L’autorità ecclesiale, tra battesimo, ordine e giurisdizione
Dopo la nomina di Simona Brambilla a Prefetto del Dicastero per la vita consacrata, contestuale alla nomina parallela di un Pro-Prefetto del medesimo Dicastero, nella persona del Cardinale Angel Fernàndez Artime, si è aperto un notevole dibattito intorno alla legittimità e alla opportunità non tanto della nomina, quanto della forma giuridica e istituzionale con cui è stata giustificata. Alcuni interventi, parzialmente anche in dialogo con i miei post precedenti, si sono rivelati di un certo interesse. Alle parole di Zeno Carra, apparse su questo blog, sono seguite quelle della canonista Donata Horak e del canonista Rosario Vitale.
Mi sembra giusto e opportuno entrare in dialogo con ciascuno di questi interventi, perché aiutano a comprendere meglio la importanza del fenomeno annunciato il 6 gennaio e anche a chiarire in quale senso resta legittimo sollevare alcune obiezioni non sul fatto, quanto sul diritto.
Inizio considerando le parole di Zeno Carra, che propongono di leggere la “separazione tra ordine e giurisdizione” in modo non negativo, ma come una possibilità di sviluppo del sistema canonico ed ecclesiale. Addirittura, proprio la separazione della giurisdizione dalla ordinazione potrebbe, secondo Carra, aprire itinerari di valorizzazione di una autorità non solo dall’alto, ma anche dal basso. In più, e con una bella forza profetica, Carra ipotizza che la logica dello “scorporo” delle diverse potestà (di governo, di parola e di santificazione) potrebbero creare lo spazio di una profezia non legata alla ordinazione o anche di una presidenza eucaristica o penitenziale autonoma rispetto alla ordinazione presbiterale e episcopale. Tutto questo mi pare molto apprezzabile, e può certo trovare un precedente rilevante nelle nomine apicali di soggetti maschili o femminili non ordinati. Tuttavia, questa ipotesi non mi pare che sia in linea con le giustificazioni formali e ufficiali, che sembrano ammettere lo scorporo soltanto della giurisdizione, in forma delegata, attribuendo la potestas comunque sempre al papa. Sebbene il quadro evocato da Carra non sia semplicemente illusorio, non si muove affatto nella direzione con cui si argomenta che i laici (e tra loro le donne) non hanno bisogno della ordinazione per avere potere. Qui mi pare che la operazione, se non tematizza la ordinazione, resti più regressiva che progressiva, più una scappatoia che una soluzione.
Forse proprio per questo motivo i canonisti che sono intervenuti, sia pure con argomenti tra loro diversi, sembrano poco sensibili al richiamo con cui Gh. Lafont, nei suoi ultimi testi, considerava la riunificazione di ordine e giurisdizione nell’episcopato come l’evento forse più rilevante di tutto il Concilio Vaticano II. Se questo principio viene considerato, ed è difficile negarlo, per quanto si possano avvertire i limiti della sua recezione postconciliare, non mi sembra che ci sia lo spazio per arrivare addirittura a negarlo o a considerarlo come irrilevante o marginale.
Sicuramente non pensa così Donata Horak, quando rimanda al fondamento battesimale la ragione per cui la nomina di un Prefetto donna non ha nulla di diverso, giustamente, dalla nomina di un prefetto uomo, ma non ordinato. Ma ci si dovrebbe chiedere: perché il Prefetto uomo non ordinato non ha bisogno di essere affiancato da un Pro-Prefetto ordinato, e invece la donna sì? Il fondamento battesimale è certo decisivo, ma una giurisdizione (governo) che non trovi, almeno in potenza, la possibilità di coincidere con la potestà di parola (magistero) e la potestà di santificazione (sacerdozio) non è forse più esposta a quel rischio di funzionalizzazione che si vorrebbe evitare o negare? In altri termini, siamo sicuri che la deriva clericale scaturisca dalla ordinazione sovrapposta alla giurisdizione, piuttosto che dall’isolamento del potere giuridico dalla parola profetica e dal sacramento celebrato?
Capisco bene la importanza di un “immaginario ecclesiale” in cui i vertici possono essere abitati, gestiti e interpretati anche dalle donne. Il fatto crea cultura, pone precedenti e aiuta ad aprire gli occhi e le menti a nuove possibilità. Ma abbiamo bisogno anche di parole. In tal senso le argomentazioni dei due canonisti sono molto diverse. Da un lato Donata Horak fonda la possibilità di questa nomina semplicemente sul munus regendi battesimale. Ma non si nasconde che la nomina abbia bisogno della missio canonica e che tragga da essa la sua autorità decisiva. Il fatto però che la nomina sia stata accompagnata dalla parallela nomina di un Pro-Prefetto non può essere messo sotto silenzio: questo non indica, forse, il permanere di una forma di “incapacità” che né il munus regendi battesimale né la missio canonica riescono del tutto a superare? E’ difficile non ammettere che quell’ordinamento giuridico, che giustamente non è mai una idea chiara e distinta, trovi proprio qui un passaggio particolarmente magmatico e difficile da decifrare.
D’altra parte, a sostegno di una certa perplessità argomentativa del provvedimento, non mi sorprende che un altro studioso di diritto canonico, come Rosario Vitale, nel suo testo mostri una soluzione molto simile a quella di Donata Horak («nulla di strano»), ma con ben altre argomentazioni. Il fatto che non ci sia nulla di sorprendente non deriva, come in Horak, da una forte valorizzazione dei tria munera battesimali, ma dalla efficacia immediata della autorità papale. Leggendo il testo di Vitale, mi sono chiesto: sta parlando del Papa o del Re Sole? L’assorbimento di ogni altra autorità nella autorità papale sembra generare una sorta di vertigine in cui ogni soggetto non è altro che funzionario del papa e solo nella autorità papale può trovare il fondamento della propria autorità. La lettura è talmente monarchica, che ogni presidenza, in quanto vicaria, è in realtà presidenza papale. Non ci sono dubbi, perché tutto è giustificato e coperto dalla potestas del romano pontefice. Ma sono portato a chiedermi: il papa vive la sua autorità di governo in relazione alla ordinazione episcopale, all’ascolto della Parola, all’atto di culto e di santificazione o no? Come vescovo di Roma è riducibile al ruolo di governo? Credo sia molto interessante osservare come i canonisti, per interpretare questo sviluppo rilevante, possono certamente negare ogni confusione, ma tra loro non sono affatto d’accordo. Questo invita il discorso istituzionale a confrontarsi a fondo con il profilo sacramentale e profetico della autorità, che non si può facilmente separare dalla potestas regiminis. Quello che Horak chiama la faticosa traduzione del Concilio Vaticano II sul piano giuridico, cosa che resta tanto delicata ed urgente, chiede non tanto di normalizzare la nomina della prima donna Prefetto, quanto di eliminare gradualmente quegli equivoci che per giustificare il nuovo riabilitano veri e propri scheletri nell’armadio. Il non detto di questa nomina a me pare il fatto che si tenti di avvalorare, mediante un sovraccarico della potestas iurisdictionis, la pretesa di ribadire la incapacità femminile alla ordinazione. Per quanto lo si taccia, mi sembra che resti questo il vulnus cui non sa rimediare né la sacrosanta radice battesimale che anima parimenti i soggetti maschili e femminili, né la efficacia infallibile della missio canonica di cui vengono solennemente investiti gli uni come le altre. Una donna dotata, in sé e per sé, di autorità ecclesiale inizia comunque a presentarsi alla vista, ad assumere una identità, a farsi spazio e a darsi un certo profilo istituzionale, per quanto ancora per speculum et in aenigmate.