Dibattito sul diaconato femminile (/2): le “intenzioni del Vaticano II” e il diaconato femminile: K.-H. Menke e la paralisi della tradizione


 ministerodonne

Già quando ho presentato le mie riserve sulla intervista rilasciata dal prof. Menke a “Die Welt”, nei giorni scorsi, segnalavo che nel 2013 egli aveva scritto un lungo e documentato articolo sul tema del “diaconato femminile” con il titolo: Die triadische Struktur des Ordo und die Frage nach einem Diakonat der Frau, in:Theologie und Philosophie” 88 (2013) 340-371. (La struttura triadica dell’Ordine e la questione del diaconato femminile) e mi riservavo di commentarlo a suo tempo.

Vorrei ora qui discutere la sua tesi di fondo, che è una tesi “speculativa”, ossia sistematica, anche se alimentata da una grande dovizia di dati storici. Il testo è in effetti corredato da una mole imponenente di “note” (ben 123), molte delle quali sono ricche di rimandi bibliografici e di discussioni con altri autori intervenuti sullo stesso tema.

Non pretendo affatto di riassumere le 30 fitte pagine del suo accurato studio, ma cerco solo di farne emergere le linee di fondo e alcuni limiti, che pregiudicano a mio avviso una adeguata comprensione della questione attuale intorno al “diaconato femminile”. Procedo in questo modo: anzitutto presento la struttura dello studio nelle sue grandi campate (1.), poi esamino alcuni “punti critici” (2.) per concludere con alcune questioni aperte che restano da esaminare (3.).

1. Dalla fedeltà al Vaticano II alla impossibilità del “diaconato femminile”

Dopo una non irrilevante premessa sullo scopo dello studio – restituire al Vaticano II le sue vere intenzioni, senza restare vittime degli “interessi” delle diverse scuole – l’autore struttura la sua ricerca in tre passi: il primo è dedicato alla ricostruzione dello “sviluppo storico” del rapporto tra episcopato, presbiterato e diaconato; il secondo è dedicato alla “unità triadica del sacramento dell’Ordine”, mentre il terzo tratta del rapporto tra questa unità dell’Ordo e la questione del diaconato femminile.

Il centro della argomentazione di Menke funziona in questo modo: da due millenni di storia desumiamo un criterio di “unità triadica” dell’ordo, che si articola in episcopato, presbiterato e diaconato. Elaborato nel corso dei secoli, e giunto a piena chiarezza solo con il Vaticano II, questo “criterio ermeneutico” di fedeltà alla tradizione impone di riconoscere che tale “ordo” – con questa sua complessità – è sempre stato attribuito, in tutti i suoi gradi, soltanto a soggetti di sesso maschile. Il principio di “unità triadica” supera tutte le opposizioni sia tra i diversi gradi, sia tra livello sacramentale e livello giurisdizionale di esercizio della autorità. Ogni forma di distinzione residua viene bollata come “gnostica” o come “dualistica” e a queste posizioni erronee vengono ricondotte tutte le interpretazioni del Concilio Vaticano II che antepongono un “interesse pastorale” alla vera intenzione dei Padri Conciliari. Su questa base Menke procede alla confutazione di una serie di studi possibilisti sul diaconato femminile, mostrandone la contraddittorietà con le vere intenzioni del Vaticano II.

Potremmo riassumere così la tesi di Menke: la elaborazione della “unità triadica” del ministero ordinato e la attestazione storica della assenza di donne integrate all’interno di tale “unità triadica” impedisce alla Chiesa di “ordinare donne”, ma non impedisce alla Chiesa di attribuire loro autorità, purché non al livello sacramentale dell’Ordo.

2. Pregiudizi efficaci, assunti non dimostrati, dati dimenticati

 La trama del testo è fitta e complessa. Provo a farne emergere alcuni fili problematici:

– Nel testo si assiste ad un continuo passaggio tra piano storico e piano sistematico. Il Concilio Vaticano II si sostiene – deve essere compreso sul piano storico. Ma la storia viene compresa sulla base di una interpretazione pesantemente sistematica del Concilio Vaticano II. Ora, questo non è affatto scandaloso. Ogni buon teologo procede sempre così. Non c’è mai né pura storia, né puro dogma. Quello che sorprende è piuttosto la “colpevolizzazione” di tutti coloro che non assumono la prospettiva – sistematicamente assai fragile – che Menke pretende di desumere direttamente dai dati storici!

– Il principio sistematico di “unità triadica” dell’Ordine viene utilizzato, da Menke, come criterio ermeneutico per impedire ogni differenziazione storica! Questo è davvero sorprendente. Non solo perché unisce – surrettiziamente – condizioni di fatto e assunti sistematici in forma molto creativa, ma anche molto arbitraria; bensì anche perché dimentica che lo stesso magistero post-conciliare, in espressioni tutt’altro che secondarie, ha profondamente alterato questa “unità triadica”. Dunque da un lato vi è una enfasi estrema su “dati storici”, che imporrebbero una lettura sistematica univoca, il che non è. Ma la lettura sistematica è tanto forte, che dimentica, non casualmente, una evoluzione recente del magistero, che non è affatto coerente con la unità triadica sottolineata con tanta forza da Menke. Se ne trae l’impressione che si parli di “unità triadica”, per tener fuori le donne anche dal diaconato. Salvo poi utilizzare la differenza interna a tale unità in modo tanto forzato, da negare che il diacono agisca “in persona Christi”: da notare è che questo “fatto” non è mai citato da Menke, ma posto dal magistero successivo al Concilio.

– Provo a sintetizzare questa piccola e grande contraddizione interna al testo. Menke dice: se l’Ordo è unico – sia pure differenziato al suo interno – la logica che vale per un grado deve valere anche per gli altri. Ma sembra dimenticare che il “diaconato uxorato” è diventato di nuovo possibile, in occidente, da qualche decennio, mentre presbiterato e episcopato restano celibatari. La unità ha al suo interno una articolazione. Non si vede come si possa escludere, su questa base, che il soggetto della ordinazione diaconale possa essere non solo un maschio sposato, ma anche una femmina sposata o magari anche una femmina celibe (con qualche rischio in più)…

– Sono rimasto piuttosto sorpreso dalle righe iniziali del testo. In esse si propone una “revisione” della interpretazione del Vaticano II rispetto a “due scuole”: quella di Bologna e quella di Roma. Non so se questo dipenda dalla distanza dall’Italia dell’autore, ma è curioso imparare da un teologo di Bonn che in Italia vi sarebbe anche una “scuola romana” di interpretazione del Concilio. A Bologna c’è sicuramente una scuola, con generazioni di maestri, allievi, discussioni, pubblicazioni, riviste, collane. A Roma ci sono alcuni autori, che hanno scritto sul Concilio Vaticano II, in modo anche meritevole, ma senza scuola, senza riviste, senza collane, senza confronti…Oltretutto Menke in nota cita gli “autori minori” – Gherardini e De Mattei, autori non di studi, ma di paphlets – e dimentica il maggiore – Marchetto, che ha scritto invece importanti raccolte di recensioni –: trovare tutta questa approssimazione sulla soglia di un articolo che vuole essere accuratissimo sul piano del dato storico, suscita una certa impressione.

3. Le questioni vere e perciò dimenticate

 Nel cuore del suo testo Menke dice tre cose estremamente significative, che riporto per esteso:

“In ciò che segue faremo il tentativo di desumere la intenzione dei testi (conciliari, sulla gerarchia) dalla loro preistoria” (340)

“Già dalla fine del secondo secolo l’agire ex persona Christi davanti alla Chiesa è una “triade”. Nessun padre della chiesa attesta che una donna abbia assunto questo munus sacramentale” (368)

“Dal III secolo vi sono “diaconesse”, ma è altrettanto incontestabile che esse non sono considerate come soggetti di un munus sacramentale” (368)

Se la teoria del “munus triadico” è chiara solo nel XX secolo, come si può far uso di essa come criterio di discernimento assoluto per testi del III e IV secolo? 

E’ qui evidente la tensione tra una rilettura del Vaticano II sulla base dei “fatti” che lo precedono e insieme una interpretazione dei fatti con le categorie conciliari, ma proposte in una loro interpretazione tutt’altro che pacifica. Ad ogni modo, ciò che manca, in modo del tutto decisivo, è qualsiasi riferimento al “divenire culturale” delle categorie della “auctoritas” e del “genere”. Che cosa fosse “donna” nel IV secolo e che cosa sia nel XX e XXI secolo non è un dato irrilevante per affrontare pienamente la questione. Né è irrilevante quale rapporto vi sia stato e vi sia tra l’esercizio della autorità e questa condizione naturale/culturale dell’essere donna. Per evitare di cadere nella “ideologia del gender” non si può però dimenticare totalmente la relazione culturale tra genere, potere e vita ecclesiale. Proprio la pretesa di “isolarsi dalla storia comune” per una ricostruzione asettica del “tema gerarchico” -così come appare condotta da Menke – indica chiaramente una “scelta di scuola”, non priva di conseguenze pesanti sulla analisi e sulla sintesi elaborata e proposta. E forse indica anche una difficoltà nel cogliere la “questione femminile nella Chiesa” nel suo significato più profondo e più radicale, ossia non come problema né di iurisdictio né di ordo, ma di riconoscimento di una esperienza dell’uomo/donna e di Dio, più ricca e più profonda proprio perché differenziata e non unificabile proprio a livello di “genere”.

Concludo con alcune domande. Le lascio aperte, intenzionalmente, perché restano anche per me questioni, alle quali non so dare una risposta netta:

La lettura del Vaticano II e della sua teoria dell’”ordo” proposta da Menke è un atto di fedeltà al testo conciliare o un “uso interessato” del testo? Forse dovremmo ammettere con molta maggiore serenità che una opposizione tra “vero testo” e “uso interessato” è una falsa opposizione. Proprio per il fatto che il Vaticano II non è solo “oggetto” ma “soggetto” della tradizione: tale tradizione, rispetto al Concilio, non si può ricostruire semplicemente “dal suo passato”, ma anche “dal suo futuro”. Altrimenti il Concilio viene ridotto, sostanzialmente, ad un passaggio irrilevante.

Ciò di cui Menke accusa apertamente i suoi contraddittori – ossia di sottoporre il testo agli interessi del contesto pastorale di recezione – non dovrebbe essere rivolto, anzitutto, al suo tentativo di soluzione della questione del diaconato femminile, mediante un “uso sistematico” del Vaticano II interpretato come “chiusura” piuttosto che come “apertura”? Questo “uso” del Vaticano II, non è certo della scuola di Bologna, ma è proprio così diverso dalla cosiddetta “scuola di Roma”? Il suo “interesse” esplicito a “negare la questione del diaconato femminile” può essere letto in continuità con il Concilio, o deve essere interpretato come una pericolosa forma di “immunizzazione dal Vaticano II”? In altri termini, la “conclusione” sul diaconato femminile per Menke sta davvero “alla fine” del testo, come una logica e coerente conclusione, o non è piuttosto l’interesse primario che lo ha condotto a costruire tutta la sua fine “macchina storico-dogmatica” in funzione puramente difensiva? Solo perché la Chiesa possa permettersi di riconoscere, anche qui, di non avere alcuna autorità proprio sulla attribuzione della autorità?

La lettura del saggio non permette di rispondere definitivamente a queste domande. Ma per questo non permette neppure di pensare la apertura alla “autorità femminile nella Chiesa” come destinata “necessariamente” a luoghi diversi dal “ministero ordinato”. Questa “necessità” non è per nulla evidente, se non per una logica azzardatamente autoreferenziale. La questione è perciò più complessa di una tesi sistematica imposta non “dal”, ma “al” Vaticano II. Dunque la discussione è solo al suo inizio. Ma dobbiamo riconoscere apertamente che, anche grazie a questo audace approfondimento proposto dal prof. Menke, la tradizione non sarà condannata alla paralisi, ma potrà riconoscersi autorizzata ad andare avanti, con fiducia e senza irrigidimenti, “sulle orme del Vaticano II”.

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