La soluzione mancata: la donna e il ministero ecclesiale


Il cammino sinodale, che affronterà, nel corso di due Assemblee (ottobre 2023-2024), la questione della possibile “ordinazione al diaconato” della donna, risente inevitabilmente e in modo profondo, della soluzione “di autorità” che si è voluta dare, ormai quasi 30 anni fa, alla “ordinatio sacerdotalis”, affermando la “riserva maschile” come un dato di fede, appartenente alla “divina costituzione della Chiesa”. Quella che intendeva essere una soluzione, fondata esclusivamente su una affermazione altamente autorevole, ma priva di argomentazione, e che avrebbe dovuto suscitare una riflessione teologica a supporto della decisione assunta, in realtà ha prodotto in 30 anni una situazione singolare: da un lato l’argomentazione continua a ripiegarsi su se stessa, visto che molti teologi si lasciano condurre sul terreno disciplinare (ma non teologico) di una pura teologia di autorità. La “riserva maschile” non viene spiegata, ma dedotta da una prassi storica non discussa e da una affermazione dotata di alta autorevolezza. Se un papa fa un’affermazione, per il teologo cattolico questa affermazione gode di alta autorità, ma è indiscutibile in quanto infallibile solo quando assume il valore di “pronunciamento ex cathedra”. D’altro canto la domanda di valorizzazione del profilo autorevole della donna chiede una riflessione che non può essere bloccata a priori da un atto di autorità senza esibizione di ragioni persuasive. Il fatto che la riserva maschile del ministero sacerdotale pretenda di essere un mistero da credere, senza ragioni teologiche convincenti, mostra la fragilità della soluzione adottata nel 1994. Quando la autorità non trova ragioni convincenti e persuasive, tende a perdere col tempo ogni vera efficacia. Il punto delicato è questo: nemmeno il papa può far diventare nere le cose bianche. Quando la ricostruzione della tradizione avviene in modo troppo sommario, quando la tradizione del passato ha assunto una posizione basata su presupposti culturali pregiudiziali, e questa tradizione passata diventa un “assoluto” da ripetere “fideliter”, quando le nuove evidenze, scaturite dalla coscienza culturale maturata durante il XX secolo, non vengono minimamente considerate, se addirittura la “riserva maschile” della ordinazione sacerdotale viene isolata dalla storia e dalla coscienza e collocata tra i “fatti da credere” senza ulteriore determinazione, quasi come una sorta di “mistero della fede”, allora è chiaro che la posizione del magistero diventa un “dispositivo di blocco” del rapporto tra Chiesa e mondo. Non ci sono più “segni dei tempi”, ma solo “minacce” e “confusioni”.

Se questo aspetto, già di per sé problematico, viene unito alla comprensione della funzione della teologia, rappresentata dal CJC del 1983, secondo cui rispetto al “magistero autentico” (non solo al magistero infallibile e al magistero definitivo) il teologo non ha altra via se non l’assenso della fede e il “religioso ossequio dell’intelletto e della volontà”, allora la condizione di “blocco” appare insuperabile e perciò indice di una patologia ecclesiale.

Forse può essere utile leggere, in trasparenza, due testimonianze importanti, che chiariscono come uscire da questa “impasse”. Da un lato le ultime parole di Gh. Lafont, che sul tema della “discriminazione della donna” osa avanzare, nel suo ultimo libro (Un cattolicesimo diverso, 2019), una rilettura del documento del 1994 con due problemi di fondo (ho presentato qui il testo): da un lato il fatto che Ordinatio sacerdotalis pretenda ad una “definitività” che formalmente non ha; dall’altro che si occupi di un aspetto della tradizione ecclesiale che è inevitabilmente sottoposto alle condizioni storiche e che pertanto non può essere oggetto di un sapere definitivo. Questi due aspetti, del tutto decisivi, meritano grande rispetto e considerazioni nel “canto del cigno” del grande teologo benedettino.

D’altro canto non è difficile notare, nel testo del 1994, la mano di un estensore che tratta la questione in modo del tutto unilaterale e che, nella breve paginetta del testo, mette all’opera quella caratteristica che ha segnato larga parte del suo magistero teologico e pastolale: J. Ratzinger ha dichiarato, nel suo volume “Ultime conversazioni” (2016) che il “gusto della contraddizione” ha segnato molto profondamente il suo pensiero. La questione che oggi deve essere affrontata è se un magistero ecclesiale, segnato per 40 anni dalla “Lust am Widerspruch”, che ha profondamente segnato le posizioni sulla liturgia ordinaria e straordinaria, sulle forme della comunione ecclesiale, sulla continuità nella interpretazione del Vaticano II o sui criteri delle traduzioni dal latino, possa aspirare ad essere una parola che condizioni, definitivamente, la relazione tra Chiesa e tradizione, tra ministero ordinato e identità femminile. Quella che voleva essere una parola definitiva è diventata la imbarazzante negazione di una questione, che non esibisce un fondamento teologico diverso dalla autorità. Un problema di “trasformazione della autorità” (con la apparizione della autorità femminile nella vita pubblica) viene risolto con una “teologia di autorità” che nega di avere autorità nel superare la riserva maschile. Più che una soluzione, sembra una paralisi della esperienza con pretese autorevoli e con ricadute sanzionatorie per tutti coloro che non si adeguano. Dove “fedelmente” rischia di significare soltanto “come 100 anni fa”. Un approccio “affettivo” alla tradizione non sempre è fonte di luce per la teologia.

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