“Ma forse un Dio”: riconciliazione e pace nel “vangelo” secondo Cavanna


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L’ultimo romanzo di Alberto Cavanna, “Ma forse un Dio”, editore Cairo, in uscita in questi giorni, dice una parola forte e bella sui nostri tempi e sulla nostra storia comune. Costruito secondo la forma classica delle “vite parallele” che si incontrano e si scontrano, il testo osa prendere come protagonisti un giovane contadino e soldato fascista, Ettore, e una gentile ragazza ebrea, Anna. Tutta la prima parte del romanzo descrive l’esperienza del giovane fascista, che si arruola nella X Mas a La Spezia e, in parallelo, la storia della ragazza ebrea, costretta a vivere il drammatico progresso di discriminazione nell’Italia fascista. Fino alla guerra, fino all’abisso vissuto da entrambi i protagonisti, che portano in sé il segreto di una colpa inconfessabile: per Ettore, come capiremo solo nelle ultime pagine, la responsabilità di una strage di civili; per Anna, la responsabilità di essere sopravvissuta al Lager, dove sono morti il padre e la madre. Entrambi, pur travolti dalla barbarie della guerra, anche se ricattati fino in fondo nella loro identità più intima, si incontrano proprio nel punto più alto: ciascuno dei due salva la vita all’altro. Ognuno, in fondo al proprio peccato, sa essere redentore. Prima lui per lei, e poi lei per lui. Ma finché non sono capaci di raccontare, a se stessi e all’altro, la loro storia, non riescono a vivere. Il dono della vita offerta all’altro – quando risale alla coscienza e può farsi parola – sblocca la loro identità, non la fissa sul punto disumano, invivibile, della loro esperienza. Ognuno può raccontare il proprio dramma all’altro, senza timore di essere giudicato in astratto, per slogan, secondo logiche generali, che non tengono conto della vita di ogni singolo.

Così apprendiamo, con commozione, che cosa è accaduto davvero, in loro e di loro: fino alle ultime pagine il romanzo è costruito come una serie di scene che seguono la vita dei protagonisti all’interno dei loro ambienti: quello contadino di Ettore e quello artigianale di Anna, con genitori, fratelli, amici, primi amori. Su ogni pagina si mescolano registri diversi, sapientemente orchestrati dalla penna di Cavanna. Tradizione fascista e tradizione ebraica si intrecciano, si scontrano, si oppongono duramente: ma non impediscono ad Ettore e ad Anna, pur nello scandalo generale, di avvicinarsi, di comprendersi, di riconoscersi, di amarsi. Senza nessuno sconto verso i crimini di cui fu responsabile la ideologia fascista, e con la crudezza di descrizioni accurate delle discriminazioni e delle ingiustizie patite dai cittadini italiani appartenenti al popolo ebraico, il romanzo sa entrare, potremmo dire quasi in punta di piedi, nel dramma personale di ogni uomo e di ogni donna, travolti dalla perdita di dignità che ogni guerra impone, irrimediabilmente, a tutti. Il ricatto che ognuno dei due ha subìto è arrivato a stravolgere profondamente il rapporto che ciascuno aveva con se stesso. Per Ettore si è trattato della “prova” disumana di dover scegliere tra la vita dell’amico, che lo implorava, e la vita di uomini, donne, bambini sconosciuti, su cui decise di scaricare tutti i colpi del suo mitragliatore. La minaccia della uccisione dell’amico e la richiesta di “salvezza”, che lo ha indotto alla barbara uccisione di decine di innocenti, è l’abisso di morte e di ingiustizia da cui è difficile risalire. Si diventa strumenti del male e si può perdere ogni umanità, definitivamente. Ma una sorte simile minaccia anche Anna. La vittima appare così simile alla carnefice. Certo non nella responsabilità. Ma nella percezione di sé e della “indifferenza all’altro” che il male impone drammaticamente anche a lei. Anna ha salvato la propria vita prima nella distorsione sessuale di una “casa di piacere” interna al Lager, poi come infermiera nell’“ospedale del campo”, in cui i medici facevano esperimenti disumani sui poveri internati. La imposizione della prostituzione e poi della assistenza alle sevizie mediche hanno segnato in profondità l’animo di lei. Ognuno dei due aveva scelto. Ma poi non ha avuto scelta. E così ha avuto bisogno di chi lo guardasse non partendo dai “fatti”, ma da questa profonda e misteriosa contraddizione dell’anima, inguaribile senza un altro disposto a sintonizzarsi con te e a “morire per te”.

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Questo infinito abisso di mistero personale, correlato alla storia drammatica di popoli, alle identità civili e politiche, alle lotte per la dignità e all’imbarbarimento ideologico, viene narrato con grande maestria di registri e di toni. Provo a dare solo una idea di questa strategia del racconto:

  1. Cavanna ha sempre avuto, ben chiara, una relazione con il “dialetto” come fonte di profondità e di ironia narrativa. Anche in questo romanzo la lingua italiana, carica talora di terminologie specifiche della ideologia politica, della sapienza marinaresca o della ispirazione ebraica, si alterna a gustosissime battute in dialetto emiliano o spezzino, che alleggeriscono e approfondiscono i dialoghi e il racconto;
  2. Altrettanto chiara è la “vocazione storica” della sua scrittura: anche in questo romanzo, come era stato già nel Bacicio du Tin, o nel grande libro su Napoleone, la ricostruzione del contesto storico in cui si svolge la vicenda dei due protagonisti – dagli anni 10 agli anni 40 del 900 – è infarcita di particolari gustosi, di eventi esemplari, tanto a livello locale quanto a livello generale.
  3. Il recupero del vissuto di Anna e di Ettore delinea anche una via alla speranza: una vera riconciliazione è possibile quando ci si fa carico, integralmente, della vita dell’altro. La indegnità dei soggetti non è mai definitiva. Le ideologie debbono essere condannate con assoluta determinazione, ma le persone possono e debbono essere riconciliate: solo la pace restituisce ad ognuno il proprio profilo più vero. Una pace di cui non si gode, ma per cui si lotta.

Questi tre livelli del romanzo, che continuamente si sovrappongono e si illuminano a vicenda, lo rendono voce autorevole anche all’interno del dibattito attuale sulla identità civile e politica in Italia. La nostra storia è piena di “migrazioni” e di “accoglienze”. Chi avrà letto il romanzo, direi quasi trasversalmente rispetto alla propria identità, comprenderà fino in fondo le dinamiche disumane che ogni guerra introduce nella esperienza, fino a distorcere ogni vita. Ma una difficile riconciliazione non è impossibile. Purché nessuno dimentichi che siamo tutti discendenti di migranti spaventati, bisognosi di accoglienza, vittime della violenza, della malvagità e della indifferenza. Questo romanzo farà bene alla nostra gente, anche alla più smarrita e sradicata, perché darà voce a quella parte della nostra memoria che non di rado segretiamo e oscuriamo per timore, ma che possiamo ascoltare con fiducia e confidenza solo per amore.

 

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