La religione e i linguaggi elementari: come nutrire la fede?


A Praga, nei giorni 23-27 aprile 2014  si è tenuto il Convegno dell’EuFres, il Forum Europeo per l’Insegnamento Scolastico della Religione. In quel contesto ho tenuto una relazione di cui riporto qui il testo. In quella occasione è stato eletto, come Presidente del Forum Europeo, Don Filippo Morlacchi, Direttore dell’Ufficio Scuola del Vicariato di Roma. Un                                                                          augurio di buon lavoro al nuovo Presidente.

“Cantate un canto nuovo”. I nuovi linguaggi per l’insegnamento della religione

                                            “Nutrire il pianeta, energia per la vita”
                                                                                                       EXPO 2015

Il breve percorso che intendo proporre, in questa mia riflessione, costituisce il frutto di una duplice attenzione. Da un lato cerco di interpretare i “segni dei tempi” che ci offrono gli ultimi 50 anni di vita ecclesiale, con la loro sorprendente novità. Dall’altro utilizzerò la “svolta linguistica” come criterio ermeneutico della stessa svolta conciliare, per scoprire che il Concilio Vaticano II si può comprendere come un “ritorno alle fonti” che è “reso possibile” e “autorizzato” da una diversa comprensione del rapporto tra linguaggio ed esperienza. Vorrei procedere secondo “10 passi”, ognuno dei quali esordirà con una “tesi”, enunciata all’inizio e brevemente commentata successivamente. All’inizio e alla fine del percorso vorrei sostare sul tema della prossima “EXPO 2015”, che è singolarmente consonante con le preoccupazioni che qui cerco di tematizzare: ossia il recupero di “linguaggi elementari per nutrire la fede”.

1. L’orizzonte conciliare. L’”inclusione” tra Gaudet Mater Ecclesia (1962) ed Evangelii Gaudium (2013)

Tesi 1: Il modo con cui siamo chiamati a “mediare la tradizione” si sostanzia di due “svolte”: tornare alle fonti della esperienza di “rivelazione/fede”, ma distinguendo necessariamente, nella tradizione, la “sostanza della antica dottrina dalla formulazione del suo rivestimento”.

Il discorso inaugurale Gaudet Mater Ecclesia, con cui Giovanni XXIII ha aperto il Concilio Vaticano II e, recentemente, la Esortazione Apostolica Evangelii Gaudium di papa Francesco contengono il medesimo brano, ossia la famosa definizione della “natura pastorale” del Concilio: “altra è la sostanza della antica dottrina del depositum fidei, e altra è la formulazione del suo rivestimento”. Questo passo, giustamente famoso, inaugura ufficialmente, nella esperienza della Chiesa cattolica, una nuova percezione del ruolo del linguaggio. Perché la continuità della tradizione possa essere assicurata, non bisogna confondere ciò che nutre con la forma che esso ha assunto lungo la storia. Le singole forme, nel loro divenire, consentono alle generazioni, che si susseguono nella storia, di poter attingere nutrimento e forza dalla sostanza della antica dottrina. Il linguaggio non è più strumento, ma mediazione delicata per la continuità della tradizione.

2. Il Concilio come “evento linguistico e evento di stile” e la “svolta linguistica”

Tesi 2: Le interpretazioni più significative che gli ultimi decenni hanno offerto hanno due caratteristiche assai singolari: vengono da “fuori Europa” e insistono sulla “forma” prima che sul contenuto del CV II. O’Malley e Routhier (rispettivamente statunitense e canadese) interpretano il CVII come “evento linguistico” o “evento di stile”. 

Questa circostanza può facilmente farci comprendere quanto importante deve essere il riconoscimento della funzione di questi “luoghi internazionali”, che mettono in rapporto la tradizione cristiana e cattolica “in diverse lingue”. Come oggi soprattutto uno sguardo “da oltre Oceano” può cogliere “che cosa è veramente capitato al Concilio”, scoprendone il “segreto” di un mutamente epocale del linguaggio con cui il magistero comprende meglio la Chiesa e il suo rapporto con il Signore Gesù, così si deve riconoscere che queto “mutamento di linguaggio”, che oggi noi ereditiamo dal Concilio, è stato reso possibile dalla singolare contestualità “intercontinentale” di quella assise, che per la prima volta ha permesso il confronto e lo scontro tra le diverse culture dei cinque continenti nei quali vivono, parlano, pregano, lavorano, amano, mangiano, dormono, soffrono e gioiscono i cristiani cattolici romani.

3. La riscoperta dei “linguaggi elementari della fede”: culto, parola, relazione testimoniale, rapporto con il mondo

Tesi 3:  Il Concilio Vaticano II ha prodotto una riscoperta di “esperienze fontali” per la rivelazione e per la fede: l’atto di culto rituale (SC), l’ascolto della parola (DV), la relazione di comunione ecclesiale (LG) e l’incontro dello Spirito nel mondo (GS) sono, nello stesso tempo, esperienze e linguaggi.

Non vi è dubbio, infatti, che la originalità del Vaticano II, se deve essere riconosciuta, può essere colta nella particolare scelta – squisitamente pastorale – con cui Giovanni XXIII prima, Paolo VI poi, e con loro i più di 2000 Padri conciliari, hanno ritenuto di dover abbandonare il “registro classico” del magistero conciliare, prevalentemente fatto di canoni di condanna e di formulazioni dogmatiche, per abbracciare un registro narrativo, biblico, sapienziale con cui meglio esprimere la identità e la vocazione ecclesiale. Per questo essi hanno saputo dar voce ad esperienze tanto fondamentali e originarie, quanto “secondarie” nelle premure e nelle preoccupazioni più classiche. Questa singolare, ma necessaria convergenza di esperienze elementari, che necessitano di linguaggi meno precisi, ma più potenti, ha formato, in pochissimi anni, un “corpus” di testi dove la tradizione viene ripensata e riespressa secondo linguaggi che permettono altre esperienze (del mistero di Dio e del mistero della Chiesa), mentre queste nuove esperienze si dicono, necessariamente, secondo una “formulazione diversa” della medesima sostanza dottrinale.  

4. Un modello diverso di dottrina: imparare le regole di una lingua

Tesi 4: Questa riscoperta ha una duplice rilevanza. Da un lato assicura la continuità della sostanza della dottrina nel mutamento dei linguaggi. Dall’altro recupera l’urgenza del mutamento dei linguaggi perché l’accesso alla dottrina possa essere ancora assicurato. La “nuova formulazione” diventa necessaria perché possiamo ancora accedere alla sostanza della dottrina.

Su questo punto è bene sostare ancora un poco. E’ fondamentale comprendere bene questa duplice rilevanza della “svolta pastorale” del Concilio Vaticano II. Da un lato, infatti, essa ha un valore di “autorizzazione” al cambiamento. Se la sostanza non cambia, pur mutando il linguaggio che la esprime, le ragioni del cambiamento (nella forma liturgica, nella recezione della Scrittura, nella istituzione ecclesiale e nella apertura al mondo) possono essere confortate da una maggiore serenità e fiducia. D’altra parte – ed è questo il versante più interessante e delicato – essa ha un valore di “riforma” o, come dice il latino, in modo più chiaro, di “institutio”: solo il cambiamento della forma espressiva consente un nuovo e più profondo accesso al nutrimento sostanzioso del “depositum fidei”. In questo caso, in effetti, il mutamento assume un ruolo portante e formativo per l’accesso pieno ed autentico alla sostanza. Il linguaggio qui non è semplicemente uno “strumento per esprimere la sostanza”, ma piuttosto una “nuova esperienza della medesima sostanza”. Per avere accesso alla “antica dottrina”, occorre imparare “nuovi linguaggi”. Ma non basta: i nuovi linguaggi non si imparano se non nell’unico modo con cui si apprendono le lingue, ossia mediante l’uso, mediante la iniziazione. Una lingua non si apprende per spiegazione, ma per iniziazione. Il significati delle parole sono le regole con cui si usano.

5. Per la scuola: recupero del primato della “iniziazione” rispetto alla “dottrina” e alla “norma”

Tesi 5: Le conseguenze per la “esperienza didattica” sono evidentemente assai rilevanti. L’atto di “formazione”, per garantire l’accesso alla “sostanza del depositum fidei” deve diventare accurato nella identificazione del “medium” e nel discernimento del “processo di formazione”. Se i linguaggi non sono solo strumenti, la didattica è più una “iniziazione a linguaggi” che non semplicemente un “trasporto di contenuti”.  

Essere formati, in questa prospettiva nuova, assume piuttosto la forma dell’”imparare ad usare parole, ad abitare luoghi, a gestire il corpo e il tempo, a intrecciare rapporti” puttosto che elaborare immediatamente “nozioni” o “norme”. Non vi è dubbio che l’atto formativo dovrà anche arrivare alla astrazione concettuale e normativa. Ma, appunto, questo obiettivo è “mediato da diverse competenze linguistiche”. E “linguistiche”, qui, assume un concetto molto ampio di linguaggio, che comprende non solo il verbale, ma anche il non-verbale. La esperienza religiosa, alla quale lo studente deve essere iniziato, non è fatta solo di parole pensate, ma di parole proclamate, di parole poetiche, di parole cantate, di parole taciute. Silenzio, musica, tempo, spazio sono linguaggi fondamentali per accedere alla “antica dottrina”.

6. Linguaggi elementari della fede: le forme ecclesiali della comunione 

Tesi 6: La tradizione cristiana – e cattolica in particolare – fa esperienza della comunione con Dio e con il prossimo nel radunarsi, nel lodare/rendere grazie/benedire, nell’ascoltare la parola, nell’offrire e ricevere doni, nel condividere il pasto, nel prendersi cura uno dell’altro, nel riconoscersi fratelli e sorelle, tutti uguali e tutti diversi, nel riconoscere tutti liberi perché liberati dall’amore. 

Il termine “tradizione” è molto ambiguo. Esso parla, infatti, usando un sostantivo, per indicare una ”azione”. Tradizione è “il tramandare”, ossia il movimento di generazione in generazione. La tradizione cristiana, per questo, si fa sempre “forma di vita”, o, meglio, è fatta per avere “forma vitale”. La apprendiamo nelle “forme vissute”, non nelle rappresentazioni statiche, delle quali pure, in un secondo momento, abbiamo bisogno. La tradizione della “comunione”, ad esempio, è un “passaggio” molto complesso e articolato. Radunarsi insieme, con tatto, accuratezza, rispetto, attenzione, accoglienza e riconoscimento è una forma di “linguaggio elementare” del tutto implicito, ma potentissimo. Allo stesso modo, condividere il canto, nella melodia, nella armonia, nel ritmo e nel timbro è un “fare comunione” profondo e toccante, che difficilmente può essere portato a parola, ma che non per questo è meno efficace. Ancor più il “mangiare e bere insieme”, che sta al centro della vita e dell’atto di culto, illumina l’una mediante l’altro, ma ha l’esigenza che le forme del pasto, nella loro distinzione, si assimilino e siano disposte a imparare, l’una dall’altra.  

7. Traduzione/tradizione “civile” del linguaggio religioso: diverse esperienze di libertà

Tesi 7: Nella città tardo-moderna è possibile riconoscere la presenza di Dio. Dio nella città è presente nella forza con cui la “comunione” è già lì. Occorre dare parola alle “diverse esperienze della libertà”, che la città liberale vorrebbe ridurre semplicemente alla “libertà politica”: certo vi è  una sporgenza e una irriducibilità della “sfera morale” rispetto alla “sfera politica”; ma ancor più urgente è la sporgenza e la irriducibilità della “sfera religiosa” rispetto a quella politica e morale.

Uno dei punti di maggiore fragilità della “città tardo-moderna” è la condizione di cittadinanza come astrazione individuale. Ma il rapporto che abbiamo con la identità di cittadini deve conservare non solo la capacità di “partire da sé”, e nemmeno soltanto quella di “obbedire all’altro”, ma quella di “lasciarsi donare a se stesso dall’altro”. In questo paradosso è iscritta, fin dall’origine, la identità dell’uomo. Egli non ha “per natura” la propria identità. Essa gli viene da un “dono altrui”, che lo rende capace di parlare e di pensare. Parola e pensiero, nell’uomo, non sono “per sé”, ma “per altro”. Sono donati. Per questo il soggetto non riesce mai a trovare se stesso soltanto “esercitando un proprio diritto” o “riconoscendo un proprio dovere”. Trova se stesso, propriamente, riconoscendo l’altro come “bene”, come “origine del proprio bene” e come “benedizione”. La lode, il rendimento di grazie e la benedizione sono i linguaggi della identità. Tutti siamo stati iniziati a questi linguaggi, se siamo diventati uomini. Ma tutti dimentichiamo questi doni. Proprio perché sono doni, devono essere dimenticati nella loro origine. La scuola può essere il luogo di questa memoria della lode, del “grazie” e della benedizione da cui inizia, sempre, la umanità di ogni uomo.

8. Recuperare una esperienza integrale dell’uomo libero

Tesi 8:  La competenza di una “disciplina religiosa” nella scuola è al servizio di una “esperienza integrale dell’uomo/donna libero/a. Una accurata fenomenologia dei “tre modi di essere liberi” (politicamente, moralmente e religiosamente) necessita di “linguaggi nuovi”, più elementari e meno definiti, ma più potenti e ricchi. 

Se la scuola è interessata a questa complessa “rammemorazione” non solo può, ma “deve” prevedere uno “scavo della libertà”. Uscendo dai modelli “apologetici”, che sono tipici di una confusione di ruoli – perché l’ordine di Dio non è mai, semplicemente l’ordine pubblico – dovremmo poter dialogare instancabilmente con le istanze con cui la tarda modernità elabora un sapere “a due dimensioni”, ossia nel conflitto urgente tra pretesa dei diritti  e pressione dei doveri. Alla illusione di una totalizzazione dei diritti e una minimizzazione dei doveri, si contrappone, spesso, una massimizzazione dei doveri con attenuazione grave dei diritti. Ma questa alternativa non salva, né gratifica. Alla lunga amareggia e delude. L’uomo non sta bene né solo pretendendo per sé, né solo rispondendo di sé. Deve poter trovare se stesso nello sguardo di un altro, nel pensiero di un altro, nel silenzio di un altro, nella cura di un altro. I linguaggi che esprimono il dono non sono mai del tutto afferrabili. Il dono si nasconde, si fascia. E questo fa parte della sua “natura”. Perché è donato, non si deve vedere, proprio perché l’altro possa riceverlo “come suo”. Nel dono il donatore deve sparire. Per questo Dio è invisibile, perché dona tutto se stesso, sempre e comunque. Pur essendo il centro, è costitutivamente periferico. Dare parola al dono, parola narrata, parola cantata, parola bella e parola forte: questo è la ricontestualizzazione periferica, ma centrale, della testimonianza culturale della esperienza religiosa.

9 Libertà come diritto, libertà come dovere, libertà come dono: esperienza politica, esperienza etica ed esperienza religiosa della libertà

Tesi 9: Dare forma piena alle diverse esperienze della libertà significa quindi ricondurre le questioni brucianti del conflitto tra diritti e doveri ad un orizzonte di mistero e di dono. Lo specifico religioso è “rileggere” il conflitto tra il soggettivo del diritto e l’oggettivo del dovere nell’intersoggettivo del dono. Questo livello ha bisogno di linguaggi che “iniziano” il soggetto: narrazione, poesia, canto, musica, immagine, regole temporali e forme spaziali. 

Se la testimonianza di una “ulteriorità donata” esige un regime linguistico particolare, ciò si deve alla particolare natura di questa “trascendenza”. Nella lotta tra il soggettivo immediato, e l’oggettivo altrettanto immediato, con tutte le contraddizioni e le paure di un tale scontro, la tradizione cristiana deve mediarsi in modo più saggio. Essa non è una “terza via”, ma un altro livello del rapporto. Essa fa memoria dell’intersoggettivo comune e donato, da cui soggetti e oggetti scaturiscono e si affermano, nel gioco reso possibile proprio dal dono. Per dare consistenza a questo “altro livello” bisogna esercitare le virtù della lungimiranza e della magnanimità. Non pensare che un Dio oggettivo possa sconfiggere un soggetto pretenzioso, né che un soggetto disperato possa essere consolato da una proposizione vera. Il dono della intersoggettività si fa presente nelle pieghe e nelle insufficienze degli oggetti e dei soggetti. Sono i linguaggi che “iniziano” a trasformare i soggetti in relazioni e gli oggetti in azioni. Recuperare il terreno di questa “iniziazione” è una scommessa forte. Essa vuole recuperare, in modo non fondamentalistico e non autoritario, il primato del “comune” sul “privato” e sul “pubblico”. I linguaggi del riconoscimento sfondano le diffidenze del privato e proteggono dalla ingerenza del pubblico.

10 La svolta linguistica e la sostanza del depositum fidei. Per una dottrina non riduzionistica della rivelazione/fede.

Tesi 10: La “svolta linguistica” ci dice che i linguaggi non stanno soltanto “a valle” della esperienza religiosa, ma anche “a monte”. La elaborazione di “nuovi linguaggi” per l’insegnamento costituisce una risorsa per rinnovare l’accesso a quella “sostanza” del depositum, che non si può più intendere come riservata alla autonomia di un approccio intellettualistico. La narrazione  e la relazione diventano, così, condizioni della dottrina. E il “non riduzionismo” diventa, anche per l’insegnamento, la via maestra per il servizio alla tradizione cristiana e culturale.

Insegnare religione non è una “missione impossibile” né una “normale amministrazione”: senza trascurare le differenze tra diversi ordinamenti giuridici, rapporti tra Chiese e stati, profili professionali e competenze garantite, mi pare che la svolta linguistica possa dire qualcosa di importante alla tradizione cristiana cattolica. Essa ha già recepito nel Concilio Vaticano II la provvidenziale differenza (senza opposizione) tra sostanza e forma linguistica. Questa differenza non è stata introdotta per relativizzare il linguaggio, ma per scoprirlo come mediazione decisiva per la traditio fidei. Non sono i catechismi o i codici comportamentali a costituire i modelli della tradizione. La tradizione ne ha bisogno, ma non può essere ridotta a queste mediazioni, che poggiano su linguaggi più elementari, più originari e più decisivi. Un insegnamento “non riduzionistico”, oggi, deve recuperare dalla tradizione le forme più elementari della relazione dell’uomo a Dio, lasciando alle forme più astratte un ruolo “secondo”. Noi siamo figli di una Chiesa che nel Concilio Vaticano II ha profondamente ripensato ciò da cui attende di essere formata ed educata. Il Concilio, in fondo, è stato un grande evento di ripensamento della “educazione ecclesiale”. Avevamo allora, e abbiamo anche oggi, anche nella Chiesa, dei Mr. Gradgrind che iniziano la loro lezione – proprio sulla prima pagina di Hard Times di Ch. Dickens – dicendo:

“Now, what I want is Facts. Teach these boys and girls nothing but Facts”.

 Per la Chiesa di oggi e di domani, resistere alla tentazione di un “positivismo religioso” è divenuto facile, grazie al Concilio Vaticano II. Non mancano, certo, le occasioni per cedere alla tentazione. Le parole del “tema” dell’EXPO 2015, che ho messo come esergo della mia riflessione, indicano, sia pure occasionalmente e non senza qualche rischio di divagazione, un registro molto utile, per ripensare la tradizione cristiana e formularla in modo significativo. Nutrire tutti e dare energia alla vita non è, ultimamente, il disegno di salvezza formulato in un linguaggio elementare, che la tradizione cristiana ha piantato, una volta per tutte, nel “pasto eucaristico come dono dello spirito”? Possiamo osare tradurre questo linguaggio in quello, e quello in questo? Avremo paura si contaminarci o avremo il coraggio di esporci? Preferiremo una chiesa incidentata, ma che esce fuori, e va per strada, oppure una chiesa che si barrica nell’autoevidenza gelosa di linguaggi classici, sicuri, garantiti, ma autoreferenziali?

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