La traduzione di un Messale: la posta in gioco e i suoi criteri
La traduzione di un Messale è un atto di tradizione. Per questo comporta una procedura assai complessa, caratterizzata da molti risvolti culturali, ecclesiali, spirituali. Poiché una nuova traduzione è da ieri in uso nella Chiesa italiana, e questo, come è inevitabile, solleva reazioni, sdegni, entusiasmi, lamentele, riserve e apprezzamenti, vorrei cercare di mettere ordine nelle questioni in gioco, soprattutto al fine di una valutazione più completa e ragionata di ciò che sta iniziando ad accadere.
Le lingue e la fede cristiana.
La fede cristiana ha, con il linguaggio, una relazione strettissima. Sia perché al centro ha “la parola fatta carne”, sia perché, fin dall’origine, è priva di testi originali. Tutti i suoi testi fondativi sono “traduzioni”. Il greco dei Vangeli, quello di Paolo e quello di Giovanni, sono la versione di parole originali “aramaiche” che non ci sono giunte. In nostro “Ur-text” è congetturale. Quello che effettivamente fonda tutto è già una traduzione. Traduzione prima, che poi da greca diventa latina e da latina italiana, francese, tedesca, inglese, spagnola, ungherese o polacca. Questi passaggi sono tutti rilevanti e si possono fare in diversi modi, come vedremo.
La liturgia non è solo parola
Ma la liturgia, al cui servizio esistono i messali, non parla solo mediante le parole, ma anche mediante tutti i linguaggi dell’uomo e della donna: quelli del tempo e dello spazio, della musica e del silenzio, del gesto e del movimento, della immagine e del profumo, del gusto e del tatto. Anche questo, però, essendo “tradizione”, deve passare attraverso una “traduzione”. Non traduciamo solo i sostantivi, i verbi, gli aggettivi o i pronomi, ma anche gli spazi, i tempi, le materie o i ministri, le armonie e i ritmi, i contatti e i silenzi. Anche questi aspetti del messale – le cosiddette “rubriche” – subiscono una traduzione. Spesso molto più nascosta e meno evidente, ma altrettanto decisiva.
Che cosa si traduce?
Se, come abbiamo visto, ad essere oggetto di traduzione non sono solo le parole, ma tutti i linguaggi della celebrazione eucaristica, possiamo chiederci: che cosa è al centro della traduzione? Potremmo rispondere così: al centro della traduzione vi è la “traditio”, da intendersi come quella “azione” con cui la Chiesa trasmette ciò che ha ricevuto e riceve quanto le è stato trasmesso. E’ importante ricordare bene questo punto: noi non traduciamo mai un solo elemento – una parola, un gesto o un oggetto – ma tutta intera una azione. Per questo la “fedeltà” si misura non su ogni singolo atto di traduzione, ma sulla capacità di trasmettere la azione dal passato al futuro. Per questo è decisivo non ideologizzare l’atto di traduzione. Non è solo il calco del passato né solo la evidenza del presente. Per essere “capace di futuro” deve mettere in rapporto passato e presente. Ma come si fa?
I tre criteri per tradurre le parole
Quando traduciamo un testo da una lingua alla nostra abbiamo sempre tre possibilità:
– non tradurre, portando nella nostra lingua i termini della lingua straniera
– fare una “trasposizione” da una lingua all’altra, in cui ogni parola “sta” come traduzione diretta di ogni parola del testo originale
– tradurre la parola nel suo significato, non nella sua forma e nel suono letterale.
Nessuna di queste tre strade è priva di limiti, perciò ogni buona traduzione attinge ora all’una, ora all’altra. Se ci si irrigidisce su uno dei tre criteri, si produce una traduzione “poco fedele”: poiché la fedeltà deve essere sempre duplice – alla bocca che parla e all’orecchio che ascolta – occorre mediare sempre tra le due. Per questo non esiste alcuna possibilità di identificare il testo di arrivo come “calco” del testo di partenza, né come “idea” nella testa di arrivo, poiché la differenza tra le lingue non è una differenza “tra strumenti”, ma una differenza “tra esperienze”.
Tradurre gli altri linguaggi
Tradurre il messale significa far entrare gli uomini e le donne di oggi nella “azione di Cristo e della Chiesa” con tutte le sue caratteristiche corporee, sensibili, affettive, spaziali e temporali. Anche le “rubriche” devono essere tradotte in gesti corporei, in canti, in silenzi, in acclamazioni e in processioni delle nostre culture e dei nostri tempi. Questo è importante da ricordare per non esasperare le attese sul “tradurre”, concentrandole tutte solo sul livello verbale. E’ possibile, infatti, che una parola “meno chiara” possa essere chiarita da un gesto più limpido o che una melodia oscura sia illuminata da un tempo più lento o che un silenzio opportuno aiuti a elaborare una sequenza complessa. La interazione tra i linguaggi è decisiva per una buona traduzione.
Tre esempi
Nel nuovo messale troviamo, contemporaneamente, tutti questi livelli e criteri di traduzione. Per giudicarli e per farne l’uso più opportuno è fondamentale riconoscerli nella loro qualità, secondo i criteri cui si ispirano.
a) Una “non traduzione” è Kyrie eleison. Restiamo colpiti non dal fatto in sé. Ad altre parole “non tradotte” siamo abituati (ad es. alleluja, amen), ma in questo caso è il “Signore, pietà” ad essere stato sostituito dall’originale greco non tradotto. Credo che la scelta implichi una “traduzione” assicurata dal contesto, che nel caso specifico è il canto. Se non traduciamo la parola, possiamo e dobbiamo tradurre l’azione. La presenza del greco o del latino, in un testo italiano, implica la convocazione del corpo che canta, e così si esprime e si orienta.
b) Un esempio di “trasposizione” si trova, ad es., nella II Preghiera eucaristica, dove, al posto di “collegio episcopale” si è preferito “ordine episcopale”, che costituisce “traduzione letterale” di “episcopali ordine” del latino. Lo stesso è avvenuto con la ripresa letterale della metafora “rore Spiritus tui” (con la rugiada del tuo Spirito) al posto della “effusione del tuo Spirito”, che ascoltavamo nella traduzione precedente. La scelta della “letteralità” ha il vantaggio della aderenza al testo originale e alle sue figure retoriche, ma sconta lo svantaggio della percezione di volta in volta “formale”, “iniziatica” o “poetica” nella lingua di arrivo.
c) L’esempio di “traduzione contestuale” più famoso è “non abbandonarci” al posto di “non indurci” nella preghiera del Padre Nostro. Qui, come è evidente, si lascia la traduzione letterale a vantaggio della “traduzione dinamica”. Il verbo non è più né quello del greco né quello del latino, ma il significato vuole essere più comprensibile nella lingua di arrivo. La fedeltà è nella comprensione, non nella parola.
Come è evidente, nessuna della soluzioni è a prova di bomba. Ognuna ha vantaggi e svantaggi. Ma si deve dire che due sono le prioprità che occorre garantire, non solo nella traduzione del testo – che ora abbiamo rilegata nel nuovo volume – ma nella recezione del testo.
– La traduzione mira sempre al servizio verso una doppia fedeltà: alla azione che riceviamo e ai soggetti che la compiono. Solo le parole non bastano mai. Occorre tradurre l’intera azione con cui Cristo e la Chiesa si incontrano , qui e ora, come ieri e sempre.
– Non è possibile tradurre senza interpretare. Le interpretazioni sono a diversi livelli e possono spostare il centro della recezione dalla parola, al concetto, al corpo. Di volta in volta occorre discernere, senza poter adottare una soluzione generale, che sarebbe ideologica.
Il travaglio degli ultimi 20 anni
Negli ultimi 20 anni abbiamo visto succedersi due letture significativamente diverse dell’atto di traduzione, che possiamo fotografare in due frasi simili, ma le cui conseguenze incidono profondamente sulla tradizione. La prima è tratta dal testo del 2001 Liturgiam Autenticam, mentre la seconda è tratta dal Motu Proprio Magnum principium, del 2017.
“Bisogna che la traduzione dei testi liturgici della liturgia romana non sia un’opera di innovazione creativa quanto piuttosto la trasposizione fedele e accurata dei testi originali in lingua vernacola”. (Liturgiam Authenticam 2001)
“Bisogna fedelmente comunicare ad un determinato popolo, tramite la sua propria lingua, ciò che la Chiesa ha inteso comunicare ad un altro per mezzo della lingua latina” (Magnum Principium 2017)
Il messale è stato tradotto nella tensione tra queste due visioni. Nella prima si confida quasi soltanto sul criterio di trasposizione, mentre nella seconda si riapre la sensibilità ecclesiale alla traduzione dinamica. Nella recezione del testo, che ha questa trama complessa, dovremo tener conto di una prospettiva aperta, elastica e graduale, grazie alla quale il servizio della traduzione rimane orientato a restituire alla tradizione la sua vitalità e la sua rilevanza, perché diventi una esperienza più simile a coltivare un giardino che a conservare un museo.