La riserva maschile, le donne che votano al Sinodo e un testo di S. Paolo

52 donne avranno diritto di voto alla assemblea del Sinodo dei Vescovi di ottobre. Per quanto maturata in un contesto parasacramentale, come è appunto un Sinodo, si tratta di un fatto teologicamente importante e che cambia molte cose. La riserva maschile, che fino a pochi anni fa sembrava fondata sulla “divina costituzione della Chiesa” e che teologi non secondari avevano letto come frutto di una sorta di principio (o pregiudizio) della “perenne gerarchia tra i sessi”, ora cade non solo per l’accesso ai ministeri istituiti, ma anche nel cuore dell’esercizio episcopale del munus regendi.
Si può leggere una dovizia di commenti scandalizzati, per un presunto cedimento della chiesa ad una mentalità mondana e al relativismo della eguaglianza. Pensata su modelli medievali e moderni, la Chiesa sarebbe una sorta di custode della società dell’onore e non dovrebbe cedere alle lusinghe della società della dignità, tra cui brilla la “emancipazione femminile”.
Più interessante è scoprire in S. Paolo, proprio in uno degli autori più citati per giustificare la incompetenza della donna circa l’insegnare, il comandare e il presiedere, una delle ispirazioni originarie di questo superamento della riserva maschile. Leggiamo infatti in Gal 3,28 una relativizzazione impressionante delle “grandi differenze” di cui vive la cultura e la società antica, medievale e moderna: ossia la differenza di etnica e religiosa, la differenza sociale e la differenza sessuale. Dice il testo famoso: “non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù”. Non si tratta di una negazione delle differenze, ma di una sua relativizzazione “in Cristo”: il dono di grazia che scaturisce dalla fede in Cristo non si lascia condizionare del tutto né dalle differenze etnico-religiose, né dalle differenze di autorità sociale, né dalle differenze di genere-sesso. Sembra che questo possa essere il frutto di una rilettura tardo moderna del testo paolino, influenzata dalla nuova cultura della società aperta.
Ma questo non è del tutto vero. Anche nel mondo medievale i grandi autori coglievano, in questo testo di Paolo, la potenza di una profezia che aiutava a superare, per quanto allora possibile, la forza, per non dire la violenza, delle convenzioni religiose, sociale e sessuali.
Possiamo leggere, molto brevemente, il valore che questo testo paolino ha avuto nel pensiero “sulla donna autorevole” in due teologi come Tommaso d’Aquino e Giovanni Duns Scoto.
Tommaso e la donna ministro del battesimo
Quando Tommaso affronta la questione se una donna possa essere ministro del battesimo, utilizza un duplice argomento per poter ammettere l’autorità della donna come ministro del rito del battesimo: da un lato ricorda il fatto che il battesimo ha come attore principale Cristo e non il ministro. In secondo luogo può riconoscere, secondo Gal 3,28, che in Cristo non vi è né maschio né femmina e può quindi concedere che la donna, sia pure fuori di ogni spazio pubblico, possa essere ministro del sacramento. Questo duplice passaggio indica la possibilità di una “mediazione femminile” in contesto autorevole e sacramentale. Resta, ovviamente, la questione della differenza tra ambito privato e ambito pubblico, che determina una rigorosa delimitazione della autorità femminile. Ma questo è il frutto non della rivelazione, ma della cultura antica e medievale, che arriva fino al XIX secolo e che verrà almeno inizialmente superata dal riconoscimento della entrata della donna “in re publica”, che si trova nel 1963, in Pacem in terris. Anche la differenza sessuale, così profondamente sentita sul piano culturale, non condiziona fino in fondo l’autorità di Cristo, nel quale anche questa differenza diventa relativa.
Duns Scoto e l’inizio della riflessione sulla ordinazione femminile dal testo di Paolo
Altrettanto interessante è il contesto in cui Giovanni Duns Scoto utilizza il testo di Gal 3: ossia proprio all’inizio della questione intorno alla ordinazione della donna, che nel suo Commento alle Sentenze viene sviluppata in parallelo alla questione dei minori: il testo viene citato evidentemente a sostegno della ipotesi positiva. Duns Scoto rigetta questa possibilità, asserendo che il caso della ordinazione della donna è un caso di “ordinazione nulla” e utilizza per questo un altro passo di Paolo (1 Tm 2,12) in cui si esclude la possibilità che le donne possano insegnare (riferendo Duns Scoto tale divieto non a Paolo ma a Gesù stesso)! Tuttavia, nel momento in cui Duns Scoto deve rispondere all’argomento positivo offerto dal passo di Gal 3,28, la sua risposta appare complessa:
““quantum ad gloriam consequendam et ad gratiam habendam, non est distinctio in lege Christi inter foeminam et masculum, quia tantam gratiam habere et tantam gloriam attingere potest illis, sicut iste; sed quantum ad gradum excellentem habendum in Ecclesia, bene decet esse distinctionem inter virum et mulierem in lege Christi, quia hoc consonat legi naturae”1
Il testo suona così:
“Quanto al conseguimento della gloria e alla ricezione della grazia, non c’è distinzione nella legge di Cristo tra donna e uomo, poiché tanta grazia possono avere e tanta gloria raggiungere quelle come questi; ma quando al grado più alto da tenere nella Chiesa, è bene mantenere una distinzione tra uomo e donna nella legge di Cristo, perché ciò concorda con la legge naturale”
La interpretazione del testo paolino, in Duns Scoto, non è tanto segnata dalla differenza tra pubblico e privato, quanto da quella tra attivo e passivo. In comune con Tommaso il doctor subtilis ha una comprensione della differenza tra uomo e donna in termini di “autorità”, di subordizione della seconda al primo. Per questo anch’egli, come già aveva fatto Tommaso, tende ad assolutizzare una “evidenza culturale, sociale e civile”, che condiziona la lettura del testo paolino e la soluzione della questione teologica.
La differenza sessuale come “schermo”?
Ciò che accade negli ultimi anni può essere letto come una più profonda ermeneutica del testo paolino di Gal 3: le differenze etnico-religiose, le differenze sociali non pesano più da tempo sull’annuncio del Vangelo, da più di100 anni, almeno in buona parte del mondo. Ma la differenza sessuale continua ad essere percepita e raccontata come un “luogo di resistenza”, che rischia di confondere la difesa della “riserva maschile” con la difesa del Vangelo. Il percorso aperto verso l’accesso della donna all’esercizio della autorità ecclesiale, che ha già superato la riserva maschile nei ministeri istituiti e nel diritto di voto per le partecipanti alla Assemblea del Sinodo dei Vescovi, permette di leggere Gal 3,28 senza il condizionamento ideologico di forme culturali prepotenti, riconoscendo che questo condizionamento è avvenuto molto più in passato che nel presente. E’ la teologia della riserva maschile ad essere ideologica, non la domanda di accesso delle donne al ministero della Chiesa. Interpretare questo cambiamento come una migliore comprensione del Vangelo implica un profondo ripensamento del rapporto tra dottrina, disciplina e parola di Dio.
1Johannis Duns Scoti, Quaestiones in librum quartum sententiarum, d. XXV, q. II.
L’impossibilità di ordinare donne al sacerdozio non nasce da un’ideologia, ma dalla volontà di Dio, poiché Cristo ha voluto liberamente scegliere solo uomini per il collegio apostolico. La Chiesa si riconosce vincolata da questa scelta del Signore stesso. Pertanto, l’ordinazione delle donne non è possibile. Il Magistero della Chiesa si è già pronunciato in modo definitivo e infallibile su questo argomento e non è lecito metterlo in dubbio (can. 750 § 2). Come dice il suddetto canone, è quindi contrario alla dottrina della Chiesa cattolica che respinge tali proposizioni ritenute definitive.
Lei vorrebbe farmi tacere sulla base di una legge che deve però dimostrare sia che il tema sia definito onfall7bilmente, sia che sull argomento si possa dire una parola ultima. Sono convinto con Gh. Lafont che non sia così.
Le suggerisco di studiare meglio il dogma dell’infallibilità e, a questo proposito, di leggere il mio articolo pubblicato dalla Santa Sede. Lo trovi qui: https://www.vaticannews.va/pt/igreja/news/2021-04/o-dogma-da-infalibilidade.html
Tuttavia, non ha senso studiare se non si ha fede nell’autorità della Chiesa che ha già spiegato l’aspetto definitivo dell’impossibilità di ordinare le donne. Lei rifiuta il Diritto Canonico, il Catechismo della Chiesa Cattolica ei documenti pontifici in materia ei chiarimenti della Santa Sede. È impossibile essere un teologo in questo modo. Tu confondi la libertà teologica con l’eresia. Cambia il tuo pensiero.
La fede nella autorità della chiesa non è un assoluto. Succede che la chiesa giustifichi cose infiustificabili.
Giovanni Paolo II, nella Lettera Apostolica Ordinatio sacerdotalis, del 22 maggio 1994, ha insegnato, «al fine di togliere ogni dubbio su di una questione di grande importanza che attiene alla stessa divina costituzione della Chiesa» e «in virtù del [suo] ministero di confermare i fratelli» (cf. Lc 22, 32), «che la Chiesa non ha in alcun modo la facoltà di conferire alle donne l’ordinazione sacerdotale e che questa sentenza deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa» (n. 4). La Congregazione per la Dottrina della Fede, in risposta ad un dubbio sull’insegnamento di Ordinatio sacerdotalis, ha ribadito che si tratta di una verità appartenente al deposito della fede. In questa luce desta seria preoccupazione veder sorgere ancora in alcuni paesi delle voci che mettono in dubbio la definitività di questa dottrina. Per sostenere che essa non è definitiva, si argomenta che non è stata definita ex cathedra e che, allora, una decisione posteriore di un futuro Papa o Concilio potrebbe rovesciarla. Seminando questi dubbi si crea grave confusione tra i fedeli, non solo sul sacramento dell’ordine come parte della costituzione divina della Chiesa, ma anche sul Magistero ordinario che può insegnare in modo infallibile la dottrina cattolica.
È l’ultima precisazione della Congregazione per la dottrina della fede, del 2018.
Lei ricorda due documenti, di cui il primo fa affermazioni non infallibili e il secondo non è dotato di autorità infallibile. La questione ‘, ribadisco, non si risolve solo sul piano di una teologia di autorità. La confusione è in re e resta finché non si esce dalla ideologia della ruserva maschile.
Quindi in quale modo va intesa la frase “deve essere tenuta in modo definitivo da tutti i fedeli della Chiesa”?
Che in quel momento si è ritenuta definiriva una proposizione, senza coprirla con la autorità della infallibilita. Perché può cambiare
Io davvero non riesco a capire come faccia a sostenere che sia stata dichiarata come definitiva dal Magistero, in modo infallibile. Come fa ad esempio ad interpretare: “Questa dottrina esige un assenso definitivo poiché, fondata nella Parola di Dio scritta e costantemente conservata e applicata nella Tradizione della Chiesa fin dall’inizio, è stata proposta infallibilmente dal magistero ordinario e universale” (Risposta della Congregazione per la Dottrina della Fede circa la dottrina proposta nella Lettera apostolica Ordinatio sacerdotalis, 28.10.1995)?
Certo, è una “teologia di autorità”, nel senso che l’autorità della Chiesa è intervenuta autorevolmente (scusi il giro di parole). Ma “fa parte del gioco” tanto quanto mettere in discussione il canone della Scrittura…
Ma se la autorità interviene senza spiegare, come può fare, col tempo perde aurorita,
Andrea Grillo è sulla strada sbagliata, perché non rispetta il Magistero (non rispetta il Diritto Canonico, il Catechismo della Chiesa Cattolica, i pronunciamenti pontifici in materia e i chiarimenti della Santa Sede. Quindi ignora le leggi della Chiesa in nome di una visione soggettiva che si oppone alla dottrina cattolica. Non si tratta di libertà teologale, perché come scriveva san Giovanni Paolo II, “in contrasto con l’insegnamento dei Pastori, non si può riconoscere una legittima espressione della libertà cristiana o della diversità dei doni dello Spirito.In tal caso, i Pastori hanno il dovere di agire secondo la loro missione apostolica, esigendo che sia sempre rispettato il diritto dei fedeli a ricevere la dottrina cattolica nella sua purezza e integrità: Il teologo , non dimenticando mai che anch’egli è membro del Popolo di Dio, dovete rispettarlo e sforzarvi di impartirgli un insegnamento che non leda in alcun modo la dottrina della fede» (San Giovanni Paolo II: Enciclica Veritatis splendor n. 113).
Ci sono passaggi storici nei quali il magistero e il catechismo si arrampicano sugli specchi per difendere lo status quo. Il teologo con tutto il rispetto deve mostrare i limiti. E aprire nuove strade.
La catechesi spiega il magistero, la teologia fa un altro lavoro. Cogliere questa differenza dovrebbe essere un prerequisito per commentare su questo blog.
E se si vuole criticare una certa teologia lo si deve fare con argomenti teologici, non citando fonti ritenute incontestabili, perché analizzarle ed eventualmente criticarle è proprio uno dei mestieri a cui è chiamato il teologo
Mi pare così lineare! Ma si deve tener conto della pretesa che il magistero, dopp il 1983, può far vakere, riducendo al silenzio il teologo e facendo di questo silenzio una questione di fede. Questa è una malattia del magistero.