La questione della misericordia e la comunione eucaristica. Una bella provocazione di Damiano Migliorini


Scrivo a propostito dell’articolo di Damiano Migliorini, Prendete e mangiatene tutti: ripensare l’Eucaristia nel terzo millennio, “Rassegna di Teologia”, 65 (2024) 181-205.

Ho letto con grande interesse il saggio con cui D. Migliorini propone una rilettura della relazione tra “comunione eucaristica” e “peccato grave”. Egli ritiene che si debba superare la concezione che vincola l’accesso alla comunione eucaristica alla assenza di peccato grave e che si debba uscire da una visione “rigorista”, che si sente costretta ad escludere il peccatore grave dalla comunione eucaristica, per far prevalere una visione “misericordiosa”, che separa con rigore la condizione del peccato grave dalla partecipazione alla comunione eucaristica e che può permettere la seconda anche a chi non abbia ancora intrapreso il percorso di liberazione dalla prima.

La valutazione della tesi portante del saggio, stimolante e davvero provocante per il pensiero e per la fede, deve però considerare un orizzonte che sembra pensare il “peccato grave” nella condizione della “comprensione moderna”. Che cosa intendo dire? Che l’autore sembra partire, nella sua analisi, soltanto da “alcune fattispecie di peccato grave”, legate in modo specifico alla dimensione sessuale. Questa condizione, che nomina il peccato grave anzitutto pensandolo come riferito alla sfera sessuale (adulterio, fornicazione, convivenza, legame e unione omosessuale, ecc.) mi pare che condizioni in modo forte la soluzione teorica adottata, mediante una sorte di “perdita di autorità” da parte della Chiesa di fronte alla proibizione di partecipazione alla comunione eucaristica: la chiesa dovrebbe invece riconoscere di non avere il potere di impedire a Cristo di incontrare direttamente anche il peggiore dei peccatori.

Si tratta di una tesi originale, ma mi sembra che questo condizionamento, legato a fattispecie di peccato grave sviluppate soprattutto nell’età postridentina, in contesto moderno e tardo-moderno, porti l’autore a formulare una “tesi generale” che non pare possa spiegare lo sviluppo con cui, nella storia, la competenza in ambito penitenziale sia nata precisamente “contro” una tendenza rigorista. Rigoristi erano coloro che (come Monica, madre di Agostino) ritenevano che dopo il battesimo ad ogni cristiano non fosse data altra via per riconciliarsi con Dio e con i fratelli. Il sorgere di una “soglia penitenziale”, per recuperare la comunione perduta e per ricondurre il peccatore grave alla comunità eucaristica, è nato proprio in ragione di una lettura “misericordiosa” dell’agire di Dio e della Chiesa. Perciò, in origine, la misericordia consiste nel rendere possibile una “seconda tavola dal naufragio”, non nel negare la incidenza sulla vita cristian del naufragio.

D’altra parte, a ben vedere, il peggiore degli assassini (come l’Innominato del Manzoni) può convertirsi e tornare alla vita eucaristica in modo immediato. Non conosce una “proibizione della comunione”. La questione, nella sua urgenza contemporanea, si pone soltanto per quei peccati (sessuali e relazionali) che hanno creato, a partire dal sorgere della “società della dignità”, una differenza tra “esigenze penitenziali” e “comunione eucaristica”. Se ad un “divorziato risposato” o a una “coppia in condizione irregolare” pongo come condizione della comunione eucaristica un “cambiamento di vita” (scioglimento della relazione o rinuncia agli atti sessuali) che risulta se non impossibile, almeno largamente improbabile (come accade per nuove coppie o per relazioni omosessuali riconosciute civilmente) è ovvio che possa nascere l’idea non solo “parziale” di ammettere in singoli casi i soggetti alla comunione eucaristica, ma anche idee “generali”, come quella proposta dal saggio di Migliorini, mediante la formulazione di un vero e proprio “diritto di ogni battezzato” a partecipare alla comunione eucaristica, indipendentemente dalla condizione di peccato della propria esistenza.

Qui, a mio avviso, la teoria formulata da Migliorini rischia di essere troppo ampia e di “provare troppo”. Capisco bene il bisogno di una formulazione non moralistica della comunione eucaristica, ma una sua traduzione semplicemente escatologica, indifferente alla concreta forma di vita, non riesce a dar conto della storia specifica con cui il cristianesimo e il cattolicesimo hanno affrontato la delicata questione della differenza tra “stato di grazia” e “accesso alla comunione”. Una traduzione dinamica di questa relazione è del tutto comprensibile e sicuramente auspicabile, ma non credo possa mai diventare una “regola capovolta”. Ossia che si chieda di capovolgere il “sistema”: se la tendenza medievale e moderna è stata quella di subordinare la eucaristia alla condizione di “peccatore perdonato”, la proposta di Migliorini sarebbe quella di assicurare ad ogni battezzato il diritto di accedere all’eucaristia, salvo la necessità parallela, ma non condizionante, di accedere al sacramento della penitenza. In questo modo, tuttavia, si perderebbe l’unica giustificazione sistematica della esistenza del sacramento della penitenza, ossia quella di concedere di nuovo al soggetto, caduto in colpa grave, l’accesso alla comunione ecclesiale mediata dalla comunione eucaristica.

La giustificazione di questa teoria, che è anche agli occhi di Migliorini è consapevole di costituire, almeno in ambito cattolico, una novità significativa e pressoché inedita, potrebbe consigliare un lavoro sul concetto di “peccato grave”, piuttosto che la separazione radicale tra sacramenti della iniziazione e quelli di guarigione. Se infatti la relazione con l’eucaristia fosse un “diritto indisponibile” di ogni battezzato, che nessuno potrebbe negargli, quale sarebbe il ruolo dei sacramenti di guarigione? Qui io trovo il lato debole della proposta di Migliorini. La storia della Chiesa dimostra, in modo abbastanza lineare, che l’eucaristia non è mai stata “indifferente” alle storie dei soggetti e alle loro crisi. Una eucaristia “a prova di bomba” rispetto alle crisi dei soggetti sembra una idealizzazione più che una reale comprensione teologica.

Certo, la domanda che sale dal testo di Migliorini resta seria e inaggirabile: che cosa possiamo fare per restituire alla eucaristia non solo il ruolo di “culmen”, ma anche quello di “fons”. Questo resta un punto decisivo, anche per il dibattito attuale. Io credo, tuttavia, che questa riscoperta non possa rendere l’eucaristia così superiore alla “guarigione cristiana” da potersi celebrare “in qualsiasi condizione”. La valutazione delle “condizioni di inaccessibilità” non è storicamente né uniforme né immutabile. Ma scavalcare la questione, affermando un principio solo “escatologico” dell’eucaristia, su cui la Chiesa non avrebbe alcun potere, mi sembra una soluzione troppo drastica e troppo lineare. Trovare il giusto equilibrio tra un sacrificio che “cancella anche i peccati più gravi” (come dice il Concilio di Trento) e un “procedimento penitenziale” che accompagni il soggetto in una trasformazione di cui l’eucaristia sente la esigenza, mi sembra un obiettivo a cui la provocazione teorica di Migliorini può dare un contributo importante, anche se non definitivo. La chiesa non necessariamente deve “perdere autorità” per essere se stessa: deve piuttosto riformulare profondamente le parole, gli stili e i percorsi con cui non rinuncia a mediare, storicamente, il dono dello Spirito che è sempre anche uno “sciogliere” e “legare”. Che il centro del perdono resti il mistero dell’eucaristia è pacifico. Che questo escluda un ruolo di mediazione del IV sacramento per il ritorno all’eucaristia del soggetto che se ne era separato, mi sembra altrettanto indiscutibile.

Share