La riduzione di sacerdozio ed eucaristia: due vere questioni per la riforma della Chiesa


VaticanoI

Chiesa, eucaristia e ministero si condizionano reciprocamente. Un’autentica riforma della chiesa, che recuperi la sua vivacità promettente e profetica, può radicarsi solo se muta la concezione del ministero. Ma questa comprensione può cambiare solo se si alimenta di una intelligenza non riduttiva della eucaristia. La catena del clericalismo e della autoreferenzialità dipende molto da una assolutizzazione e personalizzazione del sacerdozio, che è conseguenza della concentrazione della eucaristia nella sola consacrazione. Non si fa la riforma della Chiesa e non si supera il disastroso clericalismo che rende autoreferenziale la istituzione senza arricchire la teologia della eucaristia delle dinamiche di cui è composta, dei ministeri da cui è animata e della destinazione ecclesiale che la giustifica. Direi che ministero e mistero devono comunicare in modo profondo ed efficace. Provo a formulare molto semplicemente i tre livelli di questo “scacco”, che viene alimentato da una comprensione inadeguata del mistero eucaristico.

1. La tensione ecclesiale tra eucaristia e sacerdozio

Mi pare evidente, oggi e da alcuni decenni, che la maggiore riserva alla riforma della Chiesa venga dal modo semplicistico di pensare la “differenza”. E potrei dirlo così: la Chiesa rischia di immunizzarsi da ogni differenza perché si autocomprende come una “societas inaequalis”. E’ interessante il fatto che mentre la società tardo-moderna, come “societas aequalis”, si qualifica per una certa attenzione alle “differenze da tutelare” e ai “diritti da riconoscere”, viceversa la Chiesa, proprio nella misura in cui si afferma come segnata da una “differenza istituzionale originaria” – in cui la differenza di Dio è pensata come differenza gerarchica e principio di autorità – tende a vedere ogni altra differenza con un certo sospetto. Va aggiunto che giustificazione della “differenza istituzionale”, che di per sé è tutt’altro che infondata, spesso viene argomentata nel linguaggio meno adeguato e meno persuasivo: ossia mediante la distinzione tra “clero” e “laici”. Questa differenza è ricavata da un lato sociologicamente, sul piano dei dati di fatto, e dall’altro sul piano della struttura sacramentale, fondata sul “sacramento dell’ordine”. Sarebbe legata al ministero ordinato la differenza essenziale, di cui la Chiesa non può disporre. Ma proprio qui inizia il primo problema, perché la definizione del “contenuto” del sacramento dell’ordine si sviluppa in due direzioni: da un lato verso la qualità del “carattere” che “segna” il ministro di una distinzione ontologica; ma dall’altro tale distinzione, se deve trovare la sua specificità irriducibile, si àncora alla relazione con il sacramento, ossia con l’eucaristia, anch’essa definita ontologicamente. Si è segnati dal carattere in quanto ordinati, ma la ordinazione attribuisce una serie di “potestates” in ordine alla parola, al sacramento e al governo. Questa complessità merita un chiarimento ulteriore.

2. La riduzione del sacerdozio alla eucaristia e dell’eucaristia alla consacrazione

Proprio questo complesso rapporto, che intreccia chiesa, ministero e comunione eucaristica, si porta dietro “tare monarchiche”, “riduzioni sacerdotali” e “minimalismi eucaristici”. Proviamo a dipanare brevemente questo intreccio. E’ noto che la lettura tradizionale, antica di quasi mille anni, ha elaborato una comprensione delle “potestà” del ministro che ne faceva, essenzialmente, un “sacerdote”, ossia il detentore del potere di “conficere eucharistiam”, che lo definiva nella sua essenza. Qui il profilo del ministro trovava e trova la sua esclusività e inaggirabilità nella relazione con il sacramento dell’eucaristia, che egli sarebbe in grado di “conficere” (di porre in essere e realizzare) in virtù della sua autorità. Il “sacerdote” è stato definito dal suo potere di “offrire il sacrificio”, il quale, a sua volta, sembra risultare definito non solo dal suo contenuto, ma dalla forma istituzionale e personale di colui che lo custodisce. Così, il sacrificio custodisce il sacerdote e il sacerdote assicura il sacrificio. Qui, tuttavia, il condizionamento è reciproco e assai pesante: una interpretazione del sacerdozio “al servizio del sacrificio” e una interpretazione della “messa come sacrificio” si supportano ad oltranza e senza posa. Ma è qui che qualcosa di decisivo è stato radicalmente pensato dal Concilio Vaticano II. Perché il recupero dell’agire rituale come atto “di Cristo e della Chiesa”, che ha come soggetti primari il Signore Risorto e la Chiesa come comunità di battezzati, impone un grande ripensamento tanto del “sacrificio” quanto del “sacerdozio”.

3. Due figure dimenticate: la celebrazione comunitaria e la sua presidenza

Che cosa accade se il “conficere eucharistiam” non è più l’atto del sacerdote, ma la azione di una comunità sacerdotale e del suo Signore? Che cosa accade se al centro della eucaristia sta la “preghiera eucaristica” e la “cena del Signore”? Che cosa accade se il sacerdozio viene di nuovo attribuito anzitutto al Signore Gesù e ad ogni battezzato e poi, per analogia, anche a colui che presiede la comunità e la sinassi eucaristica? Qui si delinea meglio il modello nuovo: una assemblea che celebra il Signore e che fa memoria della sua morte e resurrezione esige una presidenza e di ministri, che tuttavia non sostituiscono la assemblea nell’atto di celebrazione, di memoria e di offerta. Ne presiedono e ne servono l’azione con la parola, con il canto, con la accoglienza, con la premura. Ne guidano le sorti, la aiutano nelle difficoltà, la consigliano nel dubbio e la consolano nel dolore, vigilano sulle parole e profeticamente attendono la parousia. Ma non possono in alcun modo assumere “in proprio” ciò che ha come significato primo e ultimo la comunione ecclesiale nel Signore risorto. Qui, io credo, c’è il punto più doloroso da superare. Proprio il significato del “conficere eucharistiam” risulta segnato da una riduzione troppo unilaterale, che il Concilio Vaticano II chiede che venga superata.

4. Il carattere senza oggetto e il significato non contenuto

La evoluzione, parallela, di sacerdozio e eucaristia ha creato le premesse per una “alleanza al ribasso”: da un lato, infatti, il sacerdozio ministeriale si è rifugiato proprio in ciò che doveva esporlo al massimo grado. Se il “carattere” è una abilitazione specifica della fede al culto – per “moltiplicarla” (nell’ordine), e non solo per generarla (come nel battesimo) o per rafforzarla (come nella cresima) – è singolare che esso si sia piegato a (o sia stato piegato da) una concezione del culto molto limitata, come quella di una eucaristia privata del suo effetto ultimo di grazia, che viene dichiarato “significato”, ma “non contenuto”. Perché, in effetti, a questo movimento intorno al “carattere” corrisponde il moto reciproco, con cui il sacramento eucaristico viene portato alla massima evidenza solo nel suo “effetto intermedio” (conversione del pane e vino in corpo e sangue), ma venga lasciato sostanzialmente ai margini nel suo “effetto di grazia” (in quanto comunione della chiesa). Se perciò la giustificazione dell’ordine è la autorità sulla eucaristia, ma tale autorità non è letta in relazione al “duplice effetto” sacramentale ed ecclesiale della celebrazione, ma viene riferita al solo effetto sacramentale, ne risulta una duplice unilateralità: ad un ministero ridotto a sacerdozio preposto alla cura dell’eucaristia, corrisponde una eucaristia ridotta alla sola consacrazione. La doppia riduzione tanto del sacramento dell’ordine quanto del sacramento dell’eucaristia, in una correlazione formidabile, che ontologizza in modo statico tanto l’effetto intermedio dell’ordine (carattere indelebile) quanto l’effetto intermedio dell’eucaristia (la conversio della sostanza), determina la inamovibilità strutturale di questo viluppo di rimandi non solo virtuosi. Così la custodia che il sacerdozio sente di dover nutrire per il sacramento ridotto a consacrazione si unisce alla cura che il sacramento mostra di dover assicurare al sacerdote diremmo anch’egli pensato come “transustanziato”, quasi ad immagine e somiglianza della figura di sacramento cui è chiamato: ciò produce, con estrema facilità, un esito tanto nostalgico nei sentimenti quanto irreformabile negli esiti. La riduzione eucaristica rimanda, inesorabilmente, alla riduzione ministeriale, e viceversa.

5. Il recupero della ricchezza eucaristica e della articolazione ministeriale

Quando, a partire dagli anni 30, si è iniziato a riflettere sulla “forma dell’eucaristia”, trovando come fecero Guardini e Jungmann, nella “forma fondamentale” il modo di sfondare la autoreferenzilità di origine tridentina di sacerdozio e sacrificio, recuperando le dimensioni di parola, di cena e di preghiera come “forme originarie” della eucaristia, è iniziato un movimento di riposizionamento, allo stesso tempo, del sacramento della unità e del ministero ecclesiale. L’eucaristia non è anzitutto consacrazione, ma ascolto della parola, preghiera eucaristica e comunione. Propriamente la memoria autorevole delle parole dell’ultima cena non è “rito di consacrazione”, ma racconto istituzionale e esplicazione dell’intera sequenza della preghiera eucaristia. E il rito centrale è, semmai, dopo la grande preghiera, la frazione del pane, la sua distribuzione e la parola autorevole sul rito di comunione. Nessuno celebra da solo e nessuno ha il “potere di consacrare”: i discepoli trovano, nella parola autorevole di colui che presiede in virtù della ordinazione, la grazia di essere quel che vedono e di ricevere quello che sono. Un tale servizio di presidenza non assume il sacramento su di sé, ma lo rende accessibile a tutti. Allo stesso modo questo vale per la esperienza ecclesiale, che non dipende da un sacerdozio che “consacra il sacramento”, ma da un servizio al sacerdozio comune, che permette alla Chiesa di essere sacramento del Risorto. Una comprensione unilaterale e distorta dell’eucaristia è, nello stesso tempo, causa ed effetto di una visione troppo angusta del sacerdozio e del ministero. Non si può fare alcuna riforma della Chiesa né quando un sacerdozio inteso in modo clericale blocca la dinamica ministeriale della celebrazione eucaristica né quando una visione riduttiva e statica dell’eucaristia impedisce ogni vera dinamica del ministero ecclesiale e del sacerdozio comune.

 

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