La teoria dei “fori” e la giustizia penale. E’ diverso punire o generare pace


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La storia della amministrazione della giustizia negli stati moderni, che negli ultimi 3 secoli, gradualmente, si è dotata di strumenti poderosi come il “codice di diritto penale” e il “codice di procedura penale”, impatta sulla Chiesa in modo assai complesso. Anzitutto per il fatto chela Chiesa mantiene, almeno in parte, l’assetto precedente di amministrazione della giustizia, ossia un sistema che non elabora il proprio compito secondo alcune delle evidenze elaborate dagli “stati liberali”, ossia:

– separazione dei poteri

– certezza della pena

– giudice naturale precostituito

– tutela dei terzi e della vittime

Per riflettere su questo tema vorrei rifarmi ad un famoso volume di Paolo Prodi, Una storia della giustizia. Dal pluralismo dei fori al moderno dualismo tra coscienza e diritto (Il Mulino, 2000). Si tratta di uno strumento prezioso, che è in grado di mostrarci il cuore di una sfida, che la Chiesa deve assumere in toto, senza nascondersi dietro categorie che, nel tempo, sono diventate parziali, distorte o addirittura contraddittorie.

L’occasione per svolgere questo ragionamento è data dalla recente presentazione di una presunta “riforma” del Libro VI del CJC, nel quale in forma piuttosto ridotta e marginale, alcune novità lasciano tuttavia in piedi un impianto del “diritto penale canonico” che continua a funzionare secondo il principio di “pluralità dei fori”, con grande differenza rispetto alla “unicità del foro” che si è imposta con la tarda modernità nello stato liberale. Possiamo riassumere brevemente la questione in questo modo: una lunga tradizione aveva amministrato la giustizia con una moltiplicazione dei luoghi, dei soggetti e dei livelli di giudizio. La evoluzione moderna ha polarizzato la forma della amministrazione con una grande semplificazione: un solo foro, (un solo giudice naturale) cui corrisponde la coscienza del cittadino. E’ evidente che questa operazione è carica di conseguenze, di carattere funzionale, simbolico, concettuale, procedurale. Nascono, solo in questo nuovo stile, concetti-chiave della coscienza contemporanea come quelli di “certezza del diritto” e “certezza della pena”. Per capire bene in che cosa consiste questo passaggio, credo che sia utile formularlo in termini “antichi”. Ossia con la immagine dei “diversi fori” che concorrono, parallelamente, alla “amministrazione della giustizia”.

Due fori, anzi quattro

E’ noto che la tradizione ecclesiale, anche dopo la codificazione del 1917, conserva un “duplice foro”, cui corrispondono due “Uffici centrali”: al “foro interno” corrisponde la Penitenzieria, mentre al “foro esterno” corrisponde il Tribunale presso la Congregazione per la Dottrina della fede. Lo stesso comportamento delittuoso può cadere o sotto uno o sotto l’altro o sotto entrambe le competenze di questi fori. Va aggiunto che entrambi i fori, a loro volto, hanno una articolazione di competenze maggiore, facendo capo a soggetti differenziati. E comunque bisogna ricordare, ed è un tratto decisivo per la nostra questione, che c’è una grande “sovrapposizione di competenze” tra foro interno e foro esterno dal punto di vista della materia: il rapporto tra peccato e delitto è oggetto di discernimento altamente discrezionale. Questo introduce una inevitabile “incertezza” sia del diritto sia della pena. Questa incertezza è funzionale al sistema ecclesiastico, ma entra in crisi quando si crea una sovrapposizione o una concorrenza tra giustizia ecclesiastica e giustizia statale.

Provo ora a descrivere che cosa accade quando lo stesso comportamento viene osservato secondo la logica ecclesiastica o secondo la logica del diritto statale. Ai due profili ecclesiastici in qualche modo si sovrappongono i due registri statali:

foro interno: è la esperienza che ha nel “sacramento della penitenza” il suo luogo proprio e che arriva alla “assoluzione” del peccatore, salvo rari casi;

foro esterno: è la esperienza con un “tribunale ecclesiastico” che commina una pena (scomunica, interdetto, censura…);

foro intimo: è la coscienza nel suo stare immediatamente davanti alla legge e a Dio;

foro esteriore: il tribunale dello stato, che condanna ad una pena temporale carceraria o alternativa.

La rappresentazione che qui offriamo è in realtà una costruzione che non corrisponde ad esperienza concrete. Di per sé nell’ambito della Chiesa vorremmo limitarci alle prime due dimensioni, mentre fuori dalla Chiesa potremmo limitarci alle seconde due. E’ evidente, tuttavia, che la prima visione è assai dettagliata, ma manca di certezza del diritto e della pena, mentre la seconda garantisce un alto grado di certezza, ma conosce un solo foro, che sta immediatamente davanti alla coscienza del soggetto.  Soprattutto il fatto che ogni ordinamento tende ad ignorare la “forma mentis” dell’altro implica una ulteriore fatica nel comporre i conflitti e nell’accendere le reazioni, che diventano inevitabilmente esasperate. Gli ordinamenti, in qualche modo, creano aspettative che non sanno poi soddisfare. Non c’è vera pacificazione se le vittime non sono ascoltate e le pene non sono certe. Ma dare ascolto alle vittime e assicurare le pene non realizza ancora una pacificazione autentica ed efficace.

Due problemi diversi, da correlare

Questa considerazione ci permette di identificare due questioni diverse, che qui potrebbero utilmente entrare in relazione:

a) Da un lato la mancata riforma del Libro VI – perché di questo si tratta, di una riforma apparente  – non ha affrontato la duplice questione centrale: se non esiste “certezza della pena” nel sistema, anche la fattispecie del delitto di “abuso” ottiene una soluzione che non tutela né l’ordinamento né le vittime. Senza una logica certa del “foro esteriore”, che la Chiesa possa far propria in una comunità giuridica più vasta, e quindi in dialogo con altre istituzioni, la giustizia non potrà essere realizzata. In questo caso la Chiesa avrebbe da imparare dalla logica statale per “generare giustizia” nel corpo ecclesiale.

b) D’altro lato, la forma del “foro esteriore”, che garantisce certezza del diritto e certezza della pena, non garantisce a sua volta che “sia fatta giustizia” in senso sostanziale. Sia nel senso della “riabilitazione del reo”, sia nel senso della “riparazione del male compiuto”. La attuale riscoperta della “giustizia riparativa” come via alternativa alla pura formalità di un “foro esteriore” che commina pene carcerarie, è una via “penitenziale” e di “mediazione” in cui la tradizione ecclesiale può risultare utile alla tradizione statale.

Di fatto, una contaminazione dei sistemi è necessaria. La “pluralità dei fori”, su cui Paolo Prodi ci ha reso attenti, non è solo una “vecchia idea medievale”, ma una istanza di giustizia che non si lascia troppo formalizzare. Così, alla irrinunciabilità della “certezza della pena” e della “tutela dei terzi” occorre unire il recupero di forme di “mediazione” e di “riparazione” diverse dalla mera “esteriorità della reclusione” come forma ordinaria della pena. La Chiesa tanto meglio potrà affermare il suo giusto ideale di misericordia se saprà assumere anche i principi moderni di certezza del diritto e della pena, come propria risorsa, in dialogo con altre istituzioni. Lo Stato, da parte sua, tanto meglio potrà tutelare le vittime e le esigenze formali di giustizia, quanto più camminerà anche nella direzione della vera riabilitazione del reo e della efficace pacificazione della comunità, ferita dal crimine e non sanata da rimedi puramente esteriori, per quanto certi.

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