La svolta profetica di papa Francesco: virtù storico-filosofiche e vizi sistematici di una biografia intellettuale (M. Borghesi) (/2)
Romano Guardini, in un saggio giovanile dedicato al “metodo sistematico” in liturgia, ha fatto una affermazione che risulta preziosa per leggere il lungo saggio di M. Borghesi, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale (Milano, Jaca Book, 2017): “la storia ci dice che cosa è stato; la sistematica che cosa deve essere”. Nell’ambito delle prospettive che si sono aperte, grazie al Convegno IHU, sulla “Svolta profetica di papa Francesco” – di cui ho parlato nel precedente post di questa serie – ho ritenuto di presentare una serie di volumi, che intendo leggere nella prospettiva dischiusa dal Convegno brasiliano. Dirò di più: se non fossi stato a Porto Alegre, se non avessi sentito parlare teologi e storici di mezzo mondo sul tema, non mi sarei accorto di quanto è importante una comprensione profonda, articolata ed equilibrata del pensiero di Francesco e della sua esigenza di profezia. Proprio perché l’ho vista valorizzata, limitata o negata, sento l’esigenza di comprenderla meglio.
Aggiungo che il volume di Borghesi, dal quale comincio la mia presentazione – e cui seguiranno i volumi di Lafont, Faggioli e Huenermann – è apparso, proprio nel Convegno IHU particolarmente importante, perché è stato pubblicato l’anno scorso in italiano, ma ha già una traduzione portoghese e ne avrà presto una inglese. Nella presentazione che se ne è stata fatta al Convegno brasiliano, appariva chiaro l’intento di chiedere al libro la delicatissima funzione di “presentare” e “accompagnare” Francesco negli USA, che sperimentano ecclesialmente una grande difficoltà nel recepirne serenamente e pienamente il magistero. La biografia di Borghesi dovrebbe, dunque, “rassicurare” e “garantire” il magistero di Francesco.
Ho trovato piuttosto curiosa questa motivazione: ne capisco la esigenza, ma ne comprendo anche i grandi rischi. Per questo motivo ho voluto leggere con attenzione il testo di Borghesi e qui ne presento una recensione non completa, ma per punti salienti.
L’impianto, lo scopo e la struttura
La struttura del volume consta di 7 capitoli, nei quali si vogliono recuperare, in ordine cronologico, tutte le “fonti” del pensiero di Bergoglio: Fessard e Guardini, Methol Ferré e De Certeau, De Lubac e Von Balthasar. Lo scavo nelle fonti, soprattutto argentine, che è spesso di prima mano e quindi assai prezioso, mette in luce influenze e relazioni importanti, anche se, talora, lavora su “fonti di fonti” in modo non del tutto lineare. Così, pur lavorando in rapporto con molti “teologi”, il libro di Borghesi non si presenta come un progetto di lettura teologica, ma come un disegno storico e filosofico del profilo di J.M. Bergoglio. Per questo l’approccio dell’autore, come vedremo, corre il rischio di proiettare sull’oggetto il proprio metodo: ossia di proporre “il pensiero di Bergoglio…(che) viene a costituirsi come una sinfonia degli opposti. Una filosofia che si colloca nell’alveo del cattolicesimo, inteso come coincidentia oppositorum” (23). Borghesi, insomma, tende a trattare il “pensiero di Bergoglio” come una filosofia, e ne sposta il centro in un approccio mistico e sociale, che non pare interessato alla riforma della Chiesa. Questo mi sembra il limite sistematico di un approccio storicamente così fecondo. E’ evidente che Borghesi è interessato a “salvare” il cattolicesimo di Francesco e Francesco in quanto “cattolico”. Ma pretende di farlo in una presunta “equidistanza” tra conservatori e progressisti, con una genericità che non riesce ad essere davvero fedele a Francesco. Riconosce con valore che siamo di fronte al fatto che il “pensiero mistico è un pensiero aperto, che non chiude gli spiragli” (26), ma tende a dimenticare e a rimuovere che questa “mistica” deve nutrire non solo il pensiero, ma anche la struttura ecclesiale, le forme del matrimonio, la formazione dei presbiteri, la vocazione dei battezzati, la relazione col mondo. Su questo Borghesi diventa spesso vago e generico. Vediamo perché.
I limiti sistematici di una indagine storico-filosofica
Posso ora più chiaramente individuare la tensione tra “ricostruzione storica di un pensiero”, e presentazione sistematica del pensiero stesso. Qui a mio avviso emergono i tre limiti che condizionano più pesantemente il volume, e che ora voglio presentare in modo sintetico:
a) L’approccio filosofico-antropologico, che è del tutto opportuno e realmente fecondo, appare anche inevitabilmente unilaterale: non considerando lo spessore teologico, ecclesiologico, istituzionale delle questioni, Borghesi perde in profondità e tende ad una genericità di giudizio, che impedisce una comprensione reale delle questioni in gioco. Si consideri ad esempio l’intento espresso all’inizio del volume con queste parole: l’autore vuole “superare il luogo comune della opposizione di Francesco a Benedetto XVI, patrocinato dai conservatori. In realtà siamo di fronte a una diversità di stili e di accenti, non di contenuti” (21). Per esprimere questo giudizio, proprio in questa forma, Borghesi deve sospendere del tutto una domanda “sistematica” su Francesco e su Benedetto. Se ci limitiamo ad una indagine puramente filosofica e antropologica, possiamo forse anche concordare con Borghesi. Ma se entriamo nella articolazione sistematica dei contenuti teologici, senza limitarci alle formule del catechismo, allora dobbiamo necessariamente osservare che le differenze maggiori sono proprio sul piano del contenuto. Non per arrivare alla “contrapposizione conservatrice”, ma per comprendere la “discontinuità riformatrice”, che in Borghesi evapora totalmente. La discontinuità non è “cedimento alle logiche antitetiche”, ma esperienza obiettiva, da elaborare.
b) In linea con questo primo limite, un secondo, che ne è conseguenza, diventa altrettanto importante: per Francesco il Concilio Vaticano II è stato l’orizzonte di formazione e di comprensione della esperienza ecclesiale, religiosa e ministeriale. Nel volume di Borghesi il tema è affidato ad alcune riflessioni di grande pregio proposte da Methol Ferré, che riguardano però – come ovvio, dato l’autore – una comprensione “teoretica” e “filosofica” del Vaticano II, soprattutto in rapporto al protestantesimo e all’illuminismo. Le conseguenze di questa “rilettura della Chiesa in rapporto alla modernità”, sono però spostate, in modo filosoficamente interessante, ma teologicamente molto arbitrario, sulle dipendenze di M. Ferré rispetto al filosofo italiano A. Del Noce. E questa mossa conduce, nella pagine successive, ad una rilettura del Vaticano II in termini di “risorgimento cattolico” che inevitabilmente conduce, non senza forzature piuttosto rilevanti, ad una esaltazione di papa Ratzinger per la quale, citando sempre citando Methol Ferré,: “con Ratzinger si può dispiegare una nuova modernità cattolica, come sviluppo di quella modernità che ha avuto nel Concilio Vaticano II la sua manifestazione più totalizzante” (191).
c) Da ultimo, e quasi a sintesi di questi primi due aspetti – ossia della lettura “non teologica” e della considerazione “non ecclesiologica” del Vaticano II – deriva un terzo limite, per certi versi ancora più grave. Intendo dire la dipendenza che Borghesi dimostra in molte pagine, da una “apologetica ciellina” – ossia da una considerazione esagerata della influenza di Comunione e Liberazione su Francesco e sulla storia del post-concilio – che raggiunge culmini di esplicitazione quasi imbarazzanti. Vorrei limitarmi a citare due passi, che si trovano nel capitolo ultimo, quello dedicato a “Cristianesimo e mondo contemporaneo”. Nella prima parte del capitolo, in cui si discute su Amoris Laetitia, la lettura riduttiva, che viene proposta del testo, per salvarlo dalle accuse dei conservatori, poggia su una lettura non teologica, ma istituzionale e diplomatica, offerta da Rocco Buttiglione (256ss). In altra occasione, accanto alla positiva valutazione del testo di Buttiglione, avevo già osservato che difendere Francesco “solo perché e in quanto” ripete Giovanni Paolo II, senza uscire da quella impostazione, è una strategia minimalista che non consente di comprendere il “gesto profetico” di Francesco, che rilegge in modo originale il rapporto tra dottrina, morale, diritto e pastorale, superando un modello ottocentesco europeo. Ma questo è solo un piccolo segnale. Nello stesso capitolo, infatti, alcune pagine più avanti, leggiamo una “difesa di Bergoglio” che mi pare molto prossima ad una sfigurazione. Si inizia ricordando che Bergoglio aveva letto libri e scritto prefazioni a volumi di L. Giussani. Bene. Poi si aggiunge, già calcando la mano, che “nel suo dialogo con don Giussani Bergoglio mette a fuoco una serie di categorie che torneranno costantemente nel suo insegnamento” (278) avvalorando una sorta di parallelismo tra Giussani e Von Balthasar (sic!). Ma la “quadratura del cerchio” viene costruita da Borghesi in due pagine successive, che sono rivelatrici di un metodo di indagine con un controllo sistematico troppo fragile, che diventa facilmente preda di una lettura ideologica e distorta, scientificamente ed ecclesialmente non accettabile. Cito per intero il brano, di cui propongo poi una adeguata intepretazione:
“Nell’arco di tempo che va dalla fine degli anni 90 ai primi del 2000 Bergoglio mette a fuoro le categorie che ritroveremo al centro del documento finale...di Aparecida, nel 2007. L’idea di fondo è data da una formula che Bergoglio trova esemplarmente descritta nel Deus caritas est di Benedetto XVI: ‘ All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte, e con ciò la direzione decisiva’. E’ la formula riportata nella Introduzione del documento conclusivo di Aparecida. Ha un sapore decisamente ‘giussaniano’...” (280).
La pretesa di trovare un “punto di continuità fondamentale” tra Francesco e Benedetto in una frase che deriverebbe da Luigi Giussani è una affermazione che dimostra molto chiaramente tanto le intenzioni apologetiche della biografia, quanto la fragilità degli argomenti teologici e scientifici che le sostengono. Come si fa a non riconoscere che quella frase, in quel contesto, deriva a Benedetto, e poi a Francesco, da una lunga e complessa tradizione, di riflessione teologica e di argomentazione sistematica, rispetto a cui L. Giussani, se considerato con oggettività teologica, deve essere riconosciuto come semplicemente esterno, se non estraneo? Voler a tutti i costi ricondurre Francesco a Benedetto, ed entrambi a Giussani, costituisce un modo per frantendere gravemente due papi e per alimentare genealogie del tutto congetturali, al solo scopo di “calmare gli animi”, di “rassicurare i dubbiosi” e di avvalorare una lettura talmente continuista da fraintendere la “rivoluzione culturale” e il “cambio di paradigma” richiesto da Francesco.
Un Francesco imborghesito e pastorizzato: profilo o caricatura?
Alla fine, sia pur con un interessante recupero di dati biografici e teorici, che resteranno come un obiettivo guadagno per la ricerca successiva, il lettore non può non restare un poco deluso dall’impianto sistematico dell’opera di Borghesi, che tenta di avvalorare un continuismo tra papi e una subordinazione del teologico all’antropologico che non coincide con la realtà effettuale di papa Francesco. E’ una “ipotesi su Francesco” che non regge ad un esame rigoroso per due motivi:
– E’ un Francesco “imborghesito” – mi si conceda il gioco di parole – non solo perché sottoposto ad una rilettura di Borghesi troppo unilaterale, ma perché depurato da ogni istanza critica a livello teologico ed ecclesiologico. Viene reso del tutto compatibile con quella autoreferenzialità ecclesiale che Francesco stesso vuole invece superare e rimuovere, mediante la riforma della Chiesa.
– E’ un Francesco “pastorizzato”, il cui profilo di pastore, riferito solo ad un profilo mistico e spirituale, viene privato della istanza profetica, istituzionale, riformatrice, critica. Con un Francesco così pastorizzato non si fa alcun formaggio! Si può solo bere un latte certo gustoso, ma con la sicurezza di “non ammalarsi”, restando cattolici e ministri esattamente come prima!
Alla fine, il profilo intellettuale elaborato nel testo, pur con tutta la sua ricchezza di dati, rischia di apparire, almeno parzialmente, come una caricatura. Non vorrei che, per salvaguardare l’ordine pubblico ecclesiale e rinunciando alla profezia, noi fossimo costretti a ragionare non su persone reali, ma su versioni di comodo o su riduzioni al passato. Guardini sapeva bene che il racconto dei dati del passato è condizione per sane sintesi sistematiche; ma sapeva anche che una visione sistematica adeguata è a sua volta condizione per “vedere i dati” nella loro pienezza e complessità. L’impressione è che Massimo Borghesi, nel suo lodevole impegno di ricostruzione storica e filosofica, ma condizionato da una sistematica teologica troppo unilaterale e troppo fragile, abbia trovato solo quei dati che erano funzionali alla propria teoria. E che questo abbia compromesso, purtroppo, la profilatura dell’uomo, del prete, del gesuita, dell’Arcivescovo e del papa Jorge Mario Bergoglio. La cui profezia e la cui originalità, purtroppo, sembra restare, in larga parte, fuori da questa biografia.