Le regole e il presidente Fontana: grammatica e fede


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Sicuramente Lorenzo Fontana non era noto come un grande italianista. Eppure il fatto di aver scritto in passato “inpiegato” con la “n” e non con la “m” e il fatto di aver detto “ìndico” e non “indìco” durante una seduta ha colpito molto la sensibilità comune. Perché mai? Perché le regole di scrittura e di pronuncia di una lingua non sono a disposizione dell’arbitrio personale. Se la lingua italiana ha elaborato criteri di scrittura “eufonici” (come la trasformazione delle n in m in determinati casi) e la differenza di accento tra parole apparentemente identiche (come àncora e ancòra), ciò costituisce patrimonio condiviso, che la scuola e l’uso comune perpetuano per tutti coloro che vogliano parlare correttamente la lingua italiana.

Tanto più sorprendente è allora il fatto che ad un non italianista subito si rimpoverino grossolani errori di ortografia e di grammatica, ma si lascino passare strafalcioni sul piano della fede ad un cosiddetto “ultracattolico”. Questo è un dato interessante, che merita un approfondimento di carattere specificamente teologico. La questione è allora la seguente: come è possibile che un “ultra cattolico” dica cose palesemente contrarie alla “regula fidei”, ossia alla grammatica di quella tradizione cristiana che chiamiamo tradizione cattolico-romana? Come vedremo, in realtà la definizione di “ultracattolico” è una falsificazione del cattolicesimo, che da un lato lo irrigidisce in forme superate, e dall’altro lo riduce a regole astratte. Ciò che sorprende è che si filtri il moscerino se si tratta della lingua italiana e che invece si ingoi il cammello quando si tratta della tradizione cattolica. Faccio un esempio lampante di questo paradosso.

Durante il discorso di insediamento il Presidente Fontana ha fatto un elogio della diversità che è suonato sorprendente. La sua radice sta però in una lettura “particolaristica” e “comunitaristica” del cattolicesimo, che si alimenta di errori grossolani. In un discorso precedente alla elezione, nel 2019, Lorenzo Fontana aveva offerto un esempio lampante di questo “svarione”. Eccolo:

Ci dicono che siamo cattivi cristiani. Però bisognerebbe anche guardare un po’ il catechismo. C’è un passaggio da tener conto: ‘ama il prossimo tuo’, cioè quello in tua prossimità. Quindi, prima di tutto cerchiamo di far star bene le nostre comunità“.

La tradizione alla quale ci si vuol richiamare, e della quale si ostenta il valore con le celebrazioni in latino, per le quali lo stesso Fontana non nasconde  la propria predilezione, è ridotta ad una locuzione di cui si propone una interpretazione del tutto errata. Almeno per 4 motivi:

a) L’amore del prossimo non è anzitutto nel catechismo, ma nella Parola del Vangelo. Già il fatto che si invochi il catechismo prima della Scrittura è il segno di un primo svarione grave per un cattolico;

b) Se anche si volesse lavorare solo con il Catechismo, si dovrebbe inserire la frase nel “sistema complessivo” del testo, per coglierne il vero significato: collegando l’amore del prossimo con l’amore per Dio e restituendo al prossimo il valore universale che scopre ovunque la prossimità;

c) Il discorso sulla prossimità è  “cattolico” proprio perché universale. Ed è perciò il fondamento della “fratellanza universale” non come “riduzione a fotocopia” ma come “scoperta di dignità umano-divina in ognuno”. L’orizzonte non è “la nostra comunità”, non è la fratellanza del borgo ( contro tutti) o la “fratellanza italiana” (contro le altre nazioni), ma la fratellanza universale;

d) La identità cattolica non può essere “ultra” se non smentendo se stessa: quando si pone “contro” sta negando la vocazione universale che segna in profondità la comunione in Cristo. Essa trova un “alter Christus” in ogni altro. Non si spaventa della differenza in un senso radicalmente diverso dalla affermazione della “nostra differenza”.

E’ chiaro che se voglio onorare la tradizione della lingua italiana, non posso farne l’elogio con errori di grammatica e di ortografia. Anche una eventuale “difesa dell’italiano dalla corruzione straniera” – cosa che già di per sé contraddice l’origine plurale e meticcia di ogni lingua – dovrebbe anzitutto sapere le regole della lingua che si vuol difendere. Se voglio onorare la tradizione cattolica, anch’essa originariamente plurale, posso certo rendere onore al Sommo Pontefice, ma poi debbo “stare nella tradizione” secondo le regole che la tradizione stessa mi offre: ossia nel cammino della riforma liturgica (e non in una forma superata del rito romano) e nella ermeneutica corretta della tradizione biblica e magisteriale (e non in una ricostruzione pasticciata del dato di fede). Il cattolicesimo non è una lingua nella quale si possano scegliere a proprio arbitrio le forme celebrative e i contenuti di fede. Se così fosse, sarebbe un fatto molto più grave dello scrivere “inpiegato” con la “n” o del confondere “indìco” con “ìndico”.

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