La teologia non disponibile: le carenze sistematiche di parole ecclesiali su identità e sessualità


segreteriadistato   Credo che sia utile riflettere, il più pacatamente possibile, sulle “impasses” e sulle obiettive difficoltà con cui la Chiesa cattolica, in alcune sue espressioni ufficiali, è intervenuta di recente nei dibattiti a proposito di diversi temi: sulle benedizione delle coppie omosessuali, sull’ampliamento delle tutele giudiziarie sui reati di omofobia, ma anche sulle riforme penali interne al sistema canonico e sul tema della identità maschile e femminile, esterna ed interna alla vita ecclesiale. Si tratta, evidentemente, di un fascio di questioni che la Chiesa vive in modo “sovraesposto”, perché da almeno 150 anni ha concentrato, sul tema matrimoniale e sessuale, una parte del proprio residuo “potere temporale”. La pretesa di controllare, in modo indiscusso, la “unione” e la “generazione” è scritta a caratteri cubitali nella storia della Chiesa cattolica, ufficialmente dal 1880. Questa storia, però. non è un monolite: è piena di svolte, di accelerazioni, di arretramenti, di luci e di ombre. La rigida negazione delle competenze statali su unione e generazione del 1880, 50 anni dopo diventa mediazione e “accordo con lo stato” (non liberale). La negazione di ogni “alterazione” della generazione naturale diventa, nel 1968, maternità e paternità responsabile. Ma una tentazione ha attraversato tutta questa storia, compreso il Concilio Vaticano II: che si intenda unione, matrimonio, generazione e sessualità secondo un modello unico, generale ed astratto, predisposto da Dio in modo che l’uomo e la donna, nella fede, assumano “come tale” un modello precostituito (e pregiudicato), aggiungendo semplicemente la libertà del loro assenso. Questo modo di pensare, che giuridicamente ha trionfato nei due codici del 1917 e del 1983, ha enormi limiti di carattere antropologico, ecclesiale e pastorale. Una dogmatica giuridica, molto fragile, si impone e si afferma. Oggi paghiamo con gli interessi alcune scelte unilaterali, che nel 1917 erano state imposte, e a cui nel 1983, nonostante il Vaticano II, non siamo stati capaci di rinunciare. La Scrittura e la tradizione come “scudi e martelli” Troviamo un esempio eloquente di questa tendenza nella Nota a proposito del dl Zan, che la Segreteria di Stato ha inviato allo Stato Italiano. Infatti, ora che ne conosciamo il testo, leggiamo queste parole, nelle quali la Santa Sede si dice preoccupata che possano essere criminalizzate

“espressioni della Sacra Scrittura e delle tradizioni ecclesiastiche del magistero autentico del Papa e dei vescovi, che considerano la differenza sessuale, secondo una prospettiva antropologica che la Chiesa cattolica non ritiene disponibile perché derivata dalla stessa Rivelazione divina”.

Proprio questo passaggio compie il doppio salto mortale in cui si manifesta il “dispositivo di blocco”, ossia un sistema elaborato negli ultimi 100 anni, e usato molto frequentemente anche dopo il Concilio Vaticano II, per impedire ogni possibile sviluppo del sapere e della disciplina: una dottrina ecclesiale viene assunta come magistero autentico, che la qualifica come definitiva e così la ritiene irreformabile e non disponibile. Quello che è avvenuto per il matrimonio, in una forma esemplare, viene esteso a moltissimi altri campi del “sapere” e dell’”esperire” ecclesiale. Qui si manifesta una grave alterazione del pensiero teologico, nella quale cade sorprendentemente anche la pur avvedutissima Segreteria di Stato. Molto vi è di definito e di formato, nella antropologia, ma di definitivo e di irreformabile non vi è se non l’orientamento al bene. Che non è solo bene di generazione, ma anche bene di fedeltà, bene di indissolubilità, bene del coniuge, bene della fecondità nella ospitalità, bene della speranza nella comunione. Salvo la generazione, tutti gli altri beni non sono naturalmente estranei alle relazioni omosessuali. E possono anche attraversare una identità sessuale che non si identifica più con la sessuazione genitale e che elabora la identità di genere. Questa singolare confusione tra definito e definitivo, tra formato e irreformabile mi sembra una mancanza di prudenza, una perdita di lucidità, una forma di “fuga dalla storia”: non c’è bisogno di rendere “definitivo” quanto di definito merita di essere difeso. Questa è una indebita accelerazione che si paga a caro prezzo.

Pensare di salvarsi dalla legge penale, che giustamente persegue le ingiuste discriminazioni, appellandosi ad un “Dio lo vuole” che nessuno potrebbe permettersi di alterare, mi pare il frutto di una pessima teologia e forse di una peggiore diplomazia. La parola di Dio, la tradizione, le parole autorevoli di papi e vescovi non hanno immediatamente la pretesa di valere come “codici di comportamento definitivo”. Sono orientamenti autorevoli, ma in larghissima misura contingenti. Una accelerazione definitiva è una soluzione che è sempre stata troppo facile, perché dispensa la Chiesa dal confronto con i segni dei tempi, e può autorizzarla a leggerli indiscriminatamente come “trappole” e “pericoli”. “Maschio e femmina li creò” non può essere usato per bloccare ogni sviluppo della identità maschile, della identità femminile, del rapporto di ciascuna identità con se stessa e con l’altro. Chi sia un maschio e chi sia una femmina resta un mistero affidato alla storia. Per questo crediamo: perché l’uomo e la donna restano un mistero affidato alla relazione con Dio e con il prossimo.

Dottrine definite e dottrine definitive

La dottrina ecclesiale sull’uomo e sulla donna, pur avendo molto di storicamente definito e formato, a cui non si potrà mai rinunciare a cuor leggero, non ha nulla di strettamente definitivo e di irreformabile, perché l’identità dell’uomo e della donna non è scritta fuori dalla storia, ma nella storia del rapporto che l’uomo ha con Dio, con gli altri e con se stesso. Favorire i rapporti eterosessuali, e credere di scoprire in questa vocazione una reale forma di comunione, non implica necessariamente scomunicare o insultare o maledire o sbeffeggiare quelli omosessuali. Invocare la Rivelazione divina per ostacolare una legge che tutela i diritti delle persone con orientamento omoaffettivo fa il paio con il tentativo di comprendere l’abuso commesso su minore come un peccato contro il VI comandamento, che inevitabilmente viene attribuito non solo al maggiorenne abusante, ma anche al minorenne abusato. Perché il “reato contro la persona”, se viene pensato (solo) come “peccato contro Dio”, perde qualcosa di ciò che la storia ha saputo elaborare, anche alla luce dei comandamenti, ma non più con il loro linguaggio. La tentazione di inserire il “dispositivo di blocco” contro il diritto penale dello stato e a favore del diritto penale canonico è qui del tutto palese. Il teologo deve rilevare, sia nel testo della Segreteria di Stato, sia nel testo del Libro VI del Codice la presenza di “sistematiche teologiche e giuridiche” del tutto inadeguate e addirittura fuorvianti, che non hanno alcun fondamento nella vera tradizione ecclesiale, la quale non può nascondersi dietro frasi di circostanza. La divina rivelazione non è un “codice di leggi” e non può mai essere l’alibi per atti pusillanimi. Si può ricordare, anche a vantaggio della Segreteria di Stato, che abbiamo “purificato” i Salmi imprecatori, eliminando da essi espressioni troppo crude, abbiamo aggiunto “offerto in sacrificio” alla formula eucaristica, per chiarire la nostra identità non protestante; abbiamo aggiunto “perché peccando abbiamo meritato i tuoi castighi” all’Atto di dolore, …Come è possibile che solo sul tema della omosessualità dobbiamo sentirci vincolati da testi indisponibili, su cui non abbiamo alcun potere, neppure di migliorarne una ermeneutica tragicamente compromessa da pregiudizi culturali, legittimi ma sicuramente non definitivi?

In questo caso un preteso e fittizio rigore filologico (che è solo letteralismo senza profondità) e la rozzezza interpretativa (con poca quantità di pensiero) è solo ansia di attivare ancora una volta il dispositivo di blocco, affinché siamo immunizzati dalla storia e possiamo pensare di non avere bisogno del rapporto con gli “altri” per capire il Vangelo. Se almeno si fosse letta la Nota della Commissione Biblica Internazione su “Che cosa è l’uomo” (2019), che usa necessariamente grande prudenza nella lettura dei testi canonici a proposito della omosessualità, non si non sarebbe caduti in questo grave strafalcione teologico. E’ legittimo chiedersi: ma quale improvvisato ufficiale ha scritto quel testo della Nota? In quale secolo pensava di vivere? Chi pensava di compiacere riducendo la Divina Rivelazione ad un “Attenti!” da caserma? E chi potrebbe mai credere ad una Divina Rivelazione che si presentasse con il tono presuntuoso di questa burocratica affermazione di “assenza di potere”. Una certa vergogna è inevitabile che appaia sui volti, per il fatto che dall’ufficio più importante della Santa Sede sia uscita una parola così poco meditata.

Un sogno mattutino?

Non potrebbe essere che il rischio manifestato dalla nota del Vaticano possa capovolgersi in una opportunità? Che la temuta “diminuzione di libertà” diventi una maggiore libertà e fedeltà a ciò che la Scrittura e la Tradizione ci chiede davvero? Che il perseguimento più rigoroso di ogni mancanza di rispetto verso orientamenti sessuali differenti da ciò che giustamente riteniamo come ordinario, possa permetterci una esegesi dei testi e una argomentazione dottrinale meno approssimativa e irrispettosa su questi fenomeni? Siamo sicuri di avere una “dottrina definitiva” sulla sessualità e sulla omosessualità, che una legge penale dello Stato italiano metterebbe in questione? Pur con tutta la necessaria prudenza e avvedutezza, siamo sicuri di non aver imparato proprio nulla sulla schiavitù dalle leggi americane di 150 fa, che osavano negare il “diritto divino” allo sfruttamento della schiavitù, che il S. Ufficio, allora, si ostinava a confermare?

Né il cristianesimo, né il cattolicesimo deve credere di possedere un sapere “definitivo” sulla sessualità o sulla omosessalità. Credere in Dio Padre, Figlio e Spirito Santo non implica, a cascata, una antropologia rifinita. Chi sia un uomo o una donna non è oggetto di una “dottrina compiutamente acquisita”, perché l’uomo e la donna sono, da Dio in Cristo, affidati sempre anche a loro stessi. Sono creati per essere liberi di corrispondere a sé in relazione a Dio. La pretesa di una “completa antropologia” è, in fondo, un ideale senza fede. Non vi è, dunque, una pretesa “rivelazione della sessualità” che sia un sapere definito, strutturato e chiuso, che si possa imporre come un regolamento condominiale. La evoluzione della dottrina cristiana ha avuto questo andamento in moltissimi altri suoi aspetti: per cui sono potuti apparire sulle cartine geografiche continenti che non si conoscevano, sole e terra hanno potuto scambiarsi di posto in cielo, le donne si sono sedute a presiedere i tribunali e gli uomini hanno trovato modo di chiedere il permesso di lavoro “per maternità”. Saper rispettare questa evoluzione, non rinunciando ad orientarla e ad abitarla, è l’unica via praticabile. E se l’episcopato per un millennio non è stato considerato un sacramento, come potremmo rassegnarci a guardare la omosessualità o la identità di genere sempre soltanto come un vizio, un peccato, un disordine o, al massimo, una malattia? Perché dovremmo escludere “dal disegno di Dio” che sia invece una identità “possibile” in quanto identità “reale”? E che ammettere e accettare questo, come abbiamo riconosciuto una vera scienza in Galileo, la legittimità nelle ferrovie, la provvidenza nelle pensioni o la natura nei trapianti di cuore, non abbia a sovvertire né la cupola di S. Pietro né la storia della salvezza né il disegno del creatore?

La contingenza, il dogma e la libertà

Nelle questioni non assolute bisogna sempre tenere aperte più strade. La Segreteria di Stato, in questo campo, dovrebbe essere maestra. La relazione eterosessuale già di per sé non è la stessa in Europa, in Africa, in America e in Asia o Oceania. Le relazioni tra uomo e donna, la loro stabilità, la consolazione delle vedove o la decisione sul matrimonio dei figli hanno avuto e hanno forme e logiche assai diverse. Tutto questo si relaziona con la possibile omosessualità in modalità svariate, che di regione in regione non sono le medesime. Una dottrina ecclesiale e una pratica giuridica che dimenticasse questa varietà, e volesse imporre un’unica possibilità di relazione “lecita” e di identità “indisponibile” sarebbe un esercizio astratto, lontano dalle vite e non raramente violento. Le questioni che si dibattono oggi in Italia chiedono a tutti di non assolutizzare le loro posizioni. Curioso fatto è che l’Italia, come stato, sia risultato in Europa tra i primi a depenalizzare la omosessualità (1889) . La tutela dei diritti di tutti i soggetti, il principio “prima le persone”, non è anzitutto una ideologia pericolosa, una minaccia, ma un grido che si leva da uomini e donne che desiderano essere letti, interpretati e incontrati altrimenti. Le Chiese, anche la chiesa cattolica, hanno le risorse per non sentirsi minacciate dalla maggiore tutela dei diritti al rispetto. E possono trarne anche la opportunità per affinare la formulazione del rivestimento con cui la sostanza della antica dottrina ci è trasmessa e in questo può essere anche arricchita. La formulazione del dogma non può mai coprire tutte le cose contingenti. La sessualità ha una dimensione contingente, che può essere negata solo in una astrazione generica e universale, che facilmente diventa disumana. Per questo una accezione sana e feconda di “liberalismo” non può essere sempre identificata con un “principio antidogmatico”. Il XIX secolo, al quale dobbiamo tanto, è nello stesso tempo sempre più lontano. Ma solo una buona teologia permette al pastore e al giurista, al ministro e al diplomatico di non cadere nelle trappole che il XIX secolo, senza sua colpa ma con nostra imprudenza, continua a costruire contro di noi. Una teologia all’altezza delle sfide è, questa sì, qualcosa di non disponibile, un bene di cui la Chiesa non può fare a meno, senza perdere se stessa.

La differenza tra la rozza negazione dei diritti di chi ha orientamenti diversi e le buone ragioni di una sana dottrina cristiana era lecito aspettarsi che emergesse con maggiore nitidezza. La mancanza di una teologia adeguata nelle espressioni ufficiali risalta in modo preoccupante. Permettere che si confonda la tradizione cristiana con la non sopportazione che l’altro voglia essere quello che è, per timore di non poter essere più se stessi nel caso in cui l’altro venga tutelato, mi pare che sia sempre un passo falso, un azzardo rischioso, una forzatura anzitutto di se stessi, che facilmente si trasforma in un boomerang inesorabile.

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