Libro scomparso, libro scoperto: dire tutto e non dire niente (a Dio e di Dio)


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Non è una esperienza rara: capita che un libro desiderato non si faccia trovare. Lo hai nella tua biblioteca, sei certo di averlo anche preso tra le mani qualche tempo prima – due mesi, quattro mesi, forse dieci mesi prima? – ma ora non c’è più. Non lo trovi al suo “posto” né altrove. Puoi organizzare anche una “caccia al tesoro” con i tuoi figli, ma niente: resiste. Questa volta è capitato a Melville, a “Moby Dick”. Ho appena letto “Bartleby lo scrivano”, dello stesso autore, ed è tornata la voglia di leggere “la balena bianca”. Ma la bestia si sottrae alla caccia, resta sott’acqua, non emerge, non si fa vedere. Mare piatto, nessuna traccia del libro.

Quando capita così, la ricerca ha un suo lato disperato – il libro sembra svanito davvero e arrivi a dubitare addirittura di non averlo mai avuto – ma riserva anche qualche improvvisa consolazione. Cercando un libro che sai di avere, ne trovi altri inattesi, che non sapevi di avere. O meglio, di cui ti eri completamente dimenticato il possesso. Così, dietro a una pila, ecco uscire una edizione – che dalla rilegatura richiamava vagamente la possibilità di essere il capolavoro di Melville – ma che si rivela, invece, una edizione dei “Soliloquia” di Agostino. Caspita! Chissà come è arrivata qui! Ma come fai a non aprirla, anche solo di sfuggita. E’ bastato scorrere l’indice: una meraviglia. Così non è difficile passare dall’oceano delle baleniere alle campagne lombarde di 1500 anni prima, e restare in compagnia del retore, del filosofo, del teologo in fieri, dello scrittore.

Annoto qui, disordinatamente, alcune cose che subito mi hanno catturato. Volevo la balena, ma sono io il pesce catturato dal giovane Agostino.

a) Un “neologismo” dialogico

Soliloquia è “neologismo”. Parola inventata da Agostino e che fa del dialogo interiore, del confronto stretto tra Agostino e la Ragione, il luogo di uno scambio decisivo. Un colloquiare solitario che ha due, anzi tre soggetti: Agostino, il suo “alter ego” (Ratio) e Dio. Perché i primi due possano dialogare occorre una “apertura” che solo il “terzo” può garantire. Così, all’inizio di ciascuno dei due libri di cui è composta l’opera, si comincia con una preghiera per poter conseguire i due “oggetti” (Dio e l’anima) della ricerca. Ma le preghiera dei due libri sono diversissime e ci aiutano a comprendere, in questo testo così antico, una doppia vocazione della preghiera cristiana. Proviamo ad esaminare questi due modelli di preghiera cristiana.

b) Il ruolo e le forme della preghiera

Agostino cerca di “conoscere se stesso” (“quaerenti memetipsum”) e in questo intento si confronta con “qualcuno” che non sa se sia lui stesso o un altro, che gli pone domande e lo porta a riflettere. Inizia un dialogo tra Ratio e Augustinus che subito si apre ad un terzo, a Dio, per chiedere “salute e aiuto”. E’ interessante che Ratio chieda ad Agostino di “mettere per iscritto” questa preghiera, che occuperà le successive 6 pagine. Un capolavoro di invocazione a Dio apre l’opera. Sembra solo “premessa” e forse può essere letta così. E’ preghiera di domanda, di lode, di supplica, di benedizione, di rendimento di grazie, che attraversa tutta l’esperienza. Così, con una intensità che tornerà poi in molte altre opere, e che nelle Confessioni diventerà un “basso continuo” del testo, lo slancio verso Dio e verso se stesso appare del tutto sorprendente. Il lungo testo è un grande intreccio di domanda e di lode, nella quale Dio viene definito in mille modi, biblici e sapienziali: “Dio, il cui regno è il mondo intero, che il senso non conosce”; “Dio, per il quale le piccole cose non ci diminuiscono”; “Dio, ove nulla manca e nulla è di troppo”; “Dio per il quale siamo bene servi e bene siamo padroni”; “Dio che ci dai il pane della vita”; “Dio sopra del quale non vi è nulla, fuori del quale non vi è nulla, senza del quale non vi è nulla”; “Dio, sotto il quale vi è tutto, nel quale vi è tutto e con il quale vi è tutto”.

Ma accanto a questa lunga e articolatissima preghiera, il secondo libro offre invece un modello di preghiera totalmente altro. La preghiera che apre questa seconda sezione del testo è davvero brevissima e superconcentrata all’essenziale: “Deus semper idem, noverim me, noverim te”. “Dio sempre identico, che io possa conoscere me, che io possa conoscere te”.

Lo spazio tra queste due preghiere diversissime viene riempito dall’intera tradizione ecclesiale. Il linguaggio della rappresentazione e il linguaggio del concetto, la sovrabbondanza dei “nomi di Dio” e la ineffabilità della sua sostanza sono posti plasticamente sulla soglia dei due libri, e indicano, fino ad oggi, una duplice corrente che attraversa l’esperienza credente e cristiana e che plasma la preghiera verbale e non verbale, storica e sapienziale, narrativa e contemplativa.

c) La promessa di un metodo

Un terzo punto preziosissimo del testo è il suo “metodo”. L’orizzonte orante – con le sue articolazioni interne – pone e dispiega lo spazio di una instancabile correlazione tra domanda e risposta, che Agostino stesso riconosce con parole chiarissime: “non c’è modo migliore di cercare la verità che domandando e rispondendo” (II, 14). In certo modo possiamo qui riconoscere il ruolo di “ponte” che Agostino ha fatto tra la cultura classica greca e romana e la elaborazione medievale delle “quaestiones”. Una lunga “quaestio disputata” sono anche i “soliloquia”. Una parola dialogica appare costitutiva della identità del singolo cristiano, che si dà solo se radicalmente in dialogo con se stesso e con Dio.

Dunque, puoi pregare di trovare un libro, ma trovarne un altro, dal quale impari che puoi essere di volta in volta padrone o servo delle tue scelte. Puoi perdere le tracce della lotta tra la Balena e Achab e trovare lampi di luce cristallina nei dialoghi accurati tra Ratio e Augustinus. Quante belle sorprese ci riservano le nostre biblioteche, che per fortuna non conosciamo mai del tutto!

 

 

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