L’abito nuziale
XXVIII DOMENICA DEL TEMPO ORDNARIO – A
Is 25,6-10 Sal 22 Fil 4,12-14.19-20 Mt 22,1-14
Introduzione
In questa domenica la prima lettura tratta dal libro del profeta Isaia ci introduce alla lettura del Vangelo nella quale troviamo l’ultima dalle tre parabole che Gesù pronuncia nel suo ministero a Gerusalemme. In Isaia – siamo nella grande Apocalisse di Isaia (Is 24,1-27,13) – viene annunciata una visone di salvezza che riprende l’immagine del banchetto escatologico, sulla scia del pellegrinaggio dei popoli a Gerusalemme (Is 2). Altre immagini segnano il testo: il velo che viene tolto dal volto dei popoli (segno di lutto e di non conoscenza), la morte che viene spogliata per sempre, le lacrime che vengono asciugate su ogni volto. È una visione apocalittica, molto forte e intensa. Siamo di fronte ad un annuncio di vita e di risurrezione.
Nella seconda lettura (Fil 4,12-14.19-20), nelle parole che Paolo rivolge ai filippesi a conclusione della sua lettera, emerge ancora una volta il particolare legame di affetto che lega l’apostolo a questa comunità. In particolare, è il segno di sostegno che la comunità ha avuto nei confronti di Paolo inviandogli degli aiuti. Da una parte Paolo continua a testimoniare la gratuità del Vangelo, dall’altra la comunità si fa attiva collaboratrice dell’opera di evangelizzazione, accoglie con responsabilità la chiamata di Dio e il suo dono.
Commento
Liturgia ci invita a leggere il brano evangelico di oggi nella prospettiva indicata dal testo di Isaia. Siamo durante il ministero di Gesù a Gerusalemme dove, nel racconto di Matteo, emerge in modo abbastanza forte la tensione con i capi religiosi del tempo. Tuttavia, non potremmo comprendere questo testo senza aver presente che l’Evangelista non scrive certo per i capi, ma scrive per la sua comunità formata da giudei divenuti discepoli di Gesù e che hanno riconosciuto in lui il Messia. Matteo scrive ad ebrei che hanno accolto il messaggio di Gesù, non scrive a pagani: il suo messaggio va quindi compreso tenendo ben presente questo fatto. I destinatari del brano sono i membri della comunità, non coloro con i quali la comunità è in polemica. Questo è un aspetto importante per comprendere che oggi questo testo si rivolge a noi, che siamo, come i destinatari di Matteo, discepoli di Gesù. Il testo ci invita a non puntare il dito sugli altri che non hanno accolto, ma a meditare sull’autenticità della nostra adesione al Vangelo.
L’immagine del matrimonio che sta sullo sfondo indica che siamo in un momento cruciale della storia della salvezza: il matrimonio, attraverso Gesù il Figlio, con Israele e, si scoprirà, con l’intera umanità. È una immagine molto nota nella Scrittura. Difficilmente si riferisce al Messia, ma riguarda generalmente la relazione tra Dio e Israele. Attraverso Gesù, il Figlio, è il matrimonio di Dio con il suo popolo e con l’umanità che si realizza. Non dobbiamo cercare una corrispondenza precisa di tutti gli elementi che compongono la parabola.
Lo sfondo è quello di una festa di nozze: si parla quindi di un evento di salvezza, proprio come quello di cui parla la visione di Isaia nella prima lettura. Non perdiamo mai di vista questo aspetto: Dio ha predisposto una festa alla quale ha invitato tutti, sia quelli che accoglieranno sia quelli che rifiuteranno il suo invito. Tuttavia, la conclusione della parabola ci dice ciò a cui punta l’evangelista: egli vuole mettere in guardia, soprattutto coloro che hanno accolto l’invito, circa il rischio di sentirsi a posto e superiori agli altri, proprio perché invitati al banchetto di nozze.
La parabola, infatti, è costruita su tre cerchi concentrici: i primi invitati ai quali il re manda i suoi servi ripetutamente (cf. la conclusione del Secondo Libro delle Cronache: 36,15-16); i secondi invitati che il re manda a chiamare dopo il rifiuto dei primi; infine, l’ultimo cerchio della parabola è costituito da quell’invitato che si è presentato senza abito nuziale. I primi invitati sono quelli che è normale invitare ad una festa per le nozze del proprio figlio, quelli che, per parentela, amicizia, rapporti di lavoro non si possono non invitare. Probabilmente nel contesto del racconto della parabola sono i dignitari del regno, mentre nella trasposizione alla realtà sarebbero le persone più religiose del tempo e di ogni tempo. Queste persone danno per scontato il loro diritto ad essere invitate. La gesta per loro non è una sorpresa, una novità, ma qualche cosa di scontato. Sono gli uomini e le donne religiose che rischiano di non riconoscere la novità di Dio, il tempo della festa quando si presenta. È interessante che il rifiuto di quelli invitati per primi, di fronte all’invito alla festa, venga giustificato con la necessità di sbrigare i propri impegni, le loro occupazioni individuali: anche la religiosità può diventare una copertura per fare in realtà i propri affari. I secondi sono chiamati senza nessun merito e senza che abbiano nessun diritto da rivendicare: sono «buoni e cattivi» (Mt 22,10). Nella realtà a cui pensa Matteo potrebbero essere i membri della sua comunità che forse non provengono tutti dalle fila del giudaismo più osservante, come quello dei farisei. Probabilmente molti membri della comunità di Matteo sono quei peccatori che, come è accaduto durante il ministero di Gesù, si sono sentiti liberati e rialzati dalla parola del vangelo. Forse Matteo pensa già anche ai pagani che hanno aderito al vangelo. Infine, abbiamo chi accoglie l’invito, ma si presenta senza abito nuziale. L’abito nella Bibbia indica la dignità. Già nella Genesi Dio non sopporta la nudità dell’uomo e lo riveste di tuniche fatte di pelli (Gn 3,21). Pensiamo anche alla veste che Giacobbe dona al suo figlio prediletto Giuseppe o all’abito lungo che il Padre della parabola di Luca ordina ai servi di riconsegnare al figlio tornato nella sua casa. Nella realtà a cui pensa Matteo quest’uomo senza abito nuziale, senza l’abito della festa rappresenta colui che ha sì accolto l’invito e l’annuncio del vangelo, ma poi non ne ha tratto tutte le conseguenze e non è in grado di partecipare alla festa. Chi è senza abito da festa è colui che non sa partecipare alla festa del vangelo, pur facendo parte «ufficialmente» della comunità. In fondo è proprio su questo personaggio singolo che la narrazione della parabola vuole portare l’attenzione, in primo luogo, dei membri della comunità di Matteo, ma poi del lettore di ogni tempo. È significativo che quest’uomo senza l’abito della festa sia un singolo, mentre per i due casi precedenti si parli di gruppi. In questo modo Matteo indica che non è sufficiente una adesione collettiva, l’appartenenza ad un gruppo, ma occorre sempre una adesione anche personale da rinnovare ogni giorno. Si tratta di un monito a non accontentarsi delle appartenenze formali, ma a discernere ogni giorno la qualità della nostra adesione al vangelo. Non basta essere battezzati per dirsi cristiani, ma occorre saper partecipare alla festa del vangelo, alla festa di nozze che Dio ha preparato per tutti. In questa linea va anche letta la conclusione della parabola, che altrimenti potrebbe risultare difficilmente comprensibile e che potremmo rendere liberamente così: «tutti [oi polloi, cioè tutto il popolo] sono chiamati, ma di questi non tutti eletti».
L’insistenza di Dio è un’altra caratteristica del brano evangelico. È un tratto che abbiamo già trovato nella parabola dei vignaioli (Mt 21-33-45). Dio non si rassegna davanti al rifiuto dell’uomo e della donna. Egli manda con insistenza i suoi servi, continua ad invitare per poter celebrare la festa di nozze. Anche questo è un aspetto importante del brano che ci rivela il volto di un Dio che non si rassegna davanti al nostro rifiuto, ma desidera ardentemente che noi entriamo alla sua festa e che ci entriamo con l’abito nuziale.
Conclusione
Tutti come cristiani abbiamo iniziata la nostra «vita nuova» di discepoli di Gesù indossando un abito nuovo e candido… la veste di cui siamo stati rivestiti nel battesimo. Siamo diventati creature nuove – come dice il rito – perché ci siamo rivestiti di Cristo. Sono le stesse parole che Paolo rivolge ai Galati: «quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3, 27). Quest’abito della festa è «un impegno», va portato senza macchia. L’adesione al vangelo non può quindi essere una garanzia che ci permette di continuare a svolgere indisturbati le nostre faccende. Occorre rimanere sempre capaci di partecipare alla festa di Dio.
Matteo Ferrai, monaco di Camaldoli
Le chiavi di lettura di un brano evangelico possono essere molte. Eccone una. Gli invitati alla festa di nozze sono presi dai propri interessi e progetti. Quando questi piani falliscono si ritrovano poveri, a mendicare aiuto ai crocicchi della strade. In quello stato di bisogno cattivi e buoni possono più facilmente rispondere all’invito. Come mai poi si dice che l’abito nuziale non lo aveva un cattivo? Non ha appena narrato il brano appunto che tra gli invitati vi erano anche dei cattivi? Non è paradossalmente proprio del salvarsi da soli che parla il brano? L’uomo tiene il proprio vestito invece che l’abito che il padrone di casa offriva agli invitati.
Una lettura dell’attualità alla luce del commento sopra. La ragione astratta, una falsamente neutrale tecnica stanno svuotando l’umanità sottoponendola alle manipolazioni e alla schiavizzazione di pochi potenti. Si cercano soluzioni meramente tecniche per ogni cosa. Il mondo sembra andare verso il crollo. Necessità un salto di qualità, l’apertura fin dalla scuola alla Luce di una vissuta ricerca personale. Allora le persone saranno libere di maturare, di condividere, di partecipare. Potrà svilupparsi un’autentica democrazia.
Antidoti al drammatico incombere della dittatura
Ottobre 9, 2020 / gpcentofanti
Stiamo entrando in un periodo per molti aspetti drammatico nel quale un sistema di pochi veri potenti e molti più o meno prestigiosi fantocci di apparato possono dominare il mondo prima di tutto tranne la manipolazione e lo svuotamento delle persone. Si è scatenata una strana pandemia, con paesi curiosamente quasi immuni, che gioca singolarmente a favore della finanza e dei dominatori di internet. Quelli insomma che paiono avere in mano le sorti di larga parte del mondo.
Bisogna cercare ogni valida strada per impedire che tanta gente venga ridotta a meri individui consumatori persi in una massa anonima. Si potrebbe da parte di potenti forzare la digitalizzazione distruggendo tante piccole imprese, schiacciando le libere professioni, annullando le famiglie, i luoghi di incontro come le parrocchie.
Il potere diventa sempre più protervamente decisore di cosa si può legalmente sostenere o meno, oltre all’ostacolare gravemente la sopravvivenza nei decisivi campi della formazione e dell’informazione a chi la pensa diversamente. Un apparato che ha portato a tale sfacelo rivendica senza possibili repliche competenze che il popolo (del quale tra l’altro sono parte persone preparatissime, molto più di tanti suddetti pupazzi) non avrebbe non potendo dunque permettersi di obiettare alla falsamente oggettiva scienza del primo.
Tra le forse possibili vie di liberazione si può prendere in considerazione quella di sfruttare la digitalizzazione per sviluppare tramite le famiglie la scuola delle identità e dello scambio tra di esse. Una scuola nella quale gli alunni possano scegliere di venire formati alla luce della identità liberamente da essi cercata e nella condivisione con le altre. Passando dunque dalle astrazioni falsamente neutrali del razionalismo alla maturazione in una ricerca vissuta e partecipata. Base di un’autentica democrazia.
Le famiglie potrebbero venire sempre più coinvolte in tale educazione divenendo anche elementi consistenti di una pure decisiva rete informativa dal basso. Anche con il contributo di tante realtà alternative, fonti di una cultura diversa, come per esempio il Popolo della Famiglia. È necessario riflettere, dialogare, muoversi, con decisione perché la dittatura incombe.
È di questi giorni la notizia che, per esempio, la Conferenza Episcopale Spagnola, ha sottolineato in sostanza che la solidarietà è valida se nasce da una vissuta ricerca identitaria e dallo scambio con le altre identità e non si configura dunque come un pensiero unico omologante e spegnente.