La via del Concilio di papa Francesco: abitare, celebrare e incontrare


Da molti anni una parte del dibattito teologico e liturgico è stato  pesantemente condizionato da una valutazione superficiale del  significato e della portata del Concilio Vaticano II e della “svolta” che ha rappresentato nella comprensione cristiana della Chiesa e del mondo: non bisogna dimenticare, infatti, che teologi di grande fama, come ad es. Gh. Lafont, hanno detto che il XXI Concilio ecumenico ha avuto, sotto il profilo del linguaggio e dello stile ecclesiale, un valore pari al Concilio di Nicea. E per questo non è un caso che il primo papa “pienamente figlio del Concilio” si segnali quotidianamente per una libertà di parola e di stile che può sorprendere solo chi valutasse questo papa soltanto con il metro della Chiesa medievale e moderna, e non con quel metro – unico giusto – elaborato da parte della Chiesa contemporanea e postconciliare.
Quando si parla di “approssimazione” nel valutare le parole del nuovo papa sembra che non si tenga conto di questa benedetta evoluzione, che ha già trovato forma e misura in Paolo VI, in Giovanni Paolo II e in Benedetto XVI, sia pure con modalità spesso solo embrionali, timide e talora anche contraddittorie: ciò è dovuto proprio al fatto che quelli erano “padri” o “periti” del Concilio, mentre Francesco è diventato pienamente cristiano, prete e gesuita nella Chiesa postconciliare.
Non si deve dimenticare, infatti, che Jorge Mario Bergoglio è un uomo argentino nato nel 1936 e ordinato prete solo nel 1969. La differenza da Benedetto XVI non è grande, quanto ad anni, ma del tutto decisiva quanto a ambiente di vita e contesto ecclesiale di formazione. Aver fatto il seminario negli anni 40 (come Ratzinger) o negli anni 60 (come Bergoglio), essere stato ordinato in Germania nel 1951 (all’età  di 24 anni) o in Argentina nel 1969 (all’età di  33 anni) crea una differenza di riferimenti ecclesiali, di sensibilità pastorale e di cultura teologica molto più grande e incisiva di quanto si possa pensare: una piccola differenza biografica di appena 9 anni diventa una vera e propria differenza “generazionale”. Papa Francesco appare, in tal modo, come il frutto di una generazione successiva a quella di J. Ratzinger, profondamente mutata, proprio dal Concilio Vaticano II, nel linguaggio e nelle priorità.  Se a questo uniamo la differenza  tra l’esperienza europea e quella sudamericana, dobbiamo riconoscere che non è possibile ridurre Francesco  a “tipico gesuita frutto del Concilio”. Se lo si fa, si è ingenerosi tanto verso il gesuita (e i gesuiti) quanto verso il Concilio (e la sua giusta ermeneutica).
Proprio qui, a mio avviso, si trova quel nodo che impedisce ad alcuni di cogliere il valore paradigmatico di papa Francesco come “figlio del Concilio”. Intendo dire come figlio legittimo e come figlio naturale, come figlio di diritto e come figlio di fatto, anche al di là delle intenzioni. Queste letture prevenute non usano mai l’immagine della “generazione”, ma piuttosto quella della “degenerazione” e impiegano l’aggettivo “conciliare” quasi come se fosse una colpa essere entrati nelle responsabilità  ecclesiali non vent’anni anni prima, ma vent’anni dopo. In queste analisi ci si aggrappa, di solito, a quelle che vengono ritenute  le “grandi attuazioni” del Concilio, ossia quelle di Giovanni Paolo II e di Benedetto XVI. Ma in queste forme di argomentazione “difensiva” si dipende troppo da riletture diffidenti e preoccupate del Concilio, che non a caso proprio nel tardo pontificato del primo papa e nel pieno del pontificato del secondo hanno trovato la loro espressione più sorprendente.
E tuttavia qui non si tocca ancora quello che a mio avviso risulta il punto decisivo, e che corrisponde ad un duplice “punto cieco” della storia recente. E cioè il fatto che il revisionismo conciliare sia cominciato con la fase finale del papato di Giovanni Paolo II – dove la malattia aveva profondamente minato la conduzione della Chiesa da parte di Karol Woytila -, e poi si sia concluso a sorpresa con la rinunzia al ministero petrino da parte di Benedetto XVI.  Quella ermeneutica del sospetto verso il Concilio è nata in un problematico vuoto di potere e si è compiuta lasciando a sua volta un nuovo vuoto di potere: ma questo secondo chiedeva ufficialmente e apertamente alla Chiesa un’autentica svolta, che non ha tardato a realizzarsi.
Vorrei fare tre esempi, che possono chiarire ulteriormente le diverse sensibilità di diverse generazioni di uomini di Chiesa. Come è noto, una buona parte del “nuovo magistero” di papa Francesco emerge da alcune “occasioni” che sono diventate esemplari del suo stile: la messa del mattino a S. Marta e le “udienze”  del mercoledì. In questi  casi la differenza tra “padri” e “figli” diventa assai notevole e non può non colpire. Essa riguarda l’abitare, il celebrare e l’ incontrare.
Anzitutto S. Marta come “abitazione” elettiva. Un papa che decide di non risiedere nel palazzo apostolico, ma che si stabilisce alla casa S. Marta, offre immediatamente una “simbolica” di sé del tutto impressionante. In qualche modo sceglie “la periferia del centro” e manda un messaggio anche nella forma molto singolare, perché molto “normale”, del proprio abitare. Il paragone sorge spontaneo con la insistenza con cui il suo predecessore aveva sempre espresso “il desiderio di una casa adeguata”, come si può chiaramente desumere dalla sua autobiografia – che comincia proprio, significativamente, dalla denuncia di una “disgrazia” subita fin da piccolo: di non aver potuto avere “fissa dimora” a causa di un padre “gendarme” che veniva continuamente trasferito. Abitare S. Marta è invece una scelta “periferica”, “transitoria”, “contingente” che nel nuovo papa indica non solo una “questione psichiatrica” (il fatto, cioè, di non potere e di non volere vivere da solo) ma anche una scelta di “stile ecclesiale”, di “scelta della povertà”, di rinuncia ad ogni segno del potere attribuito anche alla propria “dimora”.
Ma S. Marta non è solo un modo di “abitare”, è anche un modo di “celebrare”. Una parte non secondaria del “discorso di papa Francesco” emerge tutte le mattine, fresca come pane appena sfornato, dalla fucina liturgica di S. Marta, dove il papa concelebra quotidianamente e tiene sempre una breve omelia. Non con la propria curia, ma con coloro che si trovano a S. Marta. E ispirando la propria parola alla Parola ascoltata e alle persone incontrate. Ecco un secondo aspetto profondamente innovativo di questo papato: il papa figlio del Concilio applica spontaneamente due dei dettami fondamentali (e spesso dimenticati) del Concilio liturgico: concelebrare e tenere quotidianamente l’omelia, nel contesto di una comunità non elettiva, ma ministeriale. Rispetto alla scelta “privata” dei predecessori – che era prassi talmente radicata da sembrare naturale, ovvia e persino necessaria – questo modo di agire ritualmente è la attualizzazione del dettato conciliare proprio nel cuore della istituzione, portando al centro una esigenza finora evidente solo alla periferia.
Infine, le Udienze.  Anche nel modo di “incontrare” gli altri, la diversa generazione mostra bene le diverse priorità tra la documentazione previa e il desiderio dell’ascolto e dell’incontro. Consideriamo il resoconto che il fratello Georg ha fatto della “giornata tipo” di Benedetto XVI. La sintetizziamo qui sotto. E’ un esempio di uno stile papale e di un ordine delle priorità molto diverso da quello del successore.

Ogni mattina la sveglia sul comodino di Benedetto XVI suona attorno alle 6 per essere pronto alle 7 a celebrare la messa nella sua cappella privata. Vi assistono le Memores Domini, le consacrate laiche che si occupano della sua persona, e i due segretari personali. Se si trova a Roma don Georg Ratzinger non manca di seguirla. E’ un momento di intensa preghiera che si protrae fino alle 8. Il martedì, invece, prepara con attenzione l’udienza coi pellegrini del giorno dopo, scrive la catechesi e cura la pronuncia dei saluti che farà nelle altre lingue. «Egli ascolta la pronuncia corretta su un nastro e poi la ripete, in modo da evitare di fare grossi errori».

Questo resoconto appare come avvolto da un alone di “passato”: viene da un mondo che, fino poco meno di un anno fa, faceva della messa del mattino e dell’udienza del mercoledì una occasione di “devozione personale”  e un incontro per “essere ascoltati”, non per l’ascolto. Ciò che con papa Francesco è diventato scandalosamente evidente è che il papa, che pure si fa ascoltare (e quanto!), è anzitutto preoccupato di “mettersi in ascolto”: non si prepara anzitutto ad essere ascoltato, ma ad ascoltare, ad incontrare, a lasciarsi toccare. Può permettersi di pronunciare male le lingue straniere, ma non c’è straniero che non voglia incontrare e ascoltare. Nove anni di differenza biografica sono una inezia, ma una generazione di differenza nella formazione sono un passaggio tra mondi. L’elemento mediatore mi sembra il Concilio Vaticano II, di cui il primo è stato tra i padri, mentre il secondo è uno dei figli.
Nel 50^ del Concilio non poteva capitare alla Chiesa nulla di più significativo.

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