La sostanza del sacramento: due significati, anzi tre


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Potrebbe accadere che, ad una considerazione veloce, si possa pensare che il termine “sostanza”, nell’ambito della teologia dei sacramenti, possa riferirsi esclusivamente all’eucaristia e descriva, propriamente, il livello più intimo e più segreto del sacramento eucaristico. Ciò che del pane e del vino muta è, appunto veramente e realmente, solo la sostanza. Sostanza sarebbe perciò quella dimensione dell’essere, che non si offre direttamente alla percezione dei sensi, ma che viene colta dall’intelletto aiutato dalla fede, nella quale accade il mutamento più decisivo e più significativo: quello che permette al corpo e sangue di Cristo di essere presente qui ed ora, nella realtà della storia e del mondo che stiamo vivendo, come attestazione di una vita che, attraverso la morte, accede alla pienezza dell’amore. Sostanza indica però in questo caso ciò che muta, nel cuore eucaristico della Chiesa, restando invece immutati gli accidenti. Il mistero, nel suo centro, viene detto con una accezione capovolta della nozione di sostanza: essa diventa, per le logiche della grazia, il riferimento ad una invisibilità, alla quale si può accedere con un capovolgimento: la sostanza è ciò che muta, e l’accidente ciò che permane. La nozione classica, che distingue nell’essere la sostanza dall’accidente, viene utilizzata, ma in modo capovolto, mettendo sotto-sopra i significati classici.

Tuttavia il linguaggio scolastico ha trovato anche un’altro modo di usare la terminologia della sostanza in relazione ai sacramenti. Questo appare a chiare lettere nell’uso più classico del concetto di “sostanza”, mediante il quale si vuole indicare la “resistenza ultima” della “res”, del “dono di grazia”, rispetto alla libera azione della Chiesa. Con “sostanza” del sacramento si indica in questo caso ciò che, per diritto divino, è sottratto alla disponibilità ecclesiale (Concilio di Trento, Sess. XXI, DH 1728). La formula “salva eorum substantia” identifica, in fondo, la intersezione tra “forma, materia e ministro” che è causa di grazia, ciò che è immutabile/divino rispetto al mutabile/ecclesiale. Qui, come è evidente, il rapporto tra sostanza e accidenti appare più classico, perchè riferisce alla sostanza ciò che permane, mentre accidente indica ciò che muta. In questo caso la tradizione sui sacramenti parla esattamente la stessa lingua della metafisica e utilizza la nozione di sostanza nel senso comune del termine, in ordine ad un distinzione tra ciò che può mutare e ciò che permane.

La crisi della tradizione sostanziale

Attraverso questo modo complesso di utilizzare la parole della tradizione culturale, la mediazione della fede è resa possibile, secondo questa duplice accezione di sostanza, da un duplex ordo, naturale e sovrannaturale. La dottrina del sacramento si adatta a questa impostazione (e forse ne è la segreta ispiratrice) perché ragiona in modo duplice e con una forte tensione interna:

 – sul piano visibile, la sostanza del sacramento è la resistenza al mutamento. Sostanza è qui ciò che la tradizione metafisica ha usato come nozione, ossia “sostrato permanente”: nel mutare delle forme con cui la Chiesa assume la sua posizione nella storia, un “resto” immutabile la assicura e la conduce. Questo “resto” è ciò che essa ha ricevuto e che custodisce come un “depositum”. La fedeltà alla sostanza diventa la condizione della sua identità, della continuità della fede nella discontinuità della storia;

 – sul piano invisibile, la sostanza del sacramento eucaristico è la possibilità/realtà del mutamento e così il mistero diventa “apertura alla novità”. In questo caso il livello della “sostanza” è quello che muta, che subisce una conversione, che permette l’irruzione dell’eschaton. Nella continuità degli accidenti, la discontinuità della sostanza è presenza del Signore, sua autorità, sua grazia, sua e nostra speranza.

Vi è così nella sacramentaria più classica un doppio uso del concetto di “sostanza”, che prevede un significato duplice e inverso del termine. Ciò che questo modello produce, lungo i secoli, non è però il raccordo tra le due logiche, ma il progressivo autonomizzarsi di ciascuna di esse. Ed è questo effetto, certo non previsto all’inizio, che complica la nostra vita:

– la logica della sostanza “sul piano formale” inclina ad una riduzione dell’atto ecclesiale “al suo minimo”: se ciò che attribuisce validità resta in una “sostanza minimale”, ridotta a pochissimi tratti essenziali del sacramento , ciò influisce direttamente sulla “gestione sintetica” del sensibile stesso, che è riportato continuamente alla sua “non necessità”. Questa diventerà la logica di una considerazione del sacramento come “officium”.

– la logica della sostanza che opera sul piano del “contenuto” tende invece a scavalcare e a squalificare ogni azione, perché opera ad un livello escluso da ogni percezione, invisibile e non gestibile, che perciò tende a sua volta a distrarre la attenzione dalla mediazione sensibile e a concentrarla sulla impercettibile conversione sostanziale e  sovrasensibile. Questa diventerà la logica di una considerazione del sacramento come “segno” e come “causa”.

Una critica alla sostanza dal Movimento Liturgico

I due significati diversi di “sostanza”, che operano sul piano della forma e del contenuto, convergono, tuttavia in un punto: nella determinazione a spostare l’attenzione dalla contingenza alla necessità di una sostanza che tanto più viene salvaguardata, quanto più attira su di sé ogni attenzione. In entrambi i casi è in gioco l’azione di Dio e non l’azione della chiesa: sia la “permanenza” della sostanza (del sacramento), sia la “conversione” della sostanza (del pane e del vino) attirano su di sé una attenzione tanto disciplinare quanto dottrinale. Un doppio atto selettivo dell’esperienza diventa una conseguenza della duplice astrazione tra “necessario e contingente” e tra “invisibile e visibile”. La gestione del mistero assume così da un lato la via “negativa” e “formale” del “minimo necessario”, dall’altro la via “intellettiva” e “affettiva” della “profondità di un mutamento non percepibile”. Questa polarizzazione, tuttavia, mette in crisi il sacramento.

Per questo non è azzardato sostenere che il “recupero della forma visibile” del sacramento (intesa come “forma rituale”), proposta dal Movimento liturgico a partire dalla fine del XIX secolo, riscatta la liturgia dal senso di minorità a cui l’aveva costretta la lunga stagione della teologia scolastica e moderna ed implica una grande revisione del rapporto tra “mistero” e “sostanza”. Viene cioè interrotto il duplice canale con cui mistero e sostanza si sostenevano a vicenda, sia sul piano della logica “officiale”, sia sul piano della logica “sacramentale”. Se la “forma visibile” diventa rilevante in modo non accessorio, ossia come passaggio di necessaria mediazione, la riducibilità “sostanziale” del mistero diventa non più praticabile, senza un danno grave per il sacramento stesso: questo vale sia nei termini di una “definizione di competenze” tra la Chiesa e il suo Signore, sia nei termini della relazione tra gli accidenti del sacramento e la sua verità. Questo duplice fronte del sapere, che ha elaborato con tanta finezza il suo linguaggio, viene ora messo a dura prova. Il motivo è proprio la sua incapacità di “custodire il mistero”. Sia la dogmatica giuridica e disciplinare, sia la dogmatica teologica e dottrinale sono state messe in crisi e devono ora trovare nuove forme di espressione, per non ostacolare una esperienza di sintesi. Di qui nasce anche un terzo significato del termine sostanza.

Il terzo concetto di sostanza: Giovanni XXIII

Questa riconsiderazione della tradizione sacramentale ha un effetto singolarissimo sul concetto stesso di “sostanza”, che assume così un terzo significato sorprendente.  Si deve notare come, al di là dello sviluppo liturgico, che sicuramente e non a caso è stato il più consistente nell’epoca postconciliare – non dimentichiamo infatti che dopo il Concilio Vaticano II, l’unica vera riforma è stata quella liturgica – è certo che a fondare teologicamente il campo di esperienza aperto dal Vaticano II sia stato un diverso concetto di “sostanza”, non pensato né come “limite resistente” né come “profondità invisibile”, ma come “fenomeno nutriente”. Questo è, in modo singolare, il risultato di una comprensione sorprendente delle parole di Giovanni XXIII, affidate al testo del grande discorso Gaudet Mater Ecclesia, con cui il papa apriva il Concilio, e che, nel suo centro, trova una espressione mediante la quale definisce sinteticamente la “indole pastorale del Concilio”: “altra è la sostanza dell’antica dottrina del depositum fidei, e altra la formulazione del suo rivestimento1. Questo testo, che tre delle quattro versioni ufficiali alterano profondamente nel suo significato più importante2, manifesta quell’uso del termine “sostanza” che G. Ruggieri, in un famoso saggio ( All’origine del Vaticano II: l’intuizione profetica di Giovanni XXIII, “Chiesa e Storia”, 3[2013], 83-98), ha identificato come tipico del glossario del prete Angelo Roncalli, poi del vescovo, del cardinale e per finire del papa. In questa accezione del termine, che  non è “metafisica”, ma “storica”, sostanza significa “ciò che nutre”, ciò che è “cibo sostanzioso” della tradizione. E in quanto tale non si identifica né con un limite, né con un concetto, ma con figure della esperienza di “crescita”, come lo sono, nei testi di Angelo Roncalli, una “fontana”, il “messale”, il “calice” o il “breviario”. Questa esteriorità nutriente della sostanza è forse l’elemento più evidente di continuità tra il ML e Giovanni XXIII e ci aiuta a comprendere in che modo, questa nuova visione della sostanza, permetta di comprendere anche la svolta che la liturgia riformata ha portato nella esperienza ecclesiale.

Provo a concludere con una battuta un po’ forte, ma necessaria: la teoria dell’ex opere operato, elaborata sul piano della sacramentaria generale, nell’intento di custodire il “mistero”, in realtà ha contribuito a “formalizzarlo”. La relazione tra dono e compito è molto più complessa e articolata di un “dono segreto” garantito da una “azione formale”. Con il termine “sostanza” abbiamo indirettamente favorito un certo disinteresse per la contingenza degli accidenti, sia sul piano del contenuto, sia sul piano della forma. La stilizzazione formale dell’”opus operantis” non contribuisce alla potenza del mistero, ma lo svuota  e lo isola. Il recupero di una adeguata correlazione tra “azione di Dio” e “azione dell’uomo” è diventato il compito fondamentale di questa riscoperta del triplice significato di sostanza. Il mistero non si alimenta solo di contenuto interno, o di procedure amministrative, ma esige una forma esteriore che rispetti il linguaggio simbolico-rituale di cui è costituito: questa diventa una provocazione a superare con decisione le riduzioni che  una metafisica della sostanza ha portato in re theologica, affidando invece il discorso de sacramentis ad una “relazione sovrasostanziale” di cui è originariamente costituita tanto la apertura al mistero quanto la stessa irruzione del mistero. Ossia quell’atto “revelativum” di Dio cui corrisponde, anzitutto, l’atto “orativum” dell’uomo (S. Tommaso d’Aquino).

1 Curiosa è la vicenda per cui questo testo originale è scomparse quasi totalmente dal “discorso ufficiale”, così come viene attestato dalle 4 versioni presenti sul sito “vatican.va”. Dove il latino, l’italiano e il portoghese hanno perso ogni riferimento alla “sostanza”, mentre la versione spagnola, sorprendentemente, si presenta a tutti gli effetti come l’unica traduzione letterale dell’italiano originale e dice così: Una cosa es la substancia de la antigua doctrina, del “depositum fidei”, y otra la manera de formular su expresión”!

2 Se si legge la versione italiana tradotta dal latino si trova un testo analogo come presunto significato, ma costruito in modo diverso, mediante la abolizione del concetto decisivo di “sostanza”:Altro è infatti il deposito della Fede, cioè le verità che sono contenute nella nostra veneranda dottrina, altro è il modo con il quale esse sono annunziate, sempre però nello stesso senso e nella stessa accezione”.

 

 

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