L’episcopato è un sacramento, non un titolo: annotazioni con la dovuta parresìa
Il termine “curia” ha a che fare con “Signore”, con “signoria” e con “potere”. L’esercizio del potere, che caratterizza ogni curia, e che non è un male, ha delle cause, delle procedure e dei fini. Tutto questo riguarda anche la curia romana e quella “provvista episcopale” che costituisce una “macchina” di nomine, di sostituzioni, di avvicendamenti, di valutazioni, che esiste per “servire la Chiesa”. Ma la curia è al servizio della Chiesa, non la Chiesa al servizio della curia.
Il procedimento di “nomina” dei vescovi è giustamente molto articolato. Non è mai un gesto unilaterale, senza mediazioni. Proprio perché i Vescovi non sono “funzionari del papa”, il processo di nomina deve essere un “processo ecclesiale” che non può rispondere anzitutto a logiche “spurie”. Diventare Vescovo non può essere la “sistemazione di un soggetto ecclesiale”, non può essere il “coronamento di una carriera”, ma neppure può essere la “soluzione periferica di un problema centrale”. Se ci sono problemi con un Ufficiale della curia romana, e i suoi superiori pensano di risolvere il problema passando la patata bollente ad una Diocesi, questa non è mai una soluzione, bensì l’inizio di un problema maggiore.
Anche nella Curia, come in ogni realtà umana complessa, ci sono “peccati strutturali”. Non si tratta solo di singole responsabilità, ma della acquiescenza generalizzata ad una tendenza autoreferenziale, che tutto può trattare (la approvazione di un testo liturgico, la nomina di un vescovo, la risposta ad un dubbio o la inerzia nella applicazione di un compito) come una questione “privata”. La burocrazia, come degenerazione, non è altro che la sostituzione con cui l’‘ufficio” mette sé stesso e i propri interessi al posto della funzione per cui esiste.
Le parole chiare che abbiamo sentito e ripetuto negli ultimi anni sulla Chiesa in uscita e sul superamento della autoreferenzialità non riguardano solo “questioni di principio” o “casi-limite”. Forse proprio questa è stata una carenza di queste giuste affermazioni, che restano sacrosante, ma che possono peccare di eccessiva astrattezza. Se si parla di “superamento della autoreferenzialità” come uno slogan di priorità, e giustamente si riconduce alla autoreferenzialità anche l’inadeguato modo di trattare i casi di abuso su minori, ma nel frattempo si lascia che la “macchina curiale” dia soddisfazione alle carriere episcopali secondo logiche distorte, si contribuisce gravemente al degrado comune, tanto ecclesiale quanto civile. Qui, lo dobbiamo dire, si offre proprio un cattivo esempio e si alimentano i pregiudizi più ingiusti, ma che in questi casi trovano le loro ragioni: applicando il terribile principio “promoveatur ut amoveatur” arriviamo a gestire quello che è un sacramento come se fosse una cosa funzionale, che sta nella disponibilità della curia. La Chiesa così varca il limite della propria autorità e quindi perde autorità.
Infatti, con quale autorità potrebbe la Chiesa parlare sul malcostume di una politica autoreferenziale, sulla inadeguatezza delle cariche, sulla distorsione del consenso, se nella nomina dei Vescovi non si mirasse al “bene della Diocesi di destinazione” ma soltanto a risolvere gli equilibri di potere interni alla Curia romana? Con quale autorità si può lavorare sulla “sinodalità dell’ascolto”, perciò ripetendo con limpida insistenza “ascoltare, ascoltare, sempre”, se non si ascolta affatto la voce della Chiesa che riceve la nomina, e delle Chiesa della regione episcopale, ma si asseconda soltanto la logica cieca con cui l’apparato curiale sistema le sue piccole eo grandi pedine? Chi potrà prendere sul serio la “paternità episcopale” in una gestione così opaca delle nomine pastorali e della loro correlazione alle pecore?
Un caro amico teologo, ormai molto anziano, sulla cui autorità nessuno ha mai avuto dubbi, raccontava un episodio giovanile, tipico di questa tendenza degenerata. Un nuovo vescovo della sua diocesi siciliana, appena arrivato in sede, convocò i presbiteri e iniziò il suo discorso dicendo: “In questa diocesi sono di passaggio…”. Al che il giovane teologo, che come presbitero era seduto in prima fila, si alzò dicendo: “Allora non è questo il mio vescovo”… e lasciò impetuosamente la riunione!
Ci vuole parrhesia, anche nella Chiesa. Questa è la parola che ascoltiamo tanto spesso, con vera soddisfazione, soprattutto negli ultimi anni. E la ascoltiamo proprio da quel vertice della piramide che sa di stare in basso, non in alto. Proprio in virtù di questa parresia, si deve dire che nomine di Vescovi funzionari non sono più compatibili né con la base che è vertice, né con il vertice che è base. Non possono essere né accettate dai destinatari, né avallate dalle autorità superiori. A questo gioco non si può più giocare seriamente. Altrimenti tutta la vocazione sinodale, che pure assume localmente i suoi passi belli e significativi, diventa solo esercizio ozioso di retorica falsa, vuoto risuonare di parole estranee, sovrastruttura lucida, ma solo apparente, prezioso diversivo per le folle che non rinunciano mai alla loro speranza.
La Chiesa si è vincolata nel Concilio Vaticano II ad una teologia dell’episcopato che lo intende, dopo molti secoli, di nuovo come sacramento. Alla potestas iurisdictionis poteva bastare un vescovo-conte o un funzionario diligente o una sistemazione di fortuna. Alla comprensione postconciliare, ecclesiale e sacramentale, questo non basta più. Occorre un pastore che stia allo stesso tempo davanti, dietro e in mezzo al popolo e che ne condivida e ne presieda le qualità sacerdotali, profetiche e regali. Forse alcuni ufficiali romani possono ancora ignorarlo, ma il cambio di paradigma c’è già stato da 60 anni e li vincola di fronte a tutti. Di questo munus la Curia romana non solo dispone, ma risponde. E proprio su una delle maggiori novità del Concilio Vaticano II la Chiesa cattolica non dovrebbe permettersi di essere contraddittoria con se stessa, solo per un piatto di lenticchie. L’episcopato è un sacramento, non il toccasana per le malattie della curia romana. Guai a noi se lo dimenticassimo. Lo Spirito Santo resta sempre libero, anche quando facciamo di tutto per mettergli il bastone tra le ruote. Ma se la speranza non è perduta, la testimonianza è certo compromessa.
Preghiamo con Maria in vissuta attesa di una sempre nuova Pentecoste
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La storia siciliana me ne ricorda una dello stesso genere in Francia, non così antica. Come monsignore trova la sua diocesi ? – a 600 km da Parigi ! Quando un prete viene scelto per diventare vescovo, diceva un amico mio che aveva lavorato a lungo a Roma, è sempre bene. Il problema è che per l’ordinazione spesso sbagliamo e, al posto del Santo Crisma, prendiamo l’Olio degli Infermi! Di quale virtù, di quale pietà e di quale carità abbiamo bisogno noi sacerdoti per accompagnare questi malati gravi che sono spesso i nostri Vescovi !
Gent.mo Grillo,
lo vede che siamo d’accordo?
“Altrimenti tutta la vocazione sinodale, che pure assume localmente i suoi passi belli e significativi, diventa solo esercizio ozioso di retorica falsa, vuoto risuonare di parole estranee, sovrastruttura lucida, ma solo apparente, prezioso diversivo per le folle che non rinunciano mai alla loro speranza”.
Frequento questo blog da almeno 7-8 anni e da tempi non sospetti ripeto queste sue stesse parole. Forse i punti di vista possono essere diversi, ma la percezione dei gravi limiti di questo pontificato mi sembra sempre più simile.
Sinodalità, camminare insieme, vento dello spirito (s minuscola) sono ormai “esercizio ozioso di retorica falsa”.
Davvero rimpiango i vescovi conti; paradossalmente erano più coerenti con il loro ruolo, a differenza dei grigi funzionari pastorali che stanno mortificando le nostre chiese.
Rinnovo gli auguri!