevo, che con estrema libertà ha riflettuto sul ministero nella Chiesa, è stata assunta in modo nuovo e più rigido dalla stagione moderna, che aveva intanto maturato nuove evidenze e nuovi imbarazzi. Il progressivo centralismo e il sorgere di una “congregazione dei vescovi” alla fine del XVI secolo impone una vistosa accelerazione alle forme più accentuate di centralizzazione. Al punto che la “elezione del vescovo” sembra diventare una cosa quasi inconcepibile.
Il mutamento del modello di comprensione dell’episcopato – che il Concilio Vaticano II restaura con una operazione assai complessa – compie in questa storia un doppio salto mortale:
a) restituisce all’episcopato la sua dignità sacramentale, dopo un millennio di esclusione del vescovo dal “cammino” di salita verso la pienezza del sacramento, pensato come “ordine sacerdotale” di cui la figura culminante era il prete;
b) rilegge il “potere di giurisdizione”, che prima definiva intergralmente il vescovo, soltanto come uno dei “tria munera” che lo qualificano (regalità, profezia e sacerdozio)
Vediamo con maggior precisione ognuno di questi due aspetti:
L’episcopato diviene la “pienezza del sacramento dell’ordine”. Questa è una affermazione che suona molto nuova. Perché la ricostruzione medievale e poi moderna aveva concepito due generi di potestas:
– potestas ordinis: che si realizzava della consacrazione eucaristica e nella assoluzione dai peccati e su cui la Chiesa “non aveva potere”
– potestas iurisdictionis: che dispensa il sacramento dell’ordine (restandone fuori) e che esercita il potere dottrinale e di governo, come ambito del potere ecclesiastico.
Ora il modello ritorna allo stile dei primi secoli: pensa secondo una “forma unitaria” che si articola su tre “compiti” “doni”, i “tria munera”, riferiti (in modo diverso, ma concorde) ad ogni battezzato e ad ogni ministro ordinato:
– munus profetico – essere in Cristo profeta/maestro: annuncio della parola
– munus regale – essere pastore/autorità: pascere le pecore, governare la chiesa
– munus sacerdotale – essere sacerdote, presiedere il culto ecclesiale
Si deve notare che, in questa rilettura conciliare, la struttura dei “tre doni”, riferiti originariamente anzitutto a Cristo, caratterizza l’intero corpo ecclesiale, dal battezzato al vescovo.
In questo modo avvengono una serie di modificazioni decisive non tanto e non solo per il Vescovo, quanto per la autocoscienza ecclesiale.
4. La applicazione del modello conciliare alla “predicazione della parola”
Se applichiamo questa differenza di modelli al rapporto con la “Parola” ne discendono interessanti conseguenze:
– la autorità episcopale è integralmente sacramentale, e si articola in modo armonico secondo il modello “comune” a tutta la Chiesa.
– la autorità dottrinale è fondata sulla profezia della predicazione. E’ il “Dei Verbum” il fondamento della autorità episcopale. Questa autorità sta sotto, non sopra la parola. Ne viene una “rilettura capovolta” della tradizione: se per Trento, alla scuola del medioevo, la relazione con la parola, da parte del Vescovo, rischia di ridursi al “controllo sulle parole lecite”, è evidente che questo dipende dal fatto che quella “facoltà” è pensata come “potere di dire diritti e doveri”. La non sacramentalità della autorità ne riduce l’impatto profetico, poiché manca della sporgenza del dono. Il fatto che oggi sia il “munus profetico” a caratterizzare il “sacramento dell’ordine nel grado dell’episcopato” rende possibile un ripensamento radicale del ministero episcopale, anche sulla Parola. E rende pensabile che un Vescovo, anche di fronte alla “pandemia”, non si domandi anzitutto che cosa sia lecito o illecito, ma come annunciare il Vangelo!
Questo è il modello nuovo, che stiamo ancora imparando. E lo facciamo nella inerzia del modello vecchio. Questo è ciò che è accaduto negli ultimi 50 anni. Il tempo è ancora molto breve, non abbiamo forse neppure notato la differenza. Anche in questo noi abbiamo formalmenteabbiamo cambiato “lessico”, ma conserviamo spesso il “canone” precedente, che smentisce il lessico nuovo, imponendo simboliche, immaginari e attese “vecchie” e “superate”.
In effetti, pur con tutte queste limitazioni, il recupero della qualità sacramentale dell’episcopato permette di elaborare adeguatamente una “esperienza ecclesiale” pensata non più e non tanto come “societas perfecta”, ma come “mistero di comunione”, “popolo di Dio”, corpo di Cristo”, “tempio della Spirito Santo”. Questo non è “linguaggio estrinseco”, ma nuova comprensione istituzionale, nutrita da simboliche bibliche e non dall’immaginario feudale o cavalleresco.
E si noti bene: perché tutto questo possa accadere in verità e in realtà, senza scivolare in affermazioni retoriche o ipocrite addirittura, la Chiesa deve poter vivere ogni suo atto – a partire dalla ordinazione di un Vescovo e dalla sua definizione – secondo questa logica antica e nuova, e non in contraddizione con essa. In questa rilettura i “titoli feudali” – come il titolo di “arcivescovo ad personam” – sono il segno limpido della inerzia di una lettura “non sacramentale” dell’episcopato. Ed è evidente che ciò che una lunga tradizione “cerimoniale” si è permessa di elaborare circa una realtà che era teologicamente ritenuta “non sacramentale” – e sulla quale la Chiesa esercitava allora legittimamente il suo potere – oggi non è più possibile sulla base della nozione esplicitamente “sacramentale” dell’episcopato. In questo modo il Concilio ha legato le mani al cerimoniale di curia. Che tarda ad adeguarsi, ma il cui destino “cerimoniale” è segnato, autorevolmente e irreversibilmente. Dobbiamo solo trarne le dovute conseguenze, sul piano del linguaggio da parlare e sul piano delle normative cui obbedire. Sia sul primo, sia sulle seconde la Chiesa può serenamente riconoscere di avere piena autorità, senza essere vincolata in modo irreformabile da ciò che è stato prima, dal “bel tempo che fu”, che certo è vera tradizione, ma in parte viva e in parte morta, in parte sana e in parte malata.
Per questo la profezia di canonisti non burocrati (e di teologi non astratti) risulta sempre più necessaria: perché le istituzioni parlino ufficialmente nuovi linguaggi e perché i linguaggi siano simboli efficaci di una nuova comprensione istituzionale. Quando il linguaggio smentisce la teologia e la teologia non si occupa degli atti concreti, una spia rossa si accende sul cruscotto della barca ecclesiale e il motore ha bisogno di una profonda revisione, fatta con competenza e con decisione. Altrimenti la barca non solo si fermerà, ma uscirà dalla rotta, andrà alla deriva e potrà anche fare danni gravi, a sé e agli altri.