Le due immoralità. Sui compiti del Dicastero per la dottrina della fede


Una lettera che accompagna la nomina di un nuovo Prefetto è già un fatto singolare. Se poi nella lettera il Vescovo di Roma esprime giudizi molto netti sui limiti di una gestione “censoria” del Dicastero e chiede di inagurare un altro stile, allora molte cose sono destinate a cambiare. Ha colpito molto una frase della lettera, che riporto subito

“Il Dicastero che presiederai in altri tempi ha usato metodi immorali. Erano tempi in cui più che promuovere il sapere teologico si perseguivano possibili errori dottrinali. Quello che mi aspetto da voi è sicuramente qualcosa di molto diverso.”

Vorrei brevemente considerare come questa frase arrivi da decenni in cui la migliore teologia postconciliare aveva chiesto di modificare profondamente il modo con cui prima il Santo Ufficio, e poi la Congregazione per la dottrina della fede, hanno svolto il compito di “custodire la fede”. Per molti secoli, a partire dall’età moderna, ogni stato si era dotato di un organo di controllo del sapere. Non solo la Chiesa aveva un Santo Ufficio. Ma con l’avvento del mondo tardo moderno e con il nascere della società liberale e aperta, in tutti gli stati è scomparso sia l’Indice dei libri proibiti, sia l’organo di custodia del sapere corretto. Solo la Chiesa lo ha conservato fino ad oggi. Dietro a questi organi di governo sta l’idea che la “libertà di coscienza” sia un peccato. Dopo il Vaticano II ci si è mossi lentamente verso una revisione, che attribuisse, almeno formalmente, al processo di censura una procedura almeno parzialmente controllabile, con garanzia di difesa per le parti inquisite. Ma, appunto, in larga parte si trattava di procedimenti inquisitori, alla ricerca degli errori e dei nemici. Più difficile è stato incidere sul modo di “fare teologia” da parte della Congregazione. Proprio qui, come vedremo, si nasconde la immoralità più grave.

In tutta questa storia, infatti, è evidente che la “immoralità” ha significato, in primo luogo, il modo con cui sono state trattate le persone. Grandi autori sono stati inquisiti, bloccati, impediti nelle pubblicazioni e nell’insegnamento. In forma terribile fino al Vaticano II, ma ancora pesante e con argomentazioni fragili o capziose fino a 5 giorni fa, con la vicenda Lintner.

Ma questa è solo una parte della verità. La parte forse più grave non riguarda le singole persone, che pure hanno sofferto ingiustamente, ma le idee, per come sono state trattate, considerate, ignorate o azzerate. Uno degli atteggiamenti più “immorali” degli ultimi 40 anni della Congregazione-Dicastero sono quelli che hanno tentato di “bloccare” ogni vera discussione. Dove vi era un problema, si trattava di negarlo e di riportare la soluzione su un livello tanto inattaccabile, quanto vuoto. Facciamo solo alcuni esempi.

In piena pandemia (2020), una sezione della Congregazione per la Dottrina della fede perdeva tempo ad “riformare” il rito di Pio V, avvalorando così indirettamente la coesistenza parallela di due forme rituali dello stesso rito romano, contro ogni evidenza teologica, che la Congregazione avrebbe dovuto ben diversamente custodire. In occasione del 50^ del Concilio Vaticano II, nel 2012, una Nota della Congregazione pretendeva di cambiare discorso e di suggerire che un anniversario altrettanto importante fossero il 20 anni del Catechismo della Chiesa Cattolica, mediante il quale si poteva/doveva leggere anche il Concilio! Ancora prima una Nota della Congregazione risolveva negativamente la possibile estensione al diacono della ministerialità della unzione dei malati, ricorrendo ad una citazione della famosa lettera di papa Innocenzo I al vescovo di Gubbio, eliminando però da essa tutte le parole che avrebbero contrastato la decisione assunta. Si trattava, insomma, di “negare ogni movimento”, sul piano liturgico, sacramentale, istituzionale, arrivando persino al punto di mettere in gioco l’obbedienza alla fede, pur di conservare le soluzioni del passato senza alcuna possibilità di cambiamento, che si presentava sempre come minaccia per la fede. Questa procedura immorale era ritenuta un dovere, un compito morale.

Tale funzione indebita, assunta dalla Congregazione soprattutto dopo il Concilio Vaticano II, doveva finire da tempo. Perché custodire la fede significa appunto, come ha insegnato il Vaticano II, farla camminare nella storia, farle elaborare nuove evidenze, permetterle di integrare nuove culture e di esprimere nuove sensibilità. Una Congregazione che si era abituata a giudicare tutto con il prontuario del CCC forse è finita con la lettera di ieri. Abbiamo bisogno da decenni di una istituzione che permetta la crescita della fede, nel dialogo piuttosto che nella censura. Da secoli abbiamo contato su un esercizio della ragione teologica che si è limitato a “condannare gli errori” e che in questo trovava la sua ragion d’essere: perciò non sarà facile acquisire subito un nuovo stile. Già al Concilio Vaticano I l’idea era di comporre una “summa degli errori moderni”, ma il lavoro conciliare, ancora nel 1870, in parte iniziò una strada nuova. Poi venne il Vaticano II, che ampliò e articolò ancora meglio la novità. La inerzia del Santo Ufficio è stata quella di perpetuare una identità cattolica che può salvarsi solo se condanna gli errori. Al nuovo Prefetto spetta “promuovere il sapere teologico”, cosa che non si identifica anzitutto ed essenzialmente con atti di condanna. Il nuovo Prefetto e un nuovo stile possono far tesoro del prezioso lavoro che una parte della teologia, spesso in autonomia rispetto ai desiderata (e talora ai ricatti) provenienti da Roma, ha saputo elaborare da almeno 40 anni. Immorale non è stato solo il modo con cui si sono trattate le persone, ma anche il modo con cui ci si è chiusi a riccio davanti alle tante nuove evidenze che la vita ecclesiale scopriva e in parte valorizzava. Superare entrambe queste due immoralità istituzionali (verso le persone e verso le idee) costituisce un programma di riforma davvero centrale per la chiesa cattolica.

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