La riforma liturgica e i suoi oppositori: seconda risposta a Dom Pateau
Caro Padre Abate,
ho letto con molto piacere la sua risposta (qui) alle mie considerazioni (qui) che avevo dedicato alla sua precedente intervista. Mi pare che, nella diversità di itinerari con cui valutiamo con partecipe accuratezza la “questione liturgica” come problema decisivo per la Chiesa del presente e del futuro, emergano alcuni profili su cui è necessario gettare una luce di chiarezza pienamente convincente. Esamino perciò le sue tre affermazioni-chiave e le sottopongo ad un esame sincero, riconoscendo in pieno la buona intenzione che guida la sua sollecitudine, ma segnalando in maniera altrettanto schietta dove io trovo i problemi più grandi della sua rispettabile impostazione.
a) Summorum Pontificum e la finzione delle “due forme” del rito romano
Lei identifica molto bene la mia fondamentale difficoltà. Non vi sono due forme del rito romano, ma le resistenze alla riforma liturgica (pre-conciliare e conciliare) hanno sviluppato una argomentazione obiettivamente “negazionista” rispetto alla riforma. Il fatto che papa Benedetto XVI abbia assunto questa prospettiva di lettura non la rende vera. Le cose storte restano storte, anche quando vengano assunte da Vescovi e da Papi. Per capirlo bene dobbiamo chiederci: quando è nata questa “argomentazione”? Lei cita il Card. Lustiger e il Card. Ratzinger, ma siamo già negli anni 2000. No, la argomentazione è nata con la più antica delle riforme più recenti: ossia con la “riforma della Veglia Pasquale” voluta da Pio XII e proposta “ad experimentum” nel 1951 a tutta la Chiesa. In quella occasione, nelle valutazioni che i Vescovi di tutto il mondo inviarono a Roma, spiccava la reazione dell’Arcivescovo Giuseppe Siri, di Genova, che proponeva “che la riforma della Veglia Pasquale” riguardasse chi voleva aderirvi, mentre chi non volesse potesse restare libero di seguire il “Vetus ordo”. Già 70 anni fa apparve questa “opzione” che, se assunta, avrebbe svuotato di senso la riforma di allora. La stessa cosa, 15 anni dopo, fu proposta da Marcel Lefebvre, subito dopo il Concilio, chiedendo di poter continuare a celebrare con il VO, pur avendo la Chiesa cattolica prodotto una “riforma generale” di tutta la liturgia. Ecco, ciò che dobbiamo imparare è che il “meccanismo riflessivo” che pretenderebbe che siano vigenti contemporaneamente due riti, sia quello nuovo sia quello vecchio, è nato per contrastare in modo radicale la riforma liturgica. E tale rimane anche in SP, nonostante le buone intenzioni dichiarate. Per questo Francesco, per poter restare fedele al Concilio Vaticano II, non poteva far altro che abrogare una logica “incerta e confusa” sulla riforma liturgica. L’unico rito vigente è quello elaborato dopo il Concilio, su indicazioni chiare del Concilio stesso. Non esiste altro rito: esiste solo la “forma precedente”, che per i suoi limiti gravi è stata rivista e rimodulata. Su questo punto non esiste alcuno spazio di mediazione possibile.
b) Non esiste concorrenza, esiste discontinuità e continuità
La forma vigente del rito romano assume, in sé, la discontinuità e la continuità. Come è ovvio, come accade in tutti i fatti storici, non vi è una successione di “male” e di “bene”. Potremmo dire che nel VO erano già presenti elementi fondamentali del NO, mentre nel NO sono portati alla luce dimensioni che il VO sviluppava in modo diverso. Ma non esiste “concorrenza”, perché lo sviluppo della tradizione non permette di tenere, contemporaneamente, la forma da modificare insieme alla forma che la modifica. Solo per breve periodo, e senza continuità, è possibile accettare un “interregno”: così pensava Paolo VI, così Von Balthasar, così lo stesso Giuseppe Siri. Ma questo è una conseguenza di tutti i processi di riforma generale. Il “rito straordinario” è stato, perciò, quella finzione giuridica che ha, di fatto, creato una nuova confusione nella Chiesa per 14 anni. Come se si fosse potuto “restare cattolici” ignorando il Concilio Vaticano II! Questa ipotesi è del tutto fittizia ed è stata resa possibile da un pasticcio giuridico che la Commissione Ecclesia Dei inutilmente ha cercato di mediare ed ha solo peggiorato, fino al paradosso di un superamento dello stesso messale del 1962. La lacerazione ecclesiale è inevitabile se è possibile celebrare la medesima eucaristia con un rito e con il rito che ha voluto correggere quel rito. Qui occorreva, da parte del papa, una parola chiara, che è venuta autorevolmente con TC, che ristabilisce il principio antico e moderno, secondo cui esiste un unico “campo di lavoro” – ossia l’unico rito romano vigente – nel quale poter elaborare con cura tutta la tradizione celebrativa.
c) Nessuna “riforma della riforma”, ma la recezione dell’unica riforma
In terzo luogo, è evidente che una “minaccia alla recezione del Concilio” venga da tutti i luoghi che non accettano di celebrare l’eucaristia e tutti i sacramenti nell’unica forma vigente. Capisco bene che tra coloro che “hanno fatto uso di SP” ci siano differenze anche assai significative. Che non tutti vogliano essere “la vera Chiesa”. Ma nel momento in cui celebri con un rito che non è vigente, assumi un approccio alla Chiesa che inclina inevitabilmente allo scisma. La parola di chiarezza di TC ristabilisce non solo il principio dell’unica lex orandi, e della inesistenza di una “concorrenza tra forme rituali diverse”, ma anche la unificazione della “riforma” nell’unica forma vigente. Questo implica una serie di conseguenze assai rilevanti, anche per la prospettiva che lei, Dom Pateau, giustamente considera importante. Lavoriamo, insieme, su un unico tavolo, limpidamente conciliare, ad una buona recezione della riforma liturgica, alla valorizzazione di una “ars celebrandi” che coinvolga radicalmente la assemblea, che generi ministeri, che coinvolga uomini e donne, che rinnovi il canto, l’arte, i colori, i silenzi e gli spazi. La Chiesa non è un museo da consevare, ma un giardino da far fiorire.
Un’ultima cosa, importantissima. Il Concilio Vaticano II non è stato né causa di crisi, né occasione di crisi, ma inizio solenne per la uscita da una crisi che era presente, in Europa, da più di un secolo. Rosmini in Italia, Guéranger in Francia, e più tardi, Festugière in Belgio lamentavano già ai loro tempi la inadeguatezza del celebrare cattolico. Le forme di resistenza alla riforma liturgica, che si sono espresse nei principi distorti fatti propri anche da Summorum Pontificum, non saranno superate soltanto da TC, ma solo da una ripresa di slancio di quel Movimento Liturgico che ha preparato il Concilio, ma senza il quale il Concilio non saprà ispirare una vera risposta alla “questione liturgica”. Su questo, io credo, è possibile che tutti coloro che hanno a cuore il cammino ecclesiale comune, che non vogliono creare chiese parallele, chiese pure, e che non restano fissati a forme rituali obiettivamente superate, sapranno collaborare ad una migliore qualificazione della liturgia cattolica. Di questo lavoro comune, serenamente ispirato dal Concilio Vaticano II e dalla riforma che ne è scaturita, potremo essere in futuro convinti sostenitori, nonostante i percorsi tanto diversi e le sensibilità così difformi.
Con un cordiale saluto
Andrea Grillo
Gesù ha affermato di essere stato inviato alle pecore perdute della casa d’Israele. Cosa può significare? Gesù era ebreo, figlio di quel popolo e della sua storia. Osserviamo che non ha scritto: forse perché non parla in astatto ma in situazione specifica? Gesù non teorizza ama le persone specifiche. Ci si può chiedere se ciò implica che il vangelo va tradotto al vivo, nelle particolari situazioni. Magari in certi paesi orientali invece del pane si potrebbe usare il riso per consacrare l’eucarestia? È un caso che proprio tra i paesi che non usano il pane come cibo di base vi siano quelli tra i meno diffusamente convertiti al cristianesimo? Colpisce che nei vangeli Gesù riisorto spesso non venga riconosciuto dalle sembianze fisiche ma nella fede, il vangelo talora racconta che Gesù si manifestò sotto altro aspetto. Appunto a misura?
Un altro motivo dell’invio ad Israele potrebbe risiedere nella natura personale e comunitaria della vita e della evangelizzazione cristiana. Gesù stesso cresce nel suo popolo, Figlio dell’uomo sembra il suo suo titolo preferito (che può confermare quanto sopra, si pensi anche alla meticcia, non ebrea, acheropita Madonna di Guadalupe). Dunque un cammino personale e comunitario e una possibile apertura ad altre realtà, comunità. Nei vangeli Gesù sembra orientare sempre all’essenziale, liberando da tanti formalismi considerati in modo errato. Ci si può chiedere se questo non possa sempre più consapevolmente divenire un cammino della Chiesa: riconoscere i pochi riferimenti essenzialissimi e lasciare sul resto libertà di espressione. Se affermo che l’eucarestia non è il corpo di Cristo ma un simbolo sono fuori della piena fede cristiana. I criteri invece di recezione di essa bisogna considerarli prima di tutto meditando ciò che Gesù ha asserito e operato nei vangeli e qui vi possono essere sorprese che perlomeno stimolano prudenza in certe dogmatizzazioni. Ancora una volta un problema è il dedurre con le proprie logiche sorde persino ai vamgeli, al cercare di tornare sempre più profondamente a Gesù, come egli stesso ci ha insegnato. Ma certo si tratta di doni di grazia prima di tutto.
Quelle qui espresse sono solo domande poste in una comune ricerca ecclesiale, nell’obbedienza alla Chiesa e con l’aiuto di tutti. Allo stesso modo propongo al link seguente uleriori domande:
https://gpcentofanti.altervista.org/mental-coach-c-lambivalenza-della-fuga-pragmatista/
Gentile sig. Grillo, come lei anch’io sono nato e cresciuto negli anni della riforma liturgica scaturita dal Vaticano II. Seguo con interesse le questioni legate al VO che ho avuto modo di conoscere da adulto, frequentando alcune messe legittimamente celebrate nella mia diocesi. Premetto che ho una buona conoscenza del latino ecclesiastico e un forte apprezzamento per la musica sacra (gregoriano e polifonia).
Nel porre a confronto le due “forme” condivido pienamente le ragioni che hanno portato alla formulazione del NO, ma non posso non notare alcuni elementi di criticità che sottopongo alla sua attenzione, chiedendo un suo parere.
1. La effettiva scomparsa del latino come lingua liturgica. Una lingua di grande profondità e musicalità che un tempo risuonava in ogni angolo della cristianità come fattore unificante, un segno, seppure esteriore, ma comunque simbolicamente molto forte di comunione con la sede romana e la sua storia. Nella prassi attuale pochissimi sacerdoti sanno celebrare in latino. Al massimo lo si usa sporadicamente per qualche canto, quasi una “reliquia” del passato, destinata probabilmente a scomparire nell’arco di poche generazioni. Siamo sicuri che sia un bene?
2. La quasi totale scomparsa del canone romano. Troppo “lungo” e complesso: nella mia città nessun prete lo adopera, mai, con mio grande sconcerto. Ormai si usa quasi esclusivamente la preghiera eucaristica II. È questo l’autentico spirito del Vaticano II? Mandare in soffitta uno dei testi più venerabili della tradizione liturgica occidentale? Forse perché decisamente disprezzato dalle Chiese riformate? O forse perché non riflette più la teologia sacramentaria in voga nel nostro secolo?
3. L’introduzione della cosiddetta “anamnesi” dopo le parole “mysterium fidei”: un inutile pleonasmo, che interrompe la preghiera eucaristica e depotenzia fortemente l’amen della dossologia finale con il quale i fedeli suggellano e confermano le parole di colui che presiede.
4. La celebrazione “ad Deum”. Siamo davvero certi si tratti di un orientamento “sbagliato”, da evitare sempre e comunque, anche a costo di devastare gli antichi e meravigliosi presbitèri delle nostre chiese e cattedrali? Non potrebbe invece esprimere una profonda adorazione del mistero celebrato, ponendo al vertice dello sguardo e dell’attenzione non colui che presiede, ma Colui verso il quale tutti insieme ci si rivolge e si riceve con fede?
Queste ed altre osservazioni mi portano a sperare in un ponderato ripensamento della riforma liturgica, non per nostalgie passatiste, ma per compiere una ricognizione, a mezzo secolo dall’introduzione del NO, dei frutti e criticità delle nuove forme rituali, magari cercando soluzioni che possano rendere meno faticoso e doloroso il ritorno di non pochi fedeli alla messa di Paolo VI, come auspicato nel recente motu proprio.
Un cordiale saluto.
D.F.
Daniele, anch’io, pur comprendendo i limiti del VO, e le ragioni che hanno portato il Concilio a volere un nuovo Rito, condivido le tue perplessità.