L’abisso e il comune amore: su “Salvare la fraternità – Insieme” (/4)


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L’ultima parte del testo è costituita da una “lettera aperta” i cui destinatari sono gli intellettuali esterni alla tradizione ecclesiale. Qui si nota, fin dalle prime righe, un approccio molto vigoroso: si chiede, con una supplica, agli intellettuali contemporanei

“di purificare la cultura dominante da ogni compiaciuta concessione agli
spiriti conformistici del relativismo e della demoralizzazione” (SF 19).

Per evitare un effetto di distorsione, credo sia bene precisare due punti: da un lato è Fratelli tutti il contesto della affermazione. Relativismo e demoralizzazione sono il prodotto di una ingiustizia della povertà e dello scarto. Dall’altro, però, si avverte come un “cono d’ombra” della lettura antimodernistica, che si manifesta ancor più in un passaggio di poco successivo:

“L’autoreferenzialità esasperata dell’individuo moderno, soggetto di un
desiderio che cerca realizzazione di sé nella separazione dall’altro, ha
contaminato le forme della comunità. Esse stesse stanno diventando
permeabili ad uno spirito della competizione ostile per il godimento dei
beni resi disponibili dalla natura e dalla cultura.” (SF 20)

Qui, inevitabilmente, si lascia spazio ad una visione che contrappone l’individuo moderno alle forme della vera comunità. Riemerge la possibilità di una lettura un pò contrapposta e con qualche traccia nostalgica. Curiosamente ciò che la parte più “interna” del discorso nega con grande efficacia, qui, nel dialogo “ad extra” sembra riemergere come un registro che permane. Non sarebbe stato azzardato aspettarsi qui, oltre alla giusta critica, anche una valorizzazione della “scoperta del soggetto”, della “coscienza storica”, del “pluralismo vitale”, che certamente non è assente nelle menti degli estensori, ma non appare nel testo.

Alla cultura si rimprovera di non avere quasi parole per quei milioni di uomini e donne che continuano a tener fede, con dignità, al compito del rispetto, della fiducia, della ospitalità e della generatività. E’ più facile isolare, dividere, contrapporre, sospettare.

La supplica si rivolge, così, ad un “atto di custodia”: che il “Nome di Dio” sia custodito da tutti. Che si possa tutto criticare, mettere sotto giudizio, smascherare, ma che si custodisca il Nome di Dio, che sul volto del prossimo risplende per tutti. Ritrovare questa comune origine e comune destinazione, che nell’amore del prossimo si fa visibile, implica una scoperta radicale, che viene espressa così:

O prima e dopo l’abisso qualcuno ci ama, o niente. Per nessuno” (SF 22)

Si arriva infine a due proposizioni conclusive, che riprendono il messaggio fondamentale, in tutta la sua ricca e convincente articolazione. Anzitutto la necessaria correlazione tra pensiero “laico” e pensiero “teologico”:

“Salvare la fraternità per rimanere umani. Senza l’apporto delle ragioni
umane del senso, sempre di nuovo cercate per prove ed errori, il pensiero
cristiano della fede non può realmente abitare la terra con l’onestà
intellettuale che la sua testimonianza dell’incarnazione di Dio esige.
La teologia deve a sua volta accettare di fronteggiare criticamente le
perversioni del sacro, per prove ed errori, in modo che non godano
della complicità della fede” (SF 23)

La critica esercitata dalle “ragioni umane” e la autocritica che la teologia deve assumere circa le “perversioni del sacro” diventa un compito decisivo per “salvare la fraternità”. Qui, come è evidente, si delinea un compito comune e una sorta di alleanza tra sapere civile e sapere ecclesiale. Ma non basta.

“Dopo aver passato qualche secolo a imporre alle coscienze la necessità della loro reciproca estraniazione, per puro assoggettamento alle discipline di partito, siamo convinti che è venuto il momento di sperimentare la libertà della loro empatica frequentazione, in vista di nuove politiche dello spirito. Disposti alla sublime sprezzatura di tutti gli apparati religiosi e secolari che, nelle guerre fratricide – delle religioni e contro la religione – hanno campato fin troppo, a spese nostre e dei nostri figli.” (SF 23)

Superare le forme di “reciproca estraniazione” tra ragione e fede, tra coscienza libera e coscienza credente, diventa il metodo perché una “empatica frequentazione”, che implica una intensa e diffusa conoscenza interessata e vicendevole, metta in campo tutte le risorse disponibili al servizio della fraternità tra diversi.

Per concludere

Se volessimo riprendere il senso di questo bel documento, potremmo dire così: a 60 anni dal Concilio Vaticano II, con tutto quello che è accaduto dentro e fuori della Chiesa, la sollecitazione che viene da papa Francesco, in particolare dal suo testo Fratelli tutti, suona contemporaneamente “da dentro” e “da fuori” della tradizione ecclesiale: perché è arrivato a Roma, ma “dalla fine del mondo”. Perché lavora nel Palazzo Apostolico, ma vive fuori, in albergo. Perché dopo una sterminata serie di papi europei, è il primo che viene dalla geografia, dalla storia e dalla cultura extra-europea. Con tutte queste dinamiche estraneità, Francesco ci fa sentire la urgenza di un cambio di paradigma, che metta da parte le “guerre di posizione” in cui, da quasi due secoli, eravamo divenuti maestri, come teologi e come intellettuali. I figli ci chiedono di smetterla. E il primo papa “figlio del Concilio”, appunto come un figlio, ha cambiato domanda, prospettiva, argomentazioni e passo. E ci chiede di non cadere nelle trappole che noi avevamo costruito “per i nemici” e nelle quali oggi finiamo per cadere più facilmente noi stessi. Il liberalismo, con le sue ombre, ma anche con le sue luci, non è “il principio antidogmatico”. Il dogma, con le sue luci, ma anche con le sue ombre, non è “oscurantismo fuori tempo”. La fratellanza – che nella sua inevidenza funziona quasi come un dogma (il Figlio di Dio è figlio di Maria, nostro fratello) – mostra che la libertà e la eguaglianza presuppongono la comunità e che la comunità è legittima solo se produce vera libertà e apre pari opportunità per tutti. Salvare la fraternità e la comunità significa che “liberi e uguali” non è né l’inferno garantito, né il paradiso chiavi in mano. Una mediazione fraterna della società passa per una nuova fraternità culturale, che si costruisce senza scomuniche reciproche e senza irenismi formali. La “materia del mondo” chiede spiriti liberi, ossia obbedienti al servizio di una intelligenza del reale.  Questo servizio possiamo farlo solo se lo faremo insieme. Tutti e tutte interessati/e a valorizzare le differenze benedette di cui vive una comunità veramente fraterna.

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