La “somiglianza naturale” a Cristo è dei “nati da donna”. Un dibattito che si rinnova


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In un articolo apparso su “Herder Korrespondenz” – Doppelte Buchfuehrung, 3/2021, 46-48 , che in italiano suona “Partita doppia” –  due autorevoli teologi tedeschi – Matthias Reményi e Thomas Schaertl – discutono con buoni argomenti le posizioni espresse dal collega di Vienna Jan-Heiner Tueck a proposito di quella “rappresentanza/rappresentazione di Cristo”, che nel ministero ecclesiale sarebbe strutturalmente preclusa alle donne. Come già avevamo rilevato in un post dell’anno scorso su questo blog, un contributo decisivo alla discussione di oggi sull’accesso delle donne al ministero ordinato passa attraverso il chiarimento delle uniche affermazioni esplicite che il magistero post-conciliare abbia offerto sul tema della ordinazione femminile. Ossia a ciò che la Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede Inter Insigniores (1976) dice a proposito della “similitudo naturalis” tra Cristo (maschio) e il vescovo/presbitero/diacono (maschio), che costituirebbe la condizione fattuale e naturale capace di garantire la adeguata rappresentazione del rapporto sponsale di Cristo – et quidem del ministro – con la Chiesa. L’articolo procede in modo sistematico ad identificare con precisione l’argomento centrale impiegato dal documento del 1976. E ne mette in luce la fragilità, di cui d’altra parte la stessa Dichiarazione è consapevole, come emerge  dal n.5, dove il testo propone la riflessione su “ministero e somiglianza naturale” con una esplicita cautela. Dice infatti a questo proposito:

Dopo aver ricordato la norma della Chiesa ed i suoi fondamenti, è utile ed opportuno chiarire questa regola, indicando la profonda convenienza che la riflessione teologica scopre tra la natura propria del sacramento dell’Ordine, nel suo riferimento specifico al mistero di Cristo, ed il fatto che soltanto gli uomini sono stati chiamati a ricevere l’Ordinazione sacerdotale. Non si tratta già di apportarvi un’argomentazione dimostrativa, ma di chiarire questa dottrina mediante l’analogia della fede

Questa “analogia della fede” merita una chiarimento accurato, perché utilizza i testi della tradizione in modo non rigoroso. Già abbiamo visto, nei ricchissimi interventi del prof. Riccardo Saccenti su questo blog, (rimando qui solo al prima della serie di sei) come le citazioni di Tommaso che troviamo in Inter insigniores siano tutte forzate e gravemente fuori contesto. Tommaso non parla mai di “naturalis similitudo” con riferimento alla determinazione sessuale dei ministri e di Cristo. Piuttosto la via seguita da Tommaso è quella opposta. Ogni essere umano può essere ministro di Cristo, fatti salvi i motivi che costituiscono un impedimento alla ordinazione, legati ad una “carenza di autorità” più o meno superabile.

Molto interessante è il ridimensionamento che i due teologi tedeschi offrono della “relazione sponsale” tra Cristo e Chiesa come criterio di discernimento normativo per il ministero ordinato. Essi attestano, con buona argomentazione, che il tema è del tutto assente in buona parte della tradizione e in particolare nel pensiero di S. Tommaso d’Aquino, del quale citano un passo della Summa contra Gentiles assai efficace. Si tratta di ScG IV, 74, dove Tommaso dice:

Minister autem comparatur ad dominum sicut instrumentum ad principale agens: sicut enim instrumentum movetur ab agente ad aliquid efficiendum, sic minister movetur imperio domini ad aliquid exequendum. Oportet autem instrumentum esse proportionatum agenti. Unde et ministros Christi oportet esse ei conformes. Christus autem, ut dominus, auctoritate et virtute propria nostram salutem operatus est, inquantum fuit Deus et homo: ut secundum id quod homo est, ad redemptionem nostram pateretur; secundum autem quod Deus, passio eius nobis fieret salutaris. Oportet igitur et ministros Christi homines esse, et aliquid divinitatis eius participare secundum aliquam spiritualem potestatem: nam et instrumentum aliquid participat de virtute principalis agentis.

La logica del ministero, per Tommaso, è una logica “strumentale”: i ministri devono essere “conformi” all’agente principale. Per questo devono essere “uomini”. La conformità al Signore Gesù è infatti la umanità e la divinità. La prima è mediata dall’essere “nato da donna”, il secondo dal “ricevere lo Spirito Santo”. Nella logica argomentativa di Tommaso la donna non è ordinabile non perché non sia conforme alla umanità del Signore, ma perché “manca di autorità” in quanto è creaturalmente caratterizzata da subordinazione, inferiorità e passività. Il limite della donna non è cristologico, ma antropologico. E’ il “sapere antropologico e sociologico” a guidare Tommaso in questa conclusione, non la cristologia o la logica sacramentale. L’abbaglio ermeneutico di Inter insigniores sta nell’aver spostato sul piano cristologico e sacramentale ciò che Tommaso dice sul piano antropologico e sociale. La strategia di questo spostamento è chiara: attribuendo al sacramento e alla cristologia la analogia normativa, si irrigidisce e quasi si dogmatizza una aspetto che invece dipende semplicemente da una lettura antropologica e sociologica, che come tale può anche cambiare.

E’ evidente che per Tommaso la questione decisiva non sta nella conformità e nella rappresentazione biologica o naturale, bensì nella “inferiorità creaturale della donna”, che non può essere in alcun modo superata e che crea così un impedimento alla ordinazione “necessitate sacramenti”. Diverso è per lo schiavo e per l’incapace, che possono recuperare autorità. Comunque, riferire a S. Tommaso la rilevanza di una “somiglianza naturale” appare una mossa arbitraria. In nessun modo il testo di Tommaso può avallare una tale comprensione, che non fa parte dei suoi argomenti.

Nell’articolo di HK si ha buon gioco a segnalare che la pretesa di opporre “logica della rappresentazione sacramentale” e “riduzione funzionale della parità tra i sessi” appare come  una arbitraria forzatura. E’ la stessa logica del “segno” in quanto tale ad essere sottoposta in tal modo ad una riduzione pesante: se la somiglianza è misurata su una qualità biologica come l’essere maschio, questo significa non salvaguardare, ma aver smarrito la funzione “iconica” del segno. In nome di una logica sacramentale si smentisce proprio la logica del sacramento. Le argomentazioni elaborate sul tema della “ordinazione”, nel momento in cui tentano di fondare una “simbolica ministeriale solo maschile”, entrano in una zona assai rischiosa, in cui cristologico e antropologico non restano su piani distinti e si confondono. Così si sposta sul piano cristologico e si tenta di rendere immutabile il limite storico della coscienza antropologica. Irrigidendo la “natura maschile” e quella “femminile” in una forma astorica e immutabile, si pretende di bloccare ogni evoluzione con una “similitudine naturale” che avrebbe dignità non solo creaturale, ma sacramentale e cristologica. Così è possibile scambiare la incarnazione per una determinazione normativa non solo della umanità di Gesù, ma della sua maschilità.

I due teologi tedeschi, con un lavoro di accurata concettualizzazione, ci ricordano che il compito di una buona teologia sistematica non consiste nel rendere forti gli argomenti deboli, ma nel discernere tra buoni ragionamenti e ragionamenti fragili. Ad esempio: si deve ammettere che Gesù era senza dubbio un maschio ebreo. Se questa determinazione fosse normativa in senso assoluto anche per la identità del ministro che lo rappresenta –  proprio così pretenderebbe una interpretazione ingenua della “naturalis similitudo” –  non ci sarebbe alternativa ad ordinare solo “viri judaei”. Se la circoncisione o incirconcisione può diventare in qualche modo una variabile indipendente, anche l’essere maschio o femmina  non sarà più una discriminante per il ministero. E così potremo ordinare, per il diaconato, tutti i “nati da donna”. Questo non sarebbe però una novità: è già accaduto, da poco più di un mese, per i “ministeri istituiti”, dove la riserva maschile è tramontata. Perciò non è detto che non possa accadere anche per l’accesso al ministero ordinato. Le ragioni del divieto sembrano potersi dire ora solo come “argomenti di autorità”. Per i quali occorre mantenere tutto il dovuto rispetto: “ad discendum dupliciter ducimur: ratione et auctoritate” (Agostino); ma la ragione non può non interpellare tali assunti, affinché offrano argomenti meno formali, e “analogie della fede” più convincenti. Credo che sarebbe ragionevole pensare, per il futuro, ad un onesto compromesso: riconoscere l’accesso al ministero ordinato a tutti i “nati da donna”, perché anche ogni donna è capace di rappresentare Cristo, in quanto anch’essa è “nata donna”, proprio come lui. E si potrà continuare ad invocare il principio di autorità, ma solo a copertura di una riserva maschile del presbiterato e dell’episcopato, che appare come materia riservata da una decisione assunta con la autorità di chi non si riconosce la autorità di mutare una prassi antica. Bisogna però riconoscere che la possibilità di questa prassi nuova è stata inaugurata con la decisione storica a proposito dei ministeri istituiti, che per la prima volta ha superato la teoria della “incapacità di rappresentanza” attribuita alla donna, e perciò può riconoscerle di poter essere, anche in pubblico, “segno ufficiale di Cristo e della Chiesa”. Su tutto questo ambito di questioni delicate e decisive, il dibattito è stato obiettivamente riaperto proprio dalla attesa assunzione di autorità deliberata dal Motu Proprio Spiritus Domini.

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