Lo strano caso del signor Viganò. Che cosa deve dire ancora per essere formalmente censurato?


sanpietro02

Se un Vescovo dicesse un centesimo delle cose che Mons. Viganò squaderna in sovrabbondanza (qui), aiutato dalle domande tendenziose del suo intervistatore portoghese, avrebbe immediatamente conseguenze di carattere disciplinare e dottrinale. Questo non perché nella chiesa non vi sia libertà di parola, ma perché nella Chiesa non vi è libertà di insulto, non vi è libertà di calunnia, non vi è libertà di diffamazione, non vi è libertà di truffa. Nella Chiesa un Arcivescovo non può insultare personalmente un altro cristiano, magari ironizzando sul suo nome, senza subire le conseguenze di una intemperanza che è scandalosamente in contraddizione con ciò che dovrebbe essere e rappresentare. Le parole irripetibili con cui un Arcivescovo parla della Chiesa, del papa, dei teologi, della pastorale, della preghiera, del Concilio Vaticano II, della inculturazione, della storia e della cultura contemporanea costituiscono ormai una questione che tocca la struttura del dibattito interno alla Chiesa.

Non è inopportuno che anche un pastore possa permettersi una certa libertà nei giudizi. Guai a non pretendere da tutti una sana parrhesia. Quello che i teologi fanno per mestiere, i pastori possono farlo per opportunità o per urgenza. Ma ci sono limiti oltre ai quali, sia un teologo, sia un pastore, si colloca obiettivamente al di fuori della comunione ecclesiale. E se non si reagisce, se non si dice nulla, se si lascia correre, se si alzano le spalle, se la si butta sul personale o sul particolare, non si rende un servizio alla affidabilità del discorso comune e condiviso, nella Chiesa.

Come non è possibile tollerare ulteriormente che l’unica Chiesa possa avere “due forme rituali” dello stesso rito, così non è possibile tollerare che un Arcivescovo possa negare ogni preziosa elaborazione conciliare – sulla liturgia, sulla Chiesa, sulla Parola di Dio e sull’esercizio della autorità, sulla ministerialità, sul sacerdozio comune, sul ruolo della donna – senza essere richiamato formalmente all’alveo comune di coscienza e di espressione ecclesiale.

Vorrei anche aggiungere: questi sono i frutti delle forzature che, dopo Summorum Pontificum, si sono tentate – vanamente – nel dialogo ad oltranza con i lefebvriani. Cercare di “addolcire”, di “annacquare”, di “selezionare” nei documenti del Concilio ciò che vincola tutti e ciò che vincola solo gli “appassionati”, per arrivare a un “protocollo di intesa” è una operazione che massacra la tradizione comune. E in quelle trattative non era facile capire da che parte della tavola stessero seduti gli uomini più pericolosi per il cammino comune voluto dal Concilio Vaticano II. E comunque, quella urgenza di “pace” con svendita dei gioielli di casa ha avuto come risultato, nei nostri giorni, ufficiali di curia che lavorano per anni su cammini paralleli e contraddittori rispetto alla Riforma Liturgica e Arcivescovi in apparente comunione con Roma, che dicono cose talmente gravi rispetto alle quali Marcel Lefebvre sembra un severo, ma rispettoso padre conciliare. Il chiarimento formale delle acquisizioni comuni che dobbiamo al Concilio Vaticano II esige che si esca dal doppio stato di eccezione, per cui come si può celebrare con riti che contestano la Riforma, si può anche essere Arcivescovi pretendendo di imporre alla Chiesa del 2020 un linguaggio degno della Chiesa del 1907, come se la delazione antimodernista fosse l’orizzonte del futuro. Il tempo non scorre al contrario. Né liturgicamente, né pastoralmente, né dottrinalmente. Solo al cinema, questo può accadere. Lo “strano caso del Signor Benjamin Button” non si ripete sulla scena ecclesiale. Su questo caso paradossale il silenzio delle istituzioni preposte alla garanzia del discorso comune sembra quanto meno inopportuno. Non vorrei che l’assuefazione alle “doppie forme” e ai “dialoghi al ribasso” avesse fatto rubricare anche i discorsi gravissimi di Mons. Viganò come “legittime espressioni della Chiesa di sempre”. Se così fosse dovremmo chiederci: Quis custodiet ipsos custodes?

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