L’eccezione liturgica, il contenimento civile e la solitudine raddoppiata


pandemia

Nel dibattito intorno alla “Lettera Aperta” sulla stato di eccezione liturgica, ho ricevuto ieri due domande che meritano una risposta articolata. Sono interessanti perché hanno permesso di notare meglio una cosa che non avevo ancora messo bene a fuoco: ossia la correlazione complessa tra l’imporsi dello “stato di eccezione civile”, con il distanziamento, il contenimento e il divieto di raduno, e lo “stato di eccezione liturgica”, che implica, nella Chiesa, la accettazione di un distanziamento, di un “raduno parallelo” che  minaccia la qualità della vita ecclesiale. Per certi versi i due stati di eccezione si “sostengono”, per altri versi si oppongono. Vediamo di scoprire che cosa significa tutto ciò.

Una lettrice mi ha inviato queste due questioni, che, nella loro semplicità, sollevano le questioni a cui accennavo e che risultano fondamentali per il futuro della liturgia. Ecco le due domende:

a) “Il suo riferimento al fatto che “ciò che è possibile sul piano normativo, non sempre risulta opportuno” mi ha fatto riflettere sul paradosso di una Chiesa che tanto si appella alle norme, in questo caso alla Summorum Pontificum, pur facendo continuo riferimento all’azione dello Spirito, preso anch’esso a “norma”, che invece dovrebbe suggerire un approccio più “discreto” alle situazioni. È solo malizia da parte di chi si fa forte di legittimità giuridiche per ostacolare i cammini di evoluzione (penso all’inveramento ancora tutto in atto del Concilio Vaticano II) o c’è una ragione più profonda? Voglio dire: questo tipo di conflitto fa parte del gioco e dobbiamo solo giocare, o c’è da “scandalizzarsi” e preoccuparsi?”

b) “In questi giorni senza Presidente per le celebrazioni eucaristiche, le comunità monastiche hanno preparato delle liturgie della Parola che mi sento di definire molto belle, nel senso di particolarmente curate nei canti, nei gesti, nei tempi … Dispiacciono le porte chiuse della chiesa, dispiace la mancanza della consacrazione del pane e del vino, dispiace essere solo tra donne … però sinceramente proprio non sono riuscita a vedere la differenza essenziale, che si dice che ci sia, tra donne e uomini nel compiere i gesti liturgici. Immagino il discorso sia molto più profondo sul piano teologico, ma mi permetto di condividere questa sensazione di insensatezza dei rapporti tra uomini e donne così come sono gestiti all’interno della Chiesa per esempio rispetto ai ministeri.”
Ed ecco la mia risposta:
 Cara lettrice,
mi sembra che giustamente lei tocchi un punto assai importante, che collega due livelli delle questioni che, in questi giorni, hanno faticato a raccordarsi. Da un lato, infatti, si discute sulla “eccezione liturgica”, ossia su un regime strano e poco trasparente, con cui la Chiesa, per rispondere ad una contingenza di 13 anni fa, ha imboccato una strada da cui non riesce più ad uscire. Ma vi è, accanto a questo, la pressione di un momento del tutto eccezionale, in cui siamo costretti, dal presidio sanitario, a rinunciare a molte “pratiche consolidate” e a inventare “pratiche nuove”. Tutto questo fa emergere, in modo sorprendente, la grande forza della tradizione cristiana, ma anche la sua debolezza e fragilità. Proviamo a considerare brevemente questi due aspetti diversi.
a. La forza della tradizione è contagiosa. E’ sorprendente come, mutate le condizioni di “spazio-tempo” disponibili, la Chiesa – quella di persone -si sia organizzata in modo assai rapido per soluzioni alternative. Il desiderio di celebrare è diventato progetto di ripensamento, ricerca di sostitutivi, elaborazione di testi, di gesti, di forme nuove del culto pasquale.
b. Accanto a ciò, tuttavia, si sono manifestate sia “resistenze inerziali” – più o meno clandestine – a non voler assumere seriamente la logica comune della società civile, sia motivazioni delle “cose nuove” che hanno talora rivelato “blocchi mentali” e “corporei” assolutamente insospettabili.
Per questa condizione complessa, le sue due domande manifestano, nel fondo, lo stesso disagio: la risposta ufficiale con cui la Chiesa “dice la sua presenza” spesso appare deludente. Essa sembra non riescire ad usare gli argomenti più forti e spesso ricorre a logiche del tutto secondarie, o addirittura controproducenti.
Così appare chiaro se si prova a rispondere alle sue due questioni. Circa la prima domanda, essa rivela un problema assai grave. Lei si chiede se il “gioco” da giocare sia quello stabilito dalle norme vigenti, o se restare in questo gioco possa scandalizzare. Io credo che  il margine di scandalo sia offerto da questi fatti:
– la “legittimità” di un atto non implica la sua opportunità o giustizia
– la trama istituzionale della Chiesa diventa opaca quando afferma prima di tutto la ripetizione inerziale di se stessa
– le trasformazioni di una procedura devono essere controllate e verificate con molta attenzione.
Così, se una procedura, che era stata pensata per un “Commissione speciale” – come era Ecclesia Dei – e che ora viene svolta da una Sezione della Congregazione per la dottrina della fede, si occupa di “riformare il rito del 1962”, l’effetto ecclesiale di questo atto appare mutato di segno. E la Congregazione, quasi automaticamente e senza colpo ferire, diventa il “luogo” di un dissidio tra forme concorrenziali dello stesso rito romano. Questo è un segnale estremamente negativo per la comunione ecclesiale. Manifestare il proprio scandalo per questo processo è compito del teologo. Che si preoccupa del fatto che un “sistema” voluto da papa Benedetto in vista e nella speranza di una riconciliazione, generi invece continuamente divisione, separazione, per non dire sedizione. Giustificare tutto ciò dicendo che “la legge lo consente” non è una soluzione, ma anzi trascina anche la legge nello scandalo che deve essere evitato.
La sua seconda osservazione ci fa fare un passo ulteriore. La differenza tra la legge del 2007 e il disegno del Concilio Vaticano II ci permette di dire che “lo stato di eccezione è finito”. Torniamo alla logica conciliare. La considerazione sulla donna nel ministero ecclesiale esige un passo ulteriore. Nello stesso anni di SC anche Pacem in terris vedeva la luce. Nel grande testo di Giovanni XXIII troviamo per la prima volta un “passaggio culturale” del tutto decisivo. Il “ruolo pubblico” della donna viene riconosciuto come un “segno dei tempi”. La Chiesa ha molto da imparare – dice papa Giovanni – da questa trasformazione del ruolo della donna nella cultura e nella società. E’ evidente che uno dei luoghi in cui questa “trasformazione” è ancora agli inizi è proprio il culto cristiano. Nel quale continuiamo ad usare “modelli di riferimento” vecchi e privi di forza, e spesso addirittura segnati da pregiudizi e tare che sono una controtestimonianza vivente del vangelo. Su questo piano, allora, possiamo dire che il “contenimento civile” fa esplodere due logiche opposte e antitetiche. Corrobora una “chiesa di soli preti” (e di preti soli) e rilancia la iniziativa dei fedeli non chierici e non maschi.
Questo ha generato anche un dibattito, che è di grande interesse e dove vediamo che:
– il tentativo di avvalorare una “chiesa di emergenza di soli preti celebranti”  attinge a lessici e a canoni premoderni
– il tentativo di giustificare il ruolo della assemblea, di una ministerialità allargata e del ruolo femminile implica la ripresa di discorsi forti e decisivi su questi temi. Implica una declericalizzazione radicale e urgente, che possa dire tre cose decisive, niente affatto nuove, ma da dire in modo nuovo.
Potremmo formularle così:
a. Che la assemblea celebrante è il Corpo di Cristo risorto (e quindi non può essere in alcun modo essere pensata o resa accessoria)
b. Che la assemblea ha bisogno di “più ministeri”, non del solo presbitero
c. Che le donne possono esercitare funzioni di autorità, perché possono e debbono essere riconosciute titolari di un ministero in senso forte e pieno, di un ministero vero, non di un ministero di plastica. Nelle donne è implicatoe si esprime l’annuncio apostolico, dal quale dipende la stessa tradizione ecclesiale nella sua piena verità.
Ecco, questo passaggio difficile è anche teologicamente esigente. Potrà mettere definitivamente in soffitta i discorsucci clericali, belli sigillati in autoevidenze tristi, dove ti accontenti di citare le frasi di geni, che però sono vissuti nell’epoca delle invasioni barbariche o del feudalesimo, e scambi gli assetti istituzionali che loro condividono senza averli scelti come se fossero vangelo o, peggio, come se fosse “di diritto divino”. Sono i trucchi tipici di una chiesa che non c’è più e che appare bene solo “a porte chiuse”. Perché c’è una Chiesa che è sempre stata “a porte chiuse” anche quando le porte erano belle aperte. Che è rimasta bloccata su ruoli vecchi, su parole vecchie, su forme vecchie. E proprio ora si vede meglio, perché realizza pienamente se stessa, grazie alla epidemia. E lo dice anche, con una ingenuità semplice e talora con una arroganza senza pudore.
Ma non c’è solo questo. C’è anche, e ben viva, una Chiesa che ha bisogno urgentissimo di rilanciare i grandi discorsi, che la ufficialità ecclesiale ha avuto la forza di fare apertamente e solennemente solo 60 anni fa e che oggi sembra tanto confusa quando deve ripeterli in modo credibile. C’è chi lo sa fare. E si trova proprio in quel vertice della piramide che è rovesciata. Proprio per questa condizione rovesciata, ben prima della pandemia di oggi che desertifica il mondo, anche quando era ancora in una piazza S. Pietro aperta, in mezzo alla folla festante, Francesco era già apparso tremendamente solo, per il fatto di vivere lui a porte aperte in una chiesa che preferiva le porte chiuse, già allora. Quella Chiesa che si rivitalizza oggi se può fare senza il popolo, se può sostituirlo in tutto, con un timbro o con un decreto. Se si ha la pazienza di leggere i discorsi scritti nelle ultime settimane da molti che stanno a stretto contatto con questo vertice di piramide capovolta, non si fa grande fatica a riconoscere questa condizione paradossale di solitudine raddoppiata: dalla chiusura civile che reduplica la chiusura ecclesiale. Le porte chiuse, dunque, aprono un doppio compito, meravigliosamente complicato: a chi in chiesa ci può stare, di starci diversamente. A chi in chiesa non ci può stare, di saper essere chiesa altrove e diversamente.
Riceva i miei più cordiali saluti
ag
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