La trasgressione delle tenebre. Le Messe di notte, la nuova Veglia Pasquale e una lettera del Cardinal Siri del 1951
Una preziosa occasione di approfondimento del dibattito oggi in corso sulla cosiddetta “Messa della Mezzanotte” di Natale ci viene offerta da un articolo di quasi 10 anni fa, ad opera di Nicola Giampietro, (“O vere beata nox”. L’accoglienza dell’”Ordo Sabbati Sancti” del 1951-1952, “Ephemerides Liturgicae”, 125[2011], 142-189), nel quale si offre una ampia rassegna delle numerose e favorevolissime testimonianze episcopali circa la introduzione del nuovo Ordo della Veglia Pasquale.
Tra coloro che espressero un giudizio critico circa la Riforma, spicca il parere negativo dell’Arcivescovo di Genova Giuseppe Siri. Il pregio dell’articolo di Giampietro sta nel pubblicare integralmente le pagine della relazione (158-161), inviata alla Sacra Congregazione dei Riti da Genova, il giorno 8 ottobre 1951. In essa possiamo leggere due ordini di preoccupazioni, che possono facilmente essere qui considerate, proprio per marcare la distanza del nostro tempo da quel tempo e della nostra sensibilità (prevalente) da quella sensibilità.
Bisogna dire, tuttavia, che alcune delle cose che G. Siri considera prioritarie oggi rimangono ancora fortemente presenti nel corpo ecclesiale, al centro come in periferia. Soprattutto una certa sufficienza nei confronti di quella (prima) riforma liturgica mostra oggi di aver mantenuto una sua forza e di aver anche intaccato luoghi di particolare autorevolezza.
Proprio per questo, dei due ordini di contestazioni che Mons. Siri rivolge alla riforma, il primo ha immediatamente colpito la attenzione dei teologi, ma è il secondo, come vedremo, a risultare oggi il più insidioso e il più urgente da affrontare.
1. Le ragioni disciplinari e “naturali” della critica negativa alla riforma della veglia pasquale
Non senza ragione, molti commentatori si sono soffermati sulle ragioni con cui Giuseppe Siri manifesta le sue perplessità. Ne faccio qui una piccola collezione di citazioni. Anzitutto una concatenazione iniziale di cause ed effetti:
a) “La innovazione ha avuto buon risultato, ma ciò si deve esclusivamente al fatto che è stata applicata in un numero ridotto di Chiese (per decreto dello stesso Arcivescovo)” (158)
b) “Si deve immobilizzare molto clero per le confessioni, mentre avviene la non breve cerimonia” (ivi)
c) “ove la funzione “in nocte” divenisse obbligatoria, richiederebbe in Diocesi di Genova si potesse aumentare il Clero almeno del 40 per cento” (ivi)
d) La innovazione non è applicabile (tanto si dice sommessamente, rispettosamente, ma chiaramente, perché ne è data licenza e perché si tratta ancora de lege condenda) per legge generale, tale che non si possano più fare le funzioni “in mane”.
Se poi accadesse ciò che l’Arcivescovo paventa, ossia l’applicazione generalizzata della Riforma, egli segnala i seguenti gravi danni per la propria Diocesi:
i) “Assorbiti dalle chiese di maggior rilievo e maggiori mezzi per il giusto e decoroso espletamento della bellissima Liturgia del Sabato Santo in notte, verrebbero a mancare completamente i Confessori per tutta la campagna” (159)
ii) “I Parroci di campagna rimarrebbero soli, non potrebbero confessare per lungo tempo in notte…e dopo una tale faticaccia non sarebbero in forma per attendere sempre da soli allo straordinario lavoro del mattino di Pasqua” (ivi)
iii) “Verrebbe a mancare nella maggior parte dei casi…il decoro delle Sacre Funzioni, le quali nella fattispecie sono tali e di tale complicazione e bellezza, che o si fanno bene o meglio sarebbe non farle per non esporre sacrosante cose a troppo facile ludibrio” (ivi)
iv) “Le ragioni delle funzioni notturne possono essere esteticamente e storicamente interessanti e fascinose, ma io sono d’avviso che la notte (fatta eccezione per gli usi già esistenti) non è bene venga da noi facilmente violata, a meno che non si tratti di aprire alle vittime del rispetto umano una più facile ed occulta porta verso i Santi Sacramenti, come accade nelle Sacre Missioni e come potrebbe accadere al Capodanno civile, allorché intanto tutti stanno levati ed è meglio metter qualcosa di religioso, per evitare tutto vi diventi pagano” (ivi)
Resta comunque nella opinione di G. Siri una grande perplessità anche di carattere “spirituale” circa la introduzione, per quanto ridotta, della novità rituale. Essa viene espressa tuttavia con argomenti quanto meno “singolari”:
I) “Il Sabato Santo rimarrebbe vuoto e ciò appare dannoso alla pietà cristiana. E’ difficile concepire in tal modo il giorno che è la più grande e venerabile vigilia dell’anno. Non pare opportuno e facile contenere l’esplosione della gioia pasquale fino a tarda notte” (ivi)
II) “Il digiuno quaresimale termina a mezzogiorno. Non è coerente che il suono delle campane venga differito oltre quel termine, il quale segna per (160) legge universale della Chiesa la fine dello stato penitenziale. D’altra parte è tanto grande, fondamentale e gaudioso il giorno di Pasqua che si comprende come in questi otto secoli abbiano ritenuto non bastare ad esso le ventiquattro ore normali e le abbiano opportunissimamente dilatate, incorporando nel Dies quam fecit Dominus una parte della sua stessa vigilia” (159-160)
Molto interessante è la logica con cui Siri propende per il mantenimento della “statu quo”. E lo fa distinguendo tra “non inconvenienti” e “inconvenienti” del regime ancora in vigore:
*) “Non è affatto un inconveniente il perdere una funzione notturna, anche se questa può costituire un bellissimo nostalgico ricordo, perché le liturgie vigiliari notturne riflettono un quadro ben diverso da quello del nostro tempo, in cui non lo spirito penitenziale guida a volerle, ma la novità e l’abitudine al leggero (troppo leggero) uso della notte. Poiché la notte è divenuta, per via della facilitante tecnica moderna a cominciare dalla illuminazione, la più grande attrattiva d’ogni scomposto istinto e la più grande alleata di ogni sovversione naturale e di ogni peccato, (161) eccettuato il caso di facilitare Nicodemi delle Missioni e di santificare ore già da tutti violate al fine di renderle meno pagane, sono di sommesso avviso non essere buon indirizzo incoraggiare anche per motivi liturgici e archeologici la violazione dell’’istituto naturale della notte’”(160-161)
**) Inconvenienti da non trascurare sono invece i seguenti:
– la liturgia ambientata al mattino del Sabato nella idea di ‘notte’, quando invece splende il sole;
– la difficoltà di avere il popolo in massa per il perdurare del tempo lavorativo.
Va aggiunta, infine, una annotazione, che risulterà molto significativa alla fine del nostro percorso:
“Quello che la Santa Chiesa farà, sarà sempre ben fatto, anche se fosse contro tutti i miei argomenti. Ho parlato solo perché si tratta di “lex condenda”. Dinanzi alla “lex condita” io sarei un suo perfetto e convinto difensore.” (161)
Si tratta, come è evidente, di argomenti sicuramente molto ingegnosi, ma almeno altrettanto disarmanti. In essi si unisce una ingenuità teologica e pastorale con una insensibilità così piena e così sorda alle ragioni della riforma liturgica, da rasentare in molti casi l’effetto comico. E’ vero, fa sorridere il modo con cui Siri deplora l’ampliarsi di una “esperienza notturna” che egli legge in chiave sostanzialmente moralistica. Ma dovremmo anche chiederci se noi, che ridiamo di queste parole, sappiamo veramente valorizzare la “notte santa” Non vi è, nel nostro sorriso all’ascolto degli argomenti arditi e antiquati proposti da Siri, una sorta di insincerità profonda verso la stessa Riforma, che non contestiamo con strani “argomenti mentali”, ma con profonde “trasandatezze corporee”?
2. La “non necessità” della Riforma
Il secondo registro delle osservazioni dell’Arcivescovo di Genova è invece quello della relazione tra la Riforma e l’ordo vigente in precedenza. Qui, in modo meno appariscente, ma molto più duraturo, Giuseppe Siri oppone al desiderio di Riforma le ragioni di una tradizione che non avrebbe alcuna necessità di essere modificata. A ben vedere non sono quelle argomentazioni di merito, bensì queste di metodo, ad aver avuto una fortuna critica inaspettata. Ascoltiamo la prima di queste affermazioni-chiave:
a) “La innovazione può essere applicabile se lasciata in uso a casi determinati e pochi in modo da essere tanto estesi, quanto occorre perché non diventi dannosa. Siccome il limite in cui cessa di essere una bellissima cosa e diventa dannosa, varia da Diocesi a Diocesi, sarei del sommesso parere ne venissero facoltizzati gli Ordinari locorum, i quali sono in grado di giudicare delle circostanze di fatto; e prendendo tempo, possono portare con opportune provvidenze ad una sempre più larga applicazione. Deliberatamente ho detto che la innovazione può essere applicabile sia pure in scala ridotta. Non ho detto che ‘debba’”(159)
Si nota poi una ulteriore conferma di questo “minimalismo riformatore” quando il presule ritorna, più avanti, sulla “non necessità” del provvedimento.
b) “In conclusione, dopo aver lungamente studiato e meditato la questione, per quel che ne vedo da esperimento fatto in mia diocesi, quanto so e posso supplico che la innovazione non venga sancita, con legge, che la imponga quale unica e definitiva disciplina; venga bensì concessa come indulto alla discrezione degli Ordinari dei luoghi, permettendo ad una più completa esperienza – possibile solo in una serie di anni – dimostrare quanto sia nell’interesse della gloria di Dio, nonché nell’interesse delle anime” (160)
Come è evidente, le preoccupazioni dell’Arcivescovo di Genova, per quanto non chiuse alla possibilità di un limitato e controllato esperimento della nuova forma di “veglia in nocte”, propendono per una soluzione in cui convivano, sostanzialmente, due forme diverse (temporalmente, ritualmente, soggettivamente e oggettivamente diverse) del medesimo rito, in vista di una chiara acquisizione delle priorità nel volgere di alcuni anni.
E’ assai interessante, tuttavia, che questa forma di “innovazione sotto indulto” tenda a oscurare totalmente che la “questione” di cui ci si occupa – la vegli pasquale notturna – in realtà non è la questione, bensì è il principio di una “soluzione”, mentre la vera questione era rappresentata (allora, come oggi) dalla incapacità dei riti tradizionali di comunicare adeguatamente il senso stesso della veglia e dell’intero triduo pasquale, in cui le priorità portanti erano diventate il “precetto pasquale” (con l’obbligo di confessione e comunione semel in anno) e la gestione del “personale sacerdotale” in primis per le confessioni. La evidenza (sospetta e fittizia) di questo primato rende del tutto accessoria e secondaria ogni “riforma” che voglia contribuire a riscoprire il primato della “eucaristia celebrata”. In ultima analisi, senza negare nulla alla bellezza della liturgia, con questo atteggiamento se ne riduce il senso a possibile distrazione dai veri compiti pastorali (che sono confessare i “pasqualini” e comunicarli nelle moltissime messe domenicali…). Sotto questa angolatura distorta dell’esperienza ecclesiale, la veglia pasquale riformata era, è e sarà sempre chiaramente di ostacolo a queste priorità disciplinari e clericali. Su questo non ci piove.
Conclusioni
Mutatis mutandis, quanto detto per la “veglia pasquale” quasi 70 anni fa, possiamo oggi considerarlo come illuminante per la “messa della notte” del Natale. Ed è evidente che la questione rischia di essere impostata in modo troppo semplicistico, senza tener conto di quanto le pratiche celebrative siano cambiate negli ultimi 70 anni, in relazione alle novità culturali e teologiche emerse nel XX secolo. I mutamenti tecnologici (luce elettrica) cambiavano l’ordine pubblico e quindi anche il giudizio morale sulle azioni notturne. Il tratto che accomuna alcune posizioni del 1951 sulla Veglia e certe posizioni di oggi sulla Messa della notte di Natale è proprio la rigidità disciplinare e dottrinale: come allora si puntavano i piedi contro le nuove evidenze, restando nella inerzia dei comportamenti “acquisiti”, così oggi ci si irrigidisce sulle acquisizioni degli ultimi decenni, come se le nuove evidenze – di carattere pubblico e sanitario – fossero semplicemente un attentato alla identità e alla tradizione. Si usano le novità elaborate dalla riforma a partire dal 1950, sulla base non solo di antichi documenti, ma anche di nuove evidenze tecnologiche, culturali e teologiche, come se fossero dati arcaici e intoccabili, che la Chiesa da sempre avrebbe osservato. Ma non è così: la logica “trasgressiva” dei riti esige un altro approccio, mentre la Veglia pasquale e la Messa di mezzanotte vengono ridotte in questo modo a mere “occasioni disciplinari e apologetiche”: notte buia allora, notte buia oggi.
La cultura della ragione astratta svuota le persone e diviene scientismo a favore di pochi potenti e del loro apparato di meri esecutori. Ma lo scientismo domina gli stessi potenti. Bisogna restituire alle persone la possibilità di scegliere fin dalla scuola la formazione alla luce della identità ricercata e nello scambio con le altre. Si supera così la scissione tra cultura e vita, teoria e pratica, tipica dell’intellettualismo. Pensiamo ad un cristiano che oscilla tra fede delle risposte prefabbricate e pragmatismo dell’incontro senza sviluppo dei riferimenti. Si è svuotati in entrambi i casi. Poteri sedicenti conservatori delle identità chiuse e progressisti fautori di un omologante solidarismo si contrastano ma anche si spalleggiano nel manipolare la gente. Invece identità e scambio favoriscono la maturazione delle persone e dunque poi una nuova partecipazione. Formazione e informazione oggi sono il vero potere e toglierlo agli unici legittimi suoi detentori, la gente, ciascuna persona, significa già spegnere la democrazia e portare la società allo svuotamento e dunque al crollo. Per diffondere queste consapevolezze è necessario che tra chi se ne avvede si sviluppi una collaborazione reciproca. Chiudersi nei propri orticelli di corto respiro fa il gioco dei potenti e della tecnica. L’uomo in competizione con la macchina o ad essa complementare. L’individualismo generato dallo svuotamento della tecnica rischia di divenire l’artiglio che ricaccia l’uomo nella schiavitù anche quando si fa conscio di essere usato come un robot.
Scusi sig. Centofanti, ma questo suo commento cosa c’entra con l’articolo del prof. Grillo?