La riduzione di sacerdozio ed eucaristia: due vere questioni per la riforma della Chiesa
Chiesa, eucaristia e ministero si condizionano reciprocamente. Un’autentica riforma della chiesa, che recuperi la sua vivacità promettente e profetica, può radicarsi solo se muta la concezione del ministero. Ma questa comprensione può cambiare solo se si alimenta di una intelligenza non riduttiva della eucaristia. La catena del clericalismo e della autoreferenzialità dipende molto da una assolutizzazione e personalizzazione del sacerdozio, che è conseguenza della concentrazione della eucaristia nella sola consacrazione. Non si fa la riforma della Chiesa e non si supera il disastroso clericalismo che rende autoreferenziale la istituzione senza arricchire la teologia della eucaristia delle dinamiche di cui è composta, dei ministeri da cui è animata e della destinazione ecclesiale che la giustifica. Direi che ministero e mistero devono comunicare in modo profondo ed efficace. Provo a formulare molto semplicemente i tre livelli di questo “scacco”, che viene alimentato da una comprensione inadeguata del mistero eucaristico.
1. La tensione ecclesiale tra eucaristia e sacerdozio
Mi pare evidente, oggi e da alcuni decenni, che la maggiore riserva alla riforma della Chiesa venga dal modo semplicistico di pensare la “differenza”. E potrei dirlo così: la Chiesa rischia di immunizzarsi da ogni differenza perché si autocomprende come una “societas inaequalis”. E’ interessante il fatto che mentre la società tardo-moderna, come “societas aequalis”, si qualifica per una certa attenzione alle “differenze da tutelare” e ai “diritti da riconoscere”, viceversa la Chiesa, proprio nella misura in cui si afferma come segnata da una “differenza istituzionale originaria” – in cui la differenza di Dio è pensata come differenza gerarchica e principio di autorità – tende a vedere ogni altra differenza con un certo sospetto. Va aggiunto che giustificazione della “differenza istituzionale”, che di per sé è tutt’altro che infondata, spesso viene argomentata nel linguaggio meno adeguato e meno persuasivo: ossia mediante la distinzione tra “clero” e “laici”. Questa differenza è ricavata da un lato sociologicamente, sul piano dei dati di fatto, e dall’altro sul piano della struttura sacramentale, fondata sul “sacramento dell’ordine”. Sarebbe legata al ministero ordinato la differenza essenziale, di cui la Chiesa non può disporre. Ma proprio qui inizia il primo problema, perché la definizione del “contenuto” del sacramento dell’ordine si sviluppa in due direzioni: da un lato verso la qualità del “carattere” che “segna” il ministro di una distinzione ontologica; ma dall’altro tale distinzione, se deve trovare la sua specificità irriducibile, si àncora alla relazione con il sacramento, ossia con l’eucaristia, anch’essa definita ontologicamente. Si è segnati dal carattere in quanto ordinati, ma la ordinazione attribuisce una serie di “potestates” in ordine alla parola, al sacramento e al governo. Questa complessità merita un chiarimento ulteriore.
2. La riduzione del sacerdozio alla eucaristia e dell’eucaristia alla consacrazione
Proprio questo complesso rapporto, che intreccia chiesa, ministero e comunione eucaristica, si porta dietro “tare monarchiche”, “riduzioni sacerdotali” e “minimalismi eucaristici”. Proviamo a dipanare brevemente questo intreccio. E’ noto che la lettura tradizionale, antica di quasi mille anni, ha elaborato una comprensione delle “potestà” del ministro che ne faceva, essenzialmente, un “sacerdote”, ossia il detentore del potere di “conficere eucharistiam”, che lo definiva nella sua essenza. Qui il profilo del ministro trovava e trova la sua esclusività e inaggirabilità nella relazione con il sacramento dell’eucaristia, che egli sarebbe in grado di “conficere” (di porre in essere e realizzare) in virtù della sua autorità. Il “sacerdote” è stato definito dal suo potere di “offrire il sacrificio”, il quale, a sua volta, sembra risultare definito non solo dal suo contenuto, ma dalla forma istituzionale e personale di colui che lo custodisce. Così, il sacrificio custodisce il sacerdote e il sacerdote assicura il sacrificio. Qui, tuttavia, il condizionamento è reciproco e assai pesante: una interpretazione del sacerdozio “al servizio del sacrificio” e una interpretazione della “messa come sacrificio” si supportano ad oltranza e senza posa. Ma è qui che qualcosa di decisivo è stato radicalmente pensato dal Concilio Vaticano II. Perché il recupero dell’agire rituale come atto “di Cristo e della Chiesa”, che ha come soggetti primari il Signore Risorto e la Chiesa come comunità di battezzati, impone un grande ripensamento tanto del “sacrificio” quanto del “sacerdozio”.
3. Due figure dimenticate: la celebrazione comunitaria e la sua presidenza
Che cosa accade se il “conficere eucharistiam” non è più l’atto del sacerdote, ma la azione di una comunità sacerdotale e del suo Signore? Che cosa accade se al centro della eucaristia sta la “preghiera eucaristica” e la “cena del Signore”? Che cosa accade se il sacerdozio viene di nuovo attribuito anzitutto al Signore Gesù e ad ogni battezzato e poi, per analogia, anche a colui che presiede la comunità e la sinassi eucaristica? Qui si delinea meglio il modello nuovo: una assemblea che celebra il Signore e che fa memoria della sua morte e resurrezione esige una presidenza e di ministri, che tuttavia non sostituiscono la assemblea nell’atto di celebrazione, di memoria e di offerta. Ne presiedono e ne servono l’azione con la parola, con il canto, con la accoglienza, con la premura. Ne guidano le sorti, la aiutano nelle difficoltà, la consigliano nel dubbio e la consolano nel dolore, vigilano sulle parole e profeticamente attendono la parousia. Ma non possono in alcun modo assumere “in proprio” ciò che ha come significato primo e ultimo la comunione ecclesiale nel Signore risorto. Qui, io credo, c’è il punto più doloroso da superare. Proprio il significato del “conficere eucharistiam” risulta segnato da una riduzione troppo unilaterale, che il Concilio Vaticano II chiede che venga superata.
4. Il carattere senza oggetto e il significato non contenuto
La evoluzione, parallela, di sacerdozio e eucaristia ha creato le premesse per una “alleanza al ribasso”: da un lato, infatti, il sacerdozio ministeriale si è rifugiato proprio in ciò che doveva esporlo al massimo grado. Se il “carattere” è una abilitazione specifica della fede al culto – per “moltiplicarla” (nell’ordine), e non solo per generarla (come nel battesimo) o per rafforzarla (come nella cresima) – è singolare che esso si sia piegato a (o sia stato piegato da) una concezione del culto molto limitata, come quella di una eucaristia privata del suo effetto ultimo di grazia, che viene dichiarato “significato”, ma “non contenuto”. Perché, in effetti, a questo movimento intorno al “carattere” corrisponde il moto reciproco, con cui il sacramento eucaristico viene portato alla massima evidenza solo nel suo “effetto intermedio” (conversione del pane e vino in corpo e sangue), ma venga lasciato sostanzialmente ai margini nel suo “effetto di grazia” (in quanto comunione della chiesa). Se perciò la giustificazione dell’ordine è la autorità sulla eucaristia, ma tale autorità non è letta in relazione al “duplice effetto” sacramentale ed ecclesiale della celebrazione, ma viene riferita al solo effetto sacramentale, ne risulta una duplice unilateralità: ad un ministero ridotto a sacerdozio preposto alla cura dell’eucaristia, corrisponde una eucaristia ridotta alla sola consacrazione. La doppia riduzione tanto del sacramento dell’ordine quanto del sacramento dell’eucaristia, in una correlazione formidabile, che ontologizza in modo statico tanto l’effetto intermedio dell’ordine (carattere indelebile) quanto l’effetto intermedio dell’eucaristia (la conversio della sostanza), determina la inamovibilità strutturale di questo viluppo di rimandi non solo virtuosi. Così la custodia che il sacerdozio sente di dover nutrire per il sacramento ridotto a consacrazione si unisce alla cura che il sacramento mostra di dover assicurare al sacerdote diremmo anch’egli pensato come “transustanziato”, quasi ad immagine e somiglianza della figura di sacramento cui è chiamato: ciò produce, con estrema facilità, un esito tanto nostalgico nei sentimenti quanto irreformabile negli esiti. La riduzione eucaristica rimanda, inesorabilmente, alla riduzione ministeriale, e viceversa.
5. Il recupero della ricchezza eucaristica e della articolazione ministeriale
Quando, a partire dagli anni 30, si è iniziato a riflettere sulla “forma dell’eucaristia”, trovando come fecero Guardini e Jungmann, nella “forma fondamentale” il modo di sfondare la autoreferenzilità di origine tridentina di sacerdozio e sacrificio, recuperando le dimensioni di parola, di cena e di preghiera come “forme originarie” della eucaristia, è iniziato un movimento di riposizionamento, allo stesso tempo, del sacramento della unità e del ministero ecclesiale. L’eucaristia non è anzitutto consacrazione, ma ascolto della parola, preghiera eucaristica e comunione. Propriamente la memoria autorevole delle parole dell’ultima cena non è “rito di consacrazione”, ma racconto istituzionale e esplicazione dell’intera sequenza della preghiera eucaristia. E il rito centrale è, semmai, dopo la grande preghiera, la frazione del pane, la sua distribuzione e la parola autorevole sul rito di comunione. Nessuno celebra da solo e nessuno ha il “potere di consacrare”: i discepoli trovano, nella parola autorevole di colui che presiede in virtù della ordinazione, la grazia di essere quel che vedono e di ricevere quello che sono. Un tale servizio di presidenza non assume il sacramento su di sé, ma lo rende accessibile a tutti. Allo stesso modo questo vale per la esperienza ecclesiale, che non dipende da un sacerdozio che “consacra il sacramento”, ma da un servizio al sacerdozio comune, che permette alla Chiesa di essere sacramento del Risorto. Una comprensione unilaterale e distorta dell’eucaristia è, nello stesso tempo, causa ed effetto di una visione troppo angusta del sacerdozio e del ministero. Non si può fare alcuna riforma della Chiesa né quando un sacerdozio inteso in modo clericale blocca la dinamica ministeriale della celebrazione eucaristica né quando una visione riduttiva e statica dell’eucaristia impedisce ogni vera dinamica del ministero ecclesiale e del sacerdozio comune.
Piste importanti di ricerca ma spesso ancora avviluppate nelle logiche degli apparati invece che piu aperte ad una sincera ricerca del vero. I formalismi mettono per esempuo da parte i profeti che certo non sono profeti magari in antropologia teologica ma a tutto campo.
https://gpcentofanti.altervista.org/gesu-e-limposizione/
Celebro l’Eucaristia ogni giorno da oltre quarant’anni (e continuerò a farlo). Questa intelligente analisi su “un sacerdozio inteso in modo clericale” che “blocca la dinamica ministeriale della celebrazione eucaristica” nonché una “visione riduttiva e statica dell’eucaristia” che “impedisce ogni vera dinamica del ministero ecclesiale e del sacerdozio comune” dà molto a pensare. Il professor Grillo tocca un nodo centrale per la riforma della Chiesa. Alcuni vorrebbero tagliare questo nodo ma mi sembra che basterebbe scioglierlo perché l’aria e la vita circolino di nuovo in ciò che resta la cosa grandissima di tutta la Chiesa, il sacramento dell’altare. La stupidità e il peccato dei chierici hanno reso statico ciò che avrebbe dovuto rimanere dinamico. La vita sacramentale e mistica del sacerdote, così come la celebrazione dell’Eucaristia, che rimarrà sempre un mistero di fede, possono acquisire ricchezza e profondità solo con lo sblocco di queste nozioni che ci vengono congelate e irrigidite dal tempo. Non si può che rallegrarsi al pensiero che un grande movimento sinodale darà slancio a nuove illuminazioni di fede.
Mi permetto di offrire alcune considerazioni di carattere storico sulla ministerialità della Chiesa. Condivido totalmente le considerazioni del prof. Grillo. Non sarebbe assolutamente uno strappo ripartire dall’eucaristia. Appartiene alla tradizione ecclesiale dei primi tempi, che accanto al ministero di presidenza della comunità, trasmesso per imposizione di mano, conosceva una notevole varietà di ministeri laicali, liturgici, catechistici caritativi (dai diaconi e diaconesse fino ai cosiddetti “fossores” che preparavano le sepolture dei morti) con pubblico riconoscimento ecclesiale.
Successivamente, però, avvenne una specie di concentrazione piramidale, dovuta ad una serie di fattori interni ed esterni alla Chiesa, come la perdita del senso comunitario e l’impatto della cultura mediterranea con la cultura dei popoli seminomadi dell’ Europa centrale, durante e dopo le invasioni barbariche. Per cui da una varietà di servizi nella comunità si passò ai ministeri gerarchici, concentrati nella persona del prete, che ricapitolava in se tutti i ministeri del passato, compresi i carismi della vita monastica (celibato, obbligo dell’Ufficio Divino, ecc … tranne, paradossalmente, quello della povertà). Inoltre, da una varietà di settori o ambiti dell’azione ministeriale ci si ridusse all’ambito strettamente liturgico-sacramentale.
L’unico ministero riconosciuto diventa quello legato alla presidenza della celebrazione eucaristica, riservata al Vescovo e in secondo ordine ai presbiteri.
Si esalta la componente sacerdotale-cultuale del ministero e progressivamente cadono le altre funzioni come quelle della predicazione e della cura pastorale. Piano piano lo scopo dell’imposizione delle mani non è più quello di creare ministri al servizio della comunità cristiana, ma semplicemente quello di dare ad alcune persone il potere di celebrare l’eucarestia e offrire a Dio il sacrificio della Chiesa.
Vescovi e preti, nel medioevo, ricevono l’imposizione delle mani pur non avendo le capacità di predicare, semplicemente allo scopo di celebrare l’Eucarestia.
Il potere di consacrare il corpo di Cristo diventa l’unica caratterizzazione dell’ordine sacro.
Tale processo riduttivo sacerdotale non poteva comunque cancellare dall’esperienza della Chiesa i compiti ministeriali della predicazione e del lavoro pastorale.
Ma a poco a poco questi furono, per così dire, stralciati dal contesto dell’ordine sacro e si inventò una fonte diversa, autonoma, quella della giurisdizione.
Se il potere di celebrare l’eucarestia deriva dall’ordinazione ed è fondato sul carattere sacramentale, tutto il resto è trasmesso da un potere centrale, è strettamente condizionato dal rapporto giuridico che il singolo ministro ha con l’insieme degli organismi gerarchici che reggono la chiesa.
Per cui si assiste a delle vere e proprie divaricazioni e aberrazioni.
L’autorità superiore, il Papa, può dare o togliere a piacimento l’esercizio di questo potere.
Nei secoli XII e XIII è normale che l’arcidiacono, per esempio, abbia sul presbiterio della diocesi una giurisdizione che di fatto lo rende superiore ai preti, pur ordinati in un grado superiore a lui.
Parroci e Vescovi ricevono l’investitura della giurisdizione sulla parrocchia e sulla diocesi per poter godere delle rendite del beneficio, e rinviano la consacrazione per esimersi dagli obblighi della celebrazione dei sacramenti.
Anche il grosso problema della predicazione che si sviluppa intorno al secolo XIII con l’istituzione degli Ordini mendicanti non è banale fenomeno di concorrenza ecclesiastica.
La questione di fondo era una questione di giurisdizione.
Da una parte la giurisdizione del papa, in nome del quale essi andavano a predicare nelle singole chiese locali, e dall’altra la giurisdizione dei vescovi, i quali, in questo modo vedevano estendersi il potere del papa fin dentro la vita interna delle loro chiese.
Tutto questo non poteva non determinare un taglio netto dentro le funzioni ministeriali.
Quindi si arriva a questa situazione (che in qualche modo si protrae fino alla vigilia del Concilio Vaticano II, per quanto non in modo pacifico, appunto per la reazione protestante a questa riduzione sacerdotale): la celebrazione dell’Eucarestia e degli altri sacramenti deriva dall’ordine, non è condizionata dai rapporti gerarchici fra i diversi gradi dell’ordine, non è legata a determinazioni territoriali. Invece la predicazione e il governo delle Chiese derivano da una fonte autonoma di potere, detta giurisdizione, che si trova solo nel papa e dal quale, a suo arbitrio, deriva ai ministri di grado inferiore.
Dentro questo sistema il ministero della predicazione e il ministero pastorale si rivestono, nel discorso teologico, di formalità giuridiche così rilevanti da rendere irrilevante il normale esercizio dei carismi della parola e della cura pastorale che si svolge senza scomodare il diritto.
Così piano piano in teologia non si parlerà più di predicazione, ma solo di magistero; non ci si occuperà più della cura pastorale, ma solo del governo e dell’autorità.
Già questo breve quadro storico ci consente di individuare una situazione che per la nostra sensibilità non poteva non creare problemi.
Una situazione di fatto, dalla quale era molto difficile uscire per la mancanza di una adeguata teologia del sacerdozio battesimale e della Parola, da cui solo poteva prendere avvio una eventuale valorizzazione dei diversi ministeri.
Una situazione quindi che poteva dare spazio a polemiche, a posizioni anche contrastanti, ma per la cui soluzione non si avevano strumenti adeguati.
Lo stesso Concilio di Trento, costretto a confrontarsi con un analogo processo riduttivo operato quasi per reazione dai riformatori, che non sopportavano la distinzione e la divaricazione dell’ordine sacerdotale da quello giurisdizionale, affrontò il discorso più in chiave polemica, che altro, preoccupato non tanto di salvare il discorso sulla Chiesa, quanto piuttosto di salvare il discorso sui sacramenti.
In altre parole, non ha avuto nessuna intenzione di definire il quadro teologico dei ministeri della Chiesa, ma piuttosto di determinare il potere sacerdotale del ministero in ordine ai sacramenti.
In fondo il Concilio di Trento si limita a dire:
l) Che c’è un sacerdozio destinato essenzialmente alla celebrazione del sacrificio eucaristico.
2) Che questo sacerdozio deriva da un sacramento e implica un carattere permanente.
3) Che nella Chiesa c’è una gerarchia per la quale i laici non hanno lo stesso potere spirituale dei sacerdoti e nella quale i vescovi sono superiori ai preti.
4) Che la validità delle ordinazioni non è condizionata dal consenso della comunità.
Non è riuscito a dire altro, perché sulle altre questioni non ha potuto trovare una via di accordo. E questa riduzione del problema non poteva non scontrarsi con la riduzione protestante del ministero o meglio dell’ordinazione il cui contenuto e scopo veniva decisamente spostato.
L’ordinazione, secondo i protestanti, non aveva lo scopo di creare sacerdoti dotati del potere di offrire a Dio un sacrificio, ma creare predicatori del Vangelo.
Il Concilio di Trento è stato il luogo dello scontro-incontro di due concezioni, unilaterali ambedue, del ministero:
quella protestante, che, rifiutandone l’aspetto sacerdotale e sacrificale, ne misconosceva, non riusciva a riconoscere di questo aspetto la dimensione ministeriale evidente nella dottrina del sacrificio e intuiva che, invece, doveva essere proprio questa dimensione misterica a sbloccare e a correggere la posizione cattolica;
quella cattolica, che non riusciva ad integrare la funzione della predicazione della parola, riconosciuta dai protestanti come indispensabile per elevare il compito sacerdotale al di sopra del sacerdozio pagano e veterotestamentario.
Il nodo della discussione era il concetto sacrificale della Messa. Ma molti cattolici pesavano che i riformatori negassero qualsiasi ministero di diritto divino e affermassero, invece, la totale uguaglianza di funzioni e di poteri tra i cristiani.
Un equivoco contro il quale Calvino stesso protestò esplicitamente affermando che “nessuno aveva intenzione di dire che tutti i cristiani sono eguali nell’ufficio di amministrare la parola e i sacramenti, riconoscendo un esplicito mandato di Cristo di ordinare, per questo, alcuni ministri”.
D’altra parte, però, c’era il problema della giurisdizione. La maggior parte dei padri sosteneva la tesi che il compito di predicare non deriva dall’ordinazione, ma dal papa, attraverso un esplicito mandato canonico, che tramite i vescovi arriva fino ai preti incaricati per la cura d’anime in determinate comunità, oppure dotati di un particolare mandato.
Per cui la predicazione non è ritenuta un carisma da esplicare, ma un dovere giuridico da adempiere: la necessità viene dal bisogno della comunità, non dalla natura del ministero.
Il Concilio di Trento non ha avuto la possibilità di fare una giustapposizione dei due discorsi, quello di ordine e quello di giurisdizione, e trovare una via di accordo fra i due schieramenti presenti al Concilio: quello che sosteneva essere il papa l’unica fonte di ogni giurisdizione nella Chiesa e l’unico vescovo di istituzione divina, e quello che affermava essere l’episcopato istituito da Cristo e vera fonte di giurisdizione nella Chiesa.
Di fatto però è successo che se la riflessione teologica postridentina si invischiò sempre di più, la prassi avviata dai decreti di riforma, pur con schemi mentali riduzionisti, offrì al prete e al vescovo una gamma di funzioni molto vasta e molto elastica. Il problema però rimaneva, sia a livello dottrinale, sia a livello di prassi.
Per cui se oggi si parla con una certa insistenza dei ministeri, la ragione va cercata lontano. Una situazione di fatto insostenibile, messa ancor più in evidenza dal movimento di ritorno alla Scrittura, dal movimento ecumenico e da una diversa preoccupazione pastorale.
Determinante, da questo punto di vista, é stata la svolta ecclesiologica del Concilio Vaticano II.
Non é che questo Concilio abbia fatto un discorso esplicito e articolato sui ministeri o abbia elaborato una sintesi teologica. Semplicemente ha raccolto abbondantemente e in maniera libera quegli elementi della Scrittura e della Tradizione che in qualche modo hanno scombussolato la scacchiera della teologia postridentina, e spostando alcune pedine a monte, ha avviato un ripensamento profondissimo sui presupposti ecclesiologici e sacramentali, offrendo anche nuove linee di riflessione sui ministeri.
Se poi a tutto questo si aggiunge la crisi del sacerdozio ministeriale non risolta neppure dal Sinodo del 1971 e che ha assunto proporzioni notevoli in questi ultimi due decenni e il nuovo contesto culturale e sociale che si é venuto a creare sotto la spinta di una generale ansia di partecipazione, di consapevole e libera assunzione di responsabilità a tutti i processi dì crescita, di maturazione e di decisione della vita sociale, civile ed ecclesiale: allora possiamo avere un quadro abbastanza completo dei perché che rendono motivata e indispensabile una riflessione seria e sistematica sui ministeri, non più stimolata da situazioni solo negative, come la rarefazione delle vocazioni, la messa in questione di nuovi mezzi e di nuove forme di inserimento del prete nel mondo, ma anche e soprattutto dalla ormai necessaria attenzione alla riconosciuta responsabilità e missionarietà di tutti i cristiani, in base ai sacramenti del battesimo e della cresima e ai diversi carismi elargiti dallo Spirito ai singoli per il bene comune.
Caro professore, direi che questo blog accetta solo le osservazioni di quanti sono d’accordo, e censura quelle in disaccordo, togliendole dopo averle per svista messe in rete o subito cassandole. . Sinodalità! Sinodalità! Non sono sorpreso. Tempo fa era più tollerante e….cristiano.
Caro Mario, qui si discute apertamente. Cancello solo i commenti che contengono insulti. Come è mio dovere. Anziché battere i piedi, provi ad argomentare. Il blog è fatto per questo. Argomenti per smontare quello che legge. E nessuno la censurerà.
Caro professore, parlo per me e non per altri e non credo proprio di avere mai insultato. A parte intemperanze e cattiva educazione l’insulto, in questi scambi, non può che essere alla fine un “lei non capisce molto” e io questo non l’ho mai detto né lo penso. Penso semmai quello che probabilmente lei pensa di alcuni come me, e cioè che abbiamo una mente ristretta. A ciascuno le sue ristrettezze, che a volte possono anche essere, come avviene con l’obiettivo fotografico, del tipo di un eccesso di apertura e quindi di una perdita di messa a fuoco, e di un offuscamento nella fotografia della realtà. Unicuique suum. Cordiali saluti.
Grazie Andrea, sempre profondo. Nessun profeta è accetto in patria, ricorda il vangelo di oggi.
Essere, liturgisti è vivere in prima linea la riforma liturgica e esporsi alla reazione del clericalismo e dell’ignoranza storico teologica, alle volte in buona fede, specie quando si tratta di laici, dei cosiddetti tradizionalisti.
In realtà i veri difensori dell’antica tradizione siamo noi liturgisti del Vaticano II.
Il professor Grillo propone e sostiene, se ho capito bene, un profondo cambiamento nel concetto – e nel ruolo – di eucarestia e sacerdozio, vedendoli giustamente, mi pare, strettamente legati. Per quello che può capire un osservatore esterno alle dispute teologiche.
Il tempo impone sempre evoluzioni, e magari anche rivoluzioni, materia delicata. Però mi domando se 60 anni sono sufficienti per un cambiamento del genere, avviato dal Vaticano II, ma portato dalle tesi del professor Grillo, mi pare, alle estreme conseguenze. Dalla lettura di quanto diceva papa Roncalli su sacerdozio ed eucarestia appare una diversa visione. Per chi volesse, è sufficiente andare su Google e digitare “allocuzione giovanni XXIII 25 gennaio 1960”. Ripeto, molto si può cambiare; forse non tutto, per non perdere se stessi.
Mi rendo conto che chi sostiene quello che sto dicendo io fa sempre la figura del frenatore e dell’ottuso. Ma nessuno pensa mai a che figura fa chi propugna sempre il “macchine avanti tutta”?
Ripeto che qui non conta “la figura che si fa”, ma la argomentazione che si sostiene. Se lei ha delle riserve, le esprima apertamente. Mi dica, che so: il Concilio di Trento è un punto insuperabile nella dottrina sul sacerdozio. Oppure: l’unica teoria ammissibile sulla eucaristia è la transustanziazione. Bene. Io non sono d’accordo è ho provato a mostrarlo qui e altrove. Il disaccordo è per la fedeltà alla tradizione. Ciò che sembra tradizionale è una malattia della tradizione. Che bisogna curare. Per curare la tradizione bisogna pensare la fede con schemi meno inadeguati. Si può tentare, senza pretendere di avere la soluzione in tasca. Ma si tenta. Questo è il mestiere del teologo. Che non deve avere sempre la macchine avanti tutta, ma le macchine “in marcia”. Questo è essenziale. Per stare fermi non serve la teologia, basta la paura.
Caro professore, in materia di teologia, per quel poco che posso capire, io non sono né per l’immobilismo né per il movimento, inteso come movimento continuo. Un piccolo esempio concreto, liturgico e quindi anche teologico. Come tutti sanno, la Cei si è aggiunta ad altri e ha modificato il Padre Nostro in due punti; nulla di grosso, si può discutere sull’opportunità e senz’altro sulla necessità di questi cambiamenti, ma così sia. Quello che invece, a mio avviso, è un grosso errore anche teologico è la sostituzione nel Gloria del “…a tutti gli uomini di buona volontà” con il banale, a mio avviso, e criptico, “….agli uomini amati dal Signore..”. Quello della buona volontà è un concetto antichissimo e perno del rapporto dei cristiani con i non cristiani cioè con tutti gli altri, un concetto su cui molto è stato scritto, positivamente, a partire credo da Agostino, E chi sono quelli amati dal Signore? Tutti? Allora perché non dirlo? Solo una parte? Perché non dirlo? Perché è stato abolito il concetto della buona volontà, che riporta alla fine al libero arbitrio e alla distinzione, alla fine, tra il bene e il male? Forse perché oggi nella teologia contemporanea il male non esiste più? O forse solo perché è “la vita” come dicono alcuni o “la storia” come dicono altri, il metro di misura? Ma abbiamo idea di quante fesserie e crimini “la vita” e “la storia” hanno avallato? E ancora , escludiamo forse che certi orrori possano ripetersi mentre invece, in vari angoli della Terra, continuano a ripetersi anche oggi? Non voglio annoiarla oltre. Aggiungo solo che occorre fare attenzione, a mio avviso, a non approdare a una chiesa che dimentica il male, si avvolge nel perdono, e spera così di far dimenticare i tempi ottusi di quando quasi tutto era peccato e la chiesa guardava il mondo con occhio solo arcigno. L’alternativa odierna è, mi pare, il guardarlo con occhio ingenuo, o sofistico.
Buongiorno, ho letto con un certo interesse questo articolo che introduce sorprendentemente nella mia conoscenza confini sinora inesplorati ed inimmaginabili. Premetto che esercito la professione di medico e non ho alcuna dimestichezza con fini dibattiti teologici. Pur considerando l’indubbio e straordinario valore del pensiero e della speculazione intellettuale espressi dallo scritto, mi chiedo: siamo ancora nell’ambito della fede cattolica o si parla di altro? Qualcosa di inevitabilmente nuovo e diverso? Grazie
Caro lettore, certamente mi muovo nell’ambito della tradizione cattolica, che non è un monolite, ma un organismo vivente. È il concetto di tradizione che è vivo e bel corso del tempo assume forme nuove. Un caro saluto