L’autorità della donna: su uno scritto di Marinella Perroni


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In un lungo articolo pubblicato su “La Lettura” del “Corriere della Sera” del 6 marzo, con il titolo “La figlia di Dio”, Marinella Perroni dà seguito al dibattito al quale abbiamo fatto riferimento qualche tempo fa (qui). Alcuni aspetti di questo testo meritano di essere sottolineati. Anzitutto la testimonianza di un grande mutamento: dopo il Concilio Vaticano II anche le donne hanno potuto studiare teologia in modo professionale. Questa “rivoluzione silenziosa” ha permesso ad alcune donne di acquisire una autorità teologica nella chiesa cattolica e di entrare così nel percorso di “declericalizzazione” di cui la Chiesa sentiva il bisogno già negli anni 60 e 70 del secolo scorso. Allora l’obiettivo della formazione teologica femminile era questo cammino culturale, più che il ministero ecclesiale. D’altra parte è vero che la elaborazione di una “teoria del sacerdozio” che escludesse esplicitamente le donne non era semplice, già allora: il percorso che portò Papa Paolo VI a commissionare uno studio alla Commissione Biblica, che poi venne segretato e che è stato pubblicato solo nel 2015 dalla Rivista “il Regno”, dal quale si desume la impossibilità di escludere la donna dal ministero sulla base del testo biblico, appare a Perroni una vicenda singolarmente esplicita nel far trasparire, fin da allora, gli imbarazzi che avrebbero caratterizzato stabilmente il tema nei decenni seguenti.

La esclusione della donna da “ogni servizio all’altare” sarebbe rimasta anche nei tre successivi pontefici, a conferma di quanto previsto dal Codice di Diritto Canonico del 1917, ribadito nel 1983. Gli argomenti che i documenti utilizzano per confermare questa esclusione sono molto fragili e oscillano tra “dati positivi” (assai generici) e prassi tradizionali (con motivazioni però assai precarie). In sostanza le scelte che la storia ha compiuto sono dovute a necessità apologetiche e missionarie che non restano sempre le medesime. La gerarchia tra i sessi non è un dato originario, ma una costruzione storica, con le sue giustificazioni di circostanza, ma con una sua evidenza contingente e non strutturale.

Nel 1994 con Ordinatio sacerdotalis Giovanni Paolo II ha ritenuto di dichiarare che la Chiesa non ha la facoltà di conferire alle donne la ordinazione sacerdotale, in una forma, però, che non può essere definita assolutamente irreformabile. Però è chiaro come l’irrigidimento successivo alla fine degli anni 90 avvenga soltanto sul piano disciplinare e non sul piano della argomentazione, che resta singolarmente vuota: la Chiesa rivendica il dovere di riconoscere di non avere la facoltà di cambiare il proprio assetto ministeriale in rapporto al sesso del ministro. Ma la argomentazione di questo “impedimento” è come se passasse dalla donna alla Chiesa. Non è più “impedimentum sexus”, ma “impedimentum ecclesiae”. Questa trasformazione è assai significativa sul piano sistematico e della argomentazione, e segnala una evoluzione importante.

Tanto è vero che,  di recente, sul piano dei “ministeri istituiti”, papa Francesco, con un “passo di lato” come lo chiama Perroni, ha ammesso le donne al lettorato e all’accolitato. Questo provvedimento, il cui impatto potrebbe essere giudicato o troppo banale o troppo impegnativo, segna tuttavia un passaggio decisivo sul piano della rilevanza dell'”impedimentum sexus”. Se cade la riserva maschile per i gradi più bassi del ministero ecclesiale, significa che cade la argomentazione per cui le donne non possono servire in termini di esercizio pubblico della autorità. Questa è una traformazione sistematicamente molto rilevante. Alla quale si accompagna un disagio pastorale che in alcune regioni ecclesiali prende le vie di fatto: è sufficiente pensare alla domanda di diaconato femminile, che viene dalla Amazzonia, ma che è anche oggetto di studio da parte di una Commissione pontificia, fino alle richieste che salgono dal Sinodo della Chiesa tedesca.

Anche l’immaginario ecclesiale, tuttavia, sembra ancora legato a forme di “spiritualizzazione della gerarchia sessuale” che hanno trovato nella elaborazione di grandi teologi una base di convincimento che non sembra capace di superare il pregiudizio. La teologia di Von Balthasar del “principio mariano e petrino” appare come una sorta di sublimazione intellettuale di un pregiudizio. E risulta tanto avvicente e ben congeniata, quanto incapace di uscire da una idea della gerarchia sessuale, che pretende di trovare nelle fonti, ma che è solo il riflesso del soggetto che le legge. E’ in sostanza un modo, assai raffinato, per non lasciarsi provocare dai “segni dei tempi”, che Giovanni XXIII ha identificato con grande lucidità, già nel 1963, in quanto luoghi di “apprendimento ecclesiale”. Come segnala giustamente Perroni, fin dall’inizio del suo articolo, la scoperta della donna “nello spazio pubblico” mette in crisi tutte quelle forme ecclesiali che, pur con finezza, vogliono restare alla distinzione: maschio in pubblico, donna in privato. Il mondo nuovo scopre che questo è, in larga parte, un equivoco, al quale strizza l’occhio anche la distinzione tra principio mariano (privato) e principio petrino (pubblico).

La dignità della donna non sopporta gerarchie tra i sessi da proiettare sulla Scrittura e sulla Tradizione. Questo principio, chiarissimo nel 1963, ha iniziato a lavorare nel corpo mastodontico della tradizione cattolica. Che lo recepisce in modo non lineare. Una delle condizioni di questa recezione è che delle donne siano anzitutto le donne a parlare. La crescita di un “coordinamento” anche in Italia di discorsi cristiani e cattolici che hanno le donne come soggetto è una bella e recente realtà, che in qualche modo risponde nel modo più giusto e più efficace alle parole di Giovanni XXIII.  Così accade che proprio a livello accademico la chiesa cattolica abbia superato almeno formalmente quei pregiudizi che in altri settori continuano ad essere condivisi e sostenuti. Forse proprio la caduta della riserva maschile per la attribuzione dei “ministeri istituiti” potrebbe diventare il precedente per un ripensamento strutturale della relazione tra ministero e sesso, che faccia in conti con una tradizione millenaria, dalla quale si possono sempre trarre cose antiche e cose nuove.  E la lettura che le donne sanno fare di una tradizione prevalentemente scritta da uomini riserva, inevitabilmente, più di una salutare sorpresa.

 

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