Lo “stato di eccezione” e Summorum Pontificum: liturgia, autorità episcopale e dispositivo di blocco
«La tradizione degli oppressi ci insegna che lo ‘stato di emergenza’ in cui viviamo è la regola.» (W. Benjamin)
Vorrei chiarire, in una forma più ampia di quanto non potesse essere fatto nell’ambito di una “lettera aperta”, la correlazione tra lo “stato di eccezione” – inteso come condizione politica generata dalla grave pandemia – e la vicenda del Motu Proprio “Summorum Pontificum”, che dal 7 luglio 2007 ha alterato profondamente non solo la vita liturgica ecclesiale, ma la struttura istituzionale della Chiesa cattolica. Per svolgere la mia argomentazione inizio da due brevi premesse.
1. Alcune premesse: stato di eccezione e dispositivo di blocco
Quando utilizzo la categoria di “stato di eccezione” – che come è noto è stata introdotta da Carl Schmitt per spiegare la sovranità dello Stato – voglio riferirmi alla possibilità con cui, in determinate circostanze ritenute eccezionali, è possibile modificare le regole di base della società – o della Chiesa – per affrontare una emergenza. La esperienza che, sull’esempio della Cina, in Italia viviamo ormai da più di un mese, e che si sta estendendo al resto dell’Europa e del mondo, con la “sospensione” di una serie di “diritti fondamentali” – alla deambulazione, al lavoro, al contatto, persino alla stretta di mano… – danno a pensare e sollecitano una accurata indagine sui doveri dello Stato di tutelare la salute dei cittadini e sui limiti di questi poteri di “contenimento”. Ma il fatto stesso di vivere sul piano civile uno “stato di eccezione” permette di guardare con occhi più limpidi anche alla vita ecclesiale “sub specie exceptionis”.
La seconda premessa è che questo sguardo nuovo, che matura per una esperienza diretta sul piano civile, si innesta su una tradizione ecclesiale di cui già avevo notato una tendenza, manifestata nel ultimi 40 anni, che ho definito “dispositivo di blocco”. Di tratta di un raffinato modo di interpretare la autorità come “mancanza di autorità”. Se la Chiesa, ad un certo momento della storia, ritiene che tutta la sua autorità stia nel passato, negando “ora” a se stessa ogni autorità, mette in campo un dispositivo che, bloccando ogni esercizio nuovo di autorità, rende “perenni” le decisioni assunte nel passato. Perciò, si potrebbe dire, il “dispositivo di blocco” funziona come uno “stato di eccezione” che non finisce mai. La pretesa del dispositivo di blocco è precisamente questa: bloccare per sempre l’esercizio della autorità, con cui la Chiesa potrebbe “tradurre la tradizione”, mentre decide di spogliarsene e di restare così come è.
2. Il dispositivo di blocco e Summorum Pontificum
L’ultima tappa di questo percorso efficace del “dispositivo di blocco” – che era iniziato negli anni 70 – si incontra nel 2007, con il Motu Proprio “Summorum Pontificum” (=SP), mediante il quale, mentre si creava un parallelismo di forme rituali del medesimo “rito romano”, ci si spogliava della autorità di orientare la liturgia ecclesiale lungo le linee della Riforma Liturgica e si rimettevano in pieno vigore i riti che la Riforma stessa aveva voluto superare, denunciandone i limiti e le distorsioni.
Anche in questo caso, come era accaduto altre volte nei decenni precedenti, il Magistero “opera una autolimitazione”, poiché si ritiene che non abbia la autorità di orientare la tradizione e le scelte dei singoli ministri ordinati, ma in tal modo restituisce autorità a forme di esperienza preconciliare. Il “dispositivo di blocco” qui argomenta in modo astorico: “ciò che è stato santo una volta, deve poterlo essere sempre”. Questo è il principio indimostrato che regge sistematicamente il provvedimento. Dunque la Chiesa non si riconosce alcun vero potere di Riforma. Ciò che è stato di per sé si perpetua senza alcuna possibilità di orientamento o di conversione. Un principio argomentativo, di per sé negativo e puramente astorico, dà causa ad effetti storici assai gravi: ossia alla perdita di controllo sulla liturgia dei Vescovi diocesani, all’ accentramento del controllo in un organo “affettivamente condizionato” – la Commissione Ecclesia Dei -, al diffondersi di una rilevanza “politica” – in senso ecclesiale e ahimé in senso mondano – della “forma straordinaria” come “forma reazionaria” della identità cattolica. Il dispositivo di blocco non ha fermato le cose: ha sicuramente bloccato lo sviluppo della Riforma e ha generato un vero e proprio “monstrum romanae curiae”, con conseguenze laceranti facilmente prevedibili già all’inizio.
3. Summorum Pontificum come stato di eccezione alla piena autorità episcopale
Da quanto detto fin qui emerge, in modo assai significativo, che l’impatto di SP sulla vita della chiesa ha una logica che supera la questione liturgica in senso stretto. E’ vero, il disegno di “riconciliazione”, per realizzare il quale papa Benedetto ha costruito la ardita macchina istituzionale di SP, era l’orizzonte che intendeva giustificare una “rottura”. La rottura è lo scavalcamento della autorità episcopale territoriale in materia di liturgia. Mediante SP, infatti, tutte le questioni riguardanti i sacramenti, che attengono all’ “uso del rito in forma straordinaria” vengono sottratte alla competenza episcopale e spostate sotto la competenza della Commissione Ecclesia Dei. Questo è “stato di eccezione”, di sospensione della logica normale e normativa. Se ogni Vescovo non controlla più totalmente il territorio della propria diocesi in materia di liturgia e di sacramenti, questo introduce anche un “dispositivo di blocco” sulla autorità con cui il Vescovo può far progredire la riforma liturgica. Di fatto, in questo modo al Vescovo è sottratto il pieno controllo e l’indirizzo della diocesi sul piano liturgico e sacramentale. Per questo lo stato di eccezione, che può essere giustificato e giustificabile in casi determinati, è necessariamente limitato nel tempo. Deve finire. Un “rito in forma straordinaria” non può accompagnare “per sempre” il rito in forma ordinaria. Il “contenimento” dell’autorità episcopale è necessariamente “ad tempus”.
4. Summorum Pontificum come “criterio” di designazione episcopale e di formazione
Ma non basta. C’è un secondo aspetto, che non riguarda il lato normativo, ma il lato “fattuale” degli sviluppi successivi al 2007, che deve essere considerato con preoccupazione. A partire dai mesi successivi al luglio del 2007, il riferimento a SP non è stato solo quello per gestire dal centro le domande di “rito antico”, ma ha profondamente alterato la normale amministrazione della Chiesa. Da un lato, infatti, si è fatto del riferimento a SP non soltanto il compito di obbedienza dei Vescovi esistenti, ma anche il criterio di scelta del Vescovi futuri. Nelle “inchieste” con cui la Congregazione dei Vescovi valutava i candidati all’episcopato, era comparsa la voce sull’atteggiamento benevolo, ovvero critico, verso SP. Se, come prete, avevi detto qualcosa contro SP e se in certi casi non eri stato disponibile a celebrare secondo SP, non potevi aspirare all’episcopato. In questo caso la limitazione della autorità episcopale diventava “nativa”, potremmo dire “vocazionale”: per vocazione dovevi mostrarti disponibile a non insistere troppo sulla tua autorità in materia di Riforma liturgica! Ma non basta ancora. In alcune regioni ecclesiastiche si crearono anche le condizioni perché alcuni di questi Vescovi, inclini a privarsi della autorità in campo liturgico, ritenessero di allestire seminari in cui anche i candidati al ministero venissero formati, contemporaneamente, a due riti che si contraddicono. Lo “stato di eccezione” mirava a perpetuarsi nei secoli dei secoli, funzionando perfettamente come dispositivo di blocco per ogni riforma liturgica possibile. Il “vulnus” alla autorità episcopale pretendeva di trasformarsi in evidenza ordinaria per seminaristi, iniziati ab ovo anche alla liturgia “retro”.
5. Dal 2013 il sistema dello “stato di eccezione” implode
Lo stato di eccezione determinato da SP è entrato in crisi con l’inizio del pontificato di Francesco. Anche in questo caso la liturgia non è il livello primario di discussione. Ciò che cambia è il fatto che con papa Francesco “si sblocca il dispositivo di blocco”. Fin dall”inizio Francesco dice: la Chiesa ha l’autorità per cambiare, per uscire, per rileggere, per tradurre. E comincia a farlo. Era inevitabile che questo portasse, dopo alcuni anni, alla “soppressione” della Commissione “Ecclesia Dei”, che aveva tratto i propri poteri da un lato dai singoli vescovi, e dall’altro dalla Congregazione competente in materia di “culto e sacramenti”. Ma se si sopprime la Commissione, ma non si abroga SP, cambia solo il “luogo” delle decisioni, ma non si esce dal regime di eccezione. Così ora, in modo ancora più clamoroso di prima, lo stato di eccezione è palese per il fatto che sia la Congregazione per la dottrina della fede a deliberare in materia liturgica. Questo è un altro “monstrum” indirettamente generato da SP. Oggi, tuttavia, non ci sono più ragioni né per lo stato di eccezione né per il dispositivo di blocco. Il cammino della Riforma Liturgica esige, allo stesso tempo, la restituzione della pienezza dei poteri ai Vescovi locali, e il servizio della Congregazione per il culto divino al cammino di attuazione e recezione dei nuovi riti scaturiti dalla Riforma liturgica. Il “rito straordinario”, come fenomeno di ambizioni universali, è stato il segno e l’esperimento di un tempo limitato, che non ha dato buoni frutti. Domani potranno essere i vescovi diocesani a ritenere, in casi estremi, di concedere a gruppi limitati, di utilizzare il rito romano in forme precedenti a quella vigente. Ma se non ci vergogniamo della parola liturgica del Concilio Vaticano II, dobbiamo superare lo stato di eccezione che SP ha determinato nella esperienza ecclesiale e nella vita di troppe comunità. Il sistema, che SP ha determinato, se da eccezione pretende di diventare regola, genera crescenti divisioni e ostilità. Lo stato di emergenza, infatti, non può essere regola duratura né di vita civile, né di vita ecclesiale.
Caro Professore, Lei tocca i punti giusti. Come un uomo come Benedetto XVI ha potuto lasciare in lui il suo doppio, Josef Ratzinger, fare sospettare la Liturgia della santa Chiesa, uscita da un Concilio Santo, al profitto dell’ideologia di estrema destra della messa di sempre ? Ce un errore nella denominazione del motu proprio : SP non significa Summorum Pontificum ma SCHIZOPHRENARUM Pontificum. Adesso dovremmo avere un papa psichiatrico per guarire di questa pazzia integralista.
Caro P. Vignon, la questione è effettivamente aperta. Da un lato Benedetto ha cercato una riconciliazione con un interlocutore poco affidabile e che lo ha, di fatto, illuso. Ma J. Ratzinger, 30 anni prima, aveva già espresso il suo giudizio sul fatto che fosse “catastrofico” aver vietato il VO da parte di Paolo VI. Le due cose, di fatto, tendono a convergere su un provvedimento che introduce nella Chiesa una pericolosa “rottura”. Così, proprio chi voleva assicurare la continuità ha causato, al di là delle intenzioni esplicite e consapevoli, una rottura cui oggi occorre rimediare con decisa prontezza.
Quindi è proprio vero che Ratzinger era rivolto prevalentemente al passato.
Ma allora perché certi continuano a dire-e sembrano in buona fede-che non c’è discontinuità fra lui e il Papa attuale?
Premetto che non sono un fanatico del VO, ma neanche un entusiasta del NO. La questione liturgica mi affascina, e la seguo come posso con i miei poveri strumenti culturali sul tema. Mi chiedo, se il SP ha rappresentatoe rappresenta una rottura, ciò non significa che anche il NO nei confronti del VO a suo tempo ha rappresentato una rottura? E perchè il VO rappresenterebbe una rottura nell’attuale liturgia, mentre il rito ambrosiano o quelli orientali, etc. no?
Lei esordisce come un visitatore di un museo. Non è un fanatico di questo, ma neppure di quello…Ma come si fa a dire così del linguaggio primario con cui siamo nutriti nella fede? Ora, nella storia della Chiesa ci sono “riforme”. Le riforme non sono rotture, ma introducono novità, nuove lingue, nuovi gesti, nuovi segni, nuovi testi, nuovi ministeri. E questo coinvolge in radice tutta la Chiesa. Se, dopo 50 anni, si riesuma la forma vecchia del medesimo rito romano, si può farlo per un motivo eccezionale, come recuperare la rottura di uno scisma. Ma se questo non va e la pacificazione non si effettua, quel gesto diventa sì una rottura perché apre un dissidio tra chi segue la riforma e chi è autorizzato a non seguirla. Nessuna istituzione può reggere a lungo in una tale situazione. Gli esempi degli altri riti non sono pertinenti, perché, appunto, sono tradizioni latine non romane o tradizioni cattoliche non latine. Ma la tradizione latina romana può avere, nella stessa unità di tempo, un solo rito vigente. Altrimenti si perde l’unità.