Magistero, teologia e la donna nello spazio ecclesiale. Discussione sul diaconato femminile
“La donna vista come unica e sempre uguale…in fondo non esiste”
(K. Rahner)
Le parole dialogiche intrecciate con alcuni interlocutori sul tema “donna e ministero della Chiesa” hanno fatto emergere questioni sulle quali posso presentare un resoconto, forse utile per il dibattito comune. Mi riferisco ad alcune obiezioni, venute da diversi interlocutori attenti, cui cerco di rispondere con buone argomentazioni, almeno con le migliori che riesco a formulare.
1. Premessa storica e sistematica
Una prima riserva che mi è stata rivolta mi rimprovera una “metodologia teologica problematica circa l’influsso della Modernità nella interpretazione del Vangelo”. Questa valutazione a me pare discendere da una impostazione che impedisce di comprendere la questione della “autorità femminile” e dalla quale dipende, in sostanza, la mia difficoltà centrale nei confronti di una interpretazione estensiva di Ordinatio sacerdotalis. Un documento può legittimamente intendersi come definitivo. Ma ciò che è in gioco, a mio avviso, non è solo la “assistenza divina” assicurata al Magistero, su cui non vi è dubbio, ma anche la assistenza divina che si manifesta nel ruolo della donna nella cultura, nella società e nella Chiesa, che è radicalmente cambiato da quando abbiamo dismesso gli abiti mentali che hanno segnato la cultura comune – cristiana e non cristiana – dalle origini antiche fino al XIX secolo. Qualora non si riconosca questa novità – che Giovanni XXIII aveva già visto con acume 56 anni fa nella Enciclica Pacem in terris – non si riesce ad affrontare realmente il problema del “riconoscimento della autorità femminile nella Chiesa”. La tarda-modernità muta i termini della questione, senza essere sopravvalutata. Rispondere a questa sfida ripetendo gli schemi antichi, scolastico-medievali e moderno-tridentini, è un modo non adeguato di rispondere con risposte vecchie a domande nuove, e che può convincere solo chi non prende sul serio la questione. Occorre elaborare altri schemi, su cui la teologia è professionalmente chiamata a lavorare e a fare la sua parte. Sono schemi e ipotesi che partono da una nuova evidenza: ossia la parità di autorità di maschio e femmina nella famiglia, nella società e nella Chiesa. Ciò è il frutto del lento sviluppo degli ultimi 200 anni. Il che non significa affatto negare la differenza tra uomo e donna, omologare le diversità, appiattire le cose, ma impone di pensare la differenza con schemi nuovi e più adeguati, che non “privatizzino” la donna e non le attribuiscano sul piano pubblico una strutturale irrilevanza o “deminutio capitis”. Cavarsela con un riferimento al principio mariano e al principio petrino – come nuovi criteri di giustificazione della mancanza di autorità riservata alla donna – non porta ad altro che a riverniciare con una pittura brillante i vecchi mobili di casa, che non funzionano più. In questo senso, con tutta la comprensione per le preoccupazioni del magistero, la teologia ha il compito di segnalare, con modestia, ma anche con audacia, il circolo vizioso delle argomentazioni classiche. Se, come si dice in Donum veritatis “l’insegnamento del Magistero – grazie all’assistenza divina – vale al di là della argomentazione” – e questo è vero e và difeso dalla tentazione di ridurre il Magistero alle sue argomentazioni – ciò nondimeno quando il Magistero rinuncia del tutto alle argomentazioni, senza perdere per questo alcuna autorità, come avviene nel caso di Ordinatio sacerdotalis, deve essere accuratamente delimitato a ciò di cui il documento si occupa – ossia la “ordinazione sacerdotale” – e così apre inevitabilmente fronti di riflessione che devono essere considerati e riconosciuti, e che non possono risolversi semplicemente nella autorevolezza di un pronunciamento che si assume e si riconosce come definitivo. Dice infatti, S. Tommaso d’Aquino, nel Commentario alle Sentenze, “Se noi risolviamo i problemi della fede col metodo della sola autorità, possediamo certamente la verità, ma in una testa vuota”.
A ciò va aggiunta una seconda avvertenza, che prendo da Romano Guardini, in particolare da un suo scritto giovanile che risulta della massima importanza per affrontare la nostra questione. Si tratta di Ueber die systematische Methode in der Liturgiewissenschaft, “Jahrbuch fuer Liturgiewissenschaft”, 1(1921), 97-108, testo in cui Guardini formula una importantissima distinzione tra “scienza storica” e “scienza sistematica”. Egli opera tale differenziazione per meglio comprendere la liturgia, ma si tratta di un insegnamento prezioso per l’intero campo della teologia. Egli dice: la storia ci dice ciò che è stato, ma solo la sistematica può dirci ciò che deve essere. Anche per il nostro tema, possiamo attingere dalla storia un grande patrimonio di prassi, di decisioni e di parole, ma ciò che la Chiesa può e deve fare nel presente e nel futuro non si riduce a ripetere il passato. I “segni dei tempi” – tra cui il nuovo profilo autorevole e pubblico della donna – possono e debbono suggerire nuove strade e nuove acquisizioni, purché accettiamo che questi “segni” abbiano qualcosa da insegnarci, e che non siamo immuni da una visione ancora limitata della donna e della storia. Con gradualità e con senso del limite, queste possibilità vanno esplorate con coraggio, non giudicate incompatibili con una identità dedotta solo dal passato. In questa direzione, nella riflessione sul ministero diaconale femminile, mi sembra si muova anche, assai di recente, il testo di Giancarlo Pani, La donna e il diaconato, “La Civiltà Cattolica”, 3999/2017, 209-221.
2. La questione del Magistero nel post-concilio
Sulla base di quanto premesso, io non dico affatto che il Magistero non possa assumere una posizione irreformabile: questo fa parte della concezione cattolica che non intendo affatto negare. Nemmeno affermo che non possa mai farlo, come se ciò fosse una regola generale del Magistero. Dico invece che nel caso specifico la forma particolare – una dichiarazione di “assenza di autorità” – riguarda esclusivamente la ordinazione sacerdotale e non vincola in alcun modo circa la ipotesi di ordinazione diaconale della donna. Anche le importanti espressioni di Veritatis gaudium di papa Francesco, sulla capacità del Magistero di dialogare e di “imparare” dalla cultura e di disporsi ad una “rivoluzione culturale”, non può certo essere utilizzata per “negare al Magistero il potere di definire una dottrina”, né io l’ho mai intesa in questo senso, ma piuttosto è volta a mostrare la debolezza di posizioni che, affermando una “assenza di potere”, semplicemente perpetuano relazioni, comprensioni e correlazioni che ormai risultano distorte e inadeguate. Ho citato papa Francesco per recuperare l’orizzonte conciliare che comprende la relazione “originaria” tra Vangelo ed esperienza. Se invece si pensa di risolvere la “questione della autorità femminile” semplicemente in un rimando al passato, all’interno di una semplice “assenza di competenza sulla materia”, si finisce facilmente per imboccare un vicolo cieco. Tale vicolo cieco, attraverso una dichiarazione di “incompetenza”, in realtà mantiene tutte le “competenza classiche”, senza metterle in discussione. Di fatto, assolutizza una dichiarazione che è stata formulata solo nel XX secolo, e che si basa su una “prassi pacifica” fino allora – quella della esclusione della donna da ogni ordinazione – ma che rimane condizionata strutturalmente da una comprensione culturale ed ecclesiale inadeguata della donna. In questo senso ho parlato, in altri testi, di “dispositivo Ratzinger”, come di un meccanismo che negli ultimi 30 anni ha frustrato stabilmente ogni possibile riforma della Chiesa. Non vi è pertanto nessun “abuso” da parte mia, nel citare le parole di papa Francesco: lo faccio non per negare competenze possibili e necessarie del Magistero, ma per ricondurne l’azione al suo orizzonte più proprio, che non di rado può risultare dimenticato.
3. Le singole domande
Secondo alcuni, nei miei testi sul ministero femminile io “non offrirei argomenti nuovi”. Debbo precisare che questo è del tutto ovvio, perché è buona regola quella secondo cui sta a chi “nega” l’autorità femminile proporre argomenti convincenti, non a chi la afferma. Io penso che la donna non abbia alcun “impedimento” ad assumere autorità ecclesiale a livello di diaconato. Sta a chi la nega offrire impedimenti argomentati e solidi e non solo “precedenti”. Tuttavia da questa obiezione scaturiscono altre discussioni, che brevemente riprendo qui sotto:
a) Gli elementi che qualificano un sacramento sono frutto di una istituzione originaria e di una lunga elaborazione ecclesiale. Perché mai io dovrei sostenere che i sacramenti non sono né più né meno di 7? Non discuto né la affermazione tridentina, né la sua attualità oggi. La logica di Lutero, tuttavia, è stata recepita anche dai Padri tridentini, perché anch’essi, come Lutero, anche se in modo diverso da lui, hanno voluto distinguere tra sacramenta maiora e tutti gli altri. Questa distinzione, senza la quale c’è anatema, ci rende liberi di un discernimento storico lungimirante. Ieri come oggi. E se i padri tridentini hanno usato la argomentazione sulla “sostanza del sacramento” per poter salvaguardare una prassi di “comunione sotto una solo specie”, che si differenziava dal comando esplicito e verbale del Signore – che parla di due specie e non di una sola – perché mai noi dovremmo far rientrare nella “sostanza del sacramento” il sesso maschile, se su questo il Signore non ha detto nulla? Di ciò che ha detto, assumiamo una versione riduttiva, mentre di ciò che ha fatto assumiamo una versione tassativa. Perché le sue parole su due specie si riducono ad una, mentre la sua azione con un solo genere non può estendersi anche all’altro? Perché mai questo potrebbe impedirci di arrivare ad ordinare donne al grado del diaconato, non essendovi su ciò alcuna parola esplicita di divieto? Qui mi pare che la fragilità di comprensione della tradizione sacramentale non sia la mia, ma quella che presume di aver risolto tutte le questioni sulla base di un pregiudizio, mentre in tal modo contribuisce solo a complicarli, perché non li affronta e pretende che nessuno ne parli. Questo può accadere in un luogo senza libertà, mentre la Chiesa è luogo in cui lo Spirito continua a soffiare.
b) Certamente lo sviluppo liturgico e rituale fa parte della intelligenza ecclesiale e anche della dottrina. Tale sviluppo è avvenuto fino al XIX secolo in un contesto che non conosceva pienamente la libertà del soggetto, né il pieno rispetto della coscienza del singolo, soprattutto se di sesso femminile. Queste novità, che abbiamo imparato a chiamare “partecipazione attiva” solo dopo il Concilio Vaticano II, cambiano profondamente la concezione del rito e le forme della partecipazione. E non escludono affatto che anche la donna possa “servire all’altare”, “proclamare la parola”, “distribuire la comunione”, “presiedere la preghiera comune”. Tutto questo prima era quasi inconcepibile e oggi può essere acquisito come tradizione e dottrina ecclesiale. Per farlo occorre riconoscere, con la dovuta gradualità, che è possibile una integrazione della donna all’interno del ministero ordinato. La “mediazione di Cristo” non è riservata soltanto ad un sesso. E la “esperienza creaturale originaria” non corrisponde mai ad un assetto dei rapporti di potere/servizio tra uomini e donne. In tal modo si userebbe la S. Scrittura per confermare lo status quo dell’ordine pubblico, sociale, antropologico ed ecclesiale di un’epoca limitata e diversa dal compimento escatologico. E diversa anche dalla nostra.
c) In un terzo punto alcune affermazioni da me ascoltate nel dibattito mostrano di fraintendere gravemente non quanto ho scritto io, ma quanto si è sviluppato sul piano liturgico ed ecclesiale dopo il Concilio Vaticano II. Ne è una chiara spia il modo con cui viene formulata una domanda retorica che qui riporto: “dovrebbe ad esempio la Chiesa ripensare chi sia il ministro della celebrazione eucaristica, dato il ruolo nuovo dei laici promosso dal Concilio Vaticano II?”. Proprio questo è un punto qualificante del Concilio Vaticano II, che a me pare sia pesantemente frainteso nella discussione. Il Concilio e la Riforma liturgica che ne è seguita ha chiesto esattamente questo: ripensare la definizione del “ministro”. Ogni eucaristia, dopo la riforma liturgica, ha almeno “tre ministri”, perché ha tre libri. Vi è una Presidenza, vi è un ministero della Parola e vi è un ministero del canto. Ciò che la tradizione ha riscoperto, negli ultimi 60 anni è che la nostra definizione “stretta” di ministero, che identifica l’unico ministro con il Presidente, ha impoverito la tradizione e ha determinato una grave deriva clericale. Così come una “ospitalità eucaristica” non può mai essere smentita dalla natura “iniziatica” della Eucaristia. Il gesto simbolico con cui papa Francesco, proprio nella Messa in Coena Domini, ossia nel cuore della intimità iniziatica, ha introdotto la abitudine di “fare comunione” con non cristiani, condannati al carcere e per di più anche con donne, è una profezia di senso irriducibile alle sempre possibili chiusure di ogni rito su se stesso e sulle proprie meticolose rubriche da farmacisti.
d) Circa il Magistero implicato in Ordinatio sacerdotalis, trovo “surreale” – utilizzando la curiosa terminologia impiegata da alcune osservazioni dei lettori – che mi si attribuisca ciò che non ho mai affermato. Io non dico, e lo ripeto, che Ordinatio sacerdotalis affermi che la ordinazione femminile sarà sempre una possibilità aperta per la Chiesa. Affermo invece che Ordinatio sacerdotalis esprime, con un alto grado di autorevolezza, la assenza di potere della Chiesa nella possibilità di ordinazione sacerdotale di soggetti femminili. Il che non esclude in nessun modo, e per principio, la possibilità di ordinazione diaconale di soggetti femminili, e dunque un loro accesso, per quanto parziale, al ministero ordinato. Essendo un documento che esclude una fattispecie – la ordinazione sacerdotale, appunto – di esso non è ammessa alcuna interpretazione analogica, estensiva dell’oggetto del divieto, secondo un principio di diritto comune. La mancanza di potere della Chiesa riguarda, nella Dichiarazione, esclusivamente la “ordinazione sacerdotale”, non la “ordinazione al diaconato”.
Anche in presenza di una legge canonica diversa – che parla appunto in generale di “ordinazione” di cui sarebbe “sostanza” il senso maschile (cjc 1025, §1) – sarà la legge a cambiare, non la interpretazione di Ordinatio Sacerdotalis. Ciò dipenderà da una inclusione o esclusione del “sesso maschile” rispetto alla sostanza del grado più basso del sacramento dell’ordine. Cosa su cui la Chiesa potrebbe riconoscere di non avere radicalmente potere se vi fosse una parola esplicita del Signore che lo impedisse. Così come accade, ad es., per il matrimonio, su cui la “assenza di potere” sulla scioglimento dipende da una parola esplicita e inaggirabile del Signore. Ma in assenza di una tale parola, che non può essere sostituita da azioni compiute dal Signore, la determinazione non avviene anzitutto mediante un giudizio storico, che avrebbe in questo caso un oggetto indefinito, ma attraverso un giudizio sistematico, che non può mai essere risolto soltanto con riferimento ai “precedenti”. D’altra parte di tratta certo di una “prassi risalente”, ma che è diventata proposizione esplicita e giuridica solo nel XX secolo. La determinazione del “sesso maschile” come parte della “sostanza del sacramento” è quindi definizione ecclesiale positiva, che si può definire canonicamente “diritto divino positivo” solo con un uso molto spregiudicato – e direi anche poco responsabile – delle categorie giuridiche che vengono messe in campo. Sulla base di queste categorie imprecise non è possibile escludere la ordinazione diaconale femminile sulla base di Ordinatio Sacerdotalis. Anzi, una ostinata persistenza in questa lettura “estensiva”, proposta soprattutto da alcuni canonisti, potrebbe rischiare di confondere una “posizione ufficiale” con una “invincibile misoginia clericale”.
La ratio di questa “apertura al diaconato” non sta dunque in una contestazione della “autorità del Magistero”, ma piuttosto nella rigorosa obbedienza al suo dettato, unita ad una riflessione sulla natura stessa del tema su cui il Magistero si pronuncia: infatti la “autorità femminile” non è soltanto un “dato creaturale e naturale”, che sarebbe a disposizione di una comprensione diretta e dottrinale, ma è un “dato storico e spirituale” che non può essere compreso una volta per tutte, neppure dal Magistero della Chiesa. Il quale resta al servizio della libertà con cui lo Spirito Santo guida la storia: esso parla con “segni” che devono essere sempre giudicati con discernimento e cautela, non pregiudicati con diffidenza e timore. Leggere “in Cristo” il maschile e il femminile significa riconoscere una differenza, ma non farla dipendere dal pregiudizio umano, dalle convenzioni sociali, o dalle diverse culture, ma solo dal giudizio di Dio a da ciò che lo Spirito mostra, sorprendentemente, lungo la storia aperta del rapporto tra Dio, uomo e donna. Questo è un giudizio capace di sorprendere e che non si preoccupa di predeterminare le identità prima che la storia le faccia fiorire del tutto, cosa che, appunto, non è anticipabile in nessun caso da una dottrina rigida, con cui il Magistero ha avuto sempre la sapienza di non identificarsi.
4. Brevi conclusioni
Non vi è dubbio che il punto su cui i miei interlocutori hanno avvertito maggiori difficoltà risulta il rapporto tra Vangelo e esperienza. In sostanza essi riconducono anche la esperienza degli uomini “alla sua profondità originaria, secondo il piano del Creatore”, e la predeterminano in un quadro statico: in tal modo non si espongono ad alcun “segno dei tempi”, ma sanno già il contenuto della esperienza, prima ancora di incontrarla. Per loro i “segni dei tempi” sono solo un’altra occasione con cui la Chiesa esplica la sua funzione docente: non riconoscono di avere nulla da imparare. Questa lettura semplicistica dei “segni dei tempi” rivela la pretesa che sta dietro alla negazione di ogni autorità alla donna: poter ricondurre il fenomeno di trasformazione “tardo moderna” della identità femminile ai pregiudizi che la storia ha proiettato sul “defectus eminentiae gradus” del sesso femminile. In tal modo, io credo, restando in questa logica della autosufficienza maschile, non si rende un servizio alla Chiesa. La tensione tra Vangelo ed esperienza non è riducibile ad un accordo previo, già disponibile in una dottrina teologica immutabile, ma deve essere onorata fino in fondo, in tutta la sua “meravigliosa complicatezza”, nel corso della storia, accettando che vi siano “segni” da cui imparare e che prima erano sconosciuti. Questo è un compito del magistero e della teologia, in dialogo e senza censure. La nuova figura di autorità che la donna ha assunto gradualmente negli ultimi 200 anni, nella cultura comune di gran parte del mondo e anche parzialmente all’interno della Chiesa, attende un riconoscimento ecclesiale cattolico che la integri nel ministero ordinato. Ciò dovrà avvenire all’interno del quadro, nei limiti in cui lo consente, ma senza reticenze, ambiguità o ipocrisie. Soprattutto senza usare la storia come uno schermo, su cui proiettare tutte le proprie paure, o come un rifugio o come un via di fuga dal reale.
L’autorità delle donne, assunta come “segno dei tempi” è luogo di espressione dello Spirito, che la Chiesa deve imparare a riconoscere. Se essa pretendesse di farne a meno, spostando addirittura su Dio tale deliberazione, si priverebbe di un organo fondamentale e cadrebbe in una condizione di minorità. Uscire dallo stato di minorità diventa, per il futuro, un compito inaggirabile: uscire dallo stato di minorità ecclesiale, dovuto al mantenimento della donna in condizione di minorità nella Chiesa. Ognuno deve svolgere tale compito nei limiti delle proprie responsabilità: da un lato il magistero dei pastori, dall’altro il magistero dei teologi. Ciascuno con le sue competenze e senza alcuna possibilità che l’uno possa fare a meno dell’altro o – e sarebbe molto peggio – che l’uno pretenda di ridurre l’altro al silenzio.
Resta, alla fine, un rapporto molto serio, ma anche molto sereno, con il riconoscimento di una “auctoritas” di cui la Chiesa ha bisogno. E che non può essere risolta sulla base di stereotipi del femminile che la storia ha faticosamente superato. Perché dobbiamo ammettere, con le parole sapienti di K. Rahner, che “la donna vista come unica e sempre uguale…in fondo non esiste”. Se questo è vero, molte cose potranno e dovranno cambiare. Non per disattendere il Vangelo, ma per comprenderlo meglio.