Maschilità, autorità e kenosi: la libertà di Cristo e la libertà della donna
A partire dal dialogo tra M. Nardello e me, che ha visto poi gli interventi di M. Imperatori, L. Castiglioni e S. Zorzi (sia su questo blog sia sulla rivista “SettimanaNews”) è emersa, con una certa forza, la esigenza di un chiarimento della “mascolinità di Gesù”, che sembra un passaggio obbligato per ogni fondazione sistematica della “riserva maschile”. In altri termini, si tratta di chiarire bene due punti, che la discussione degli ultimi decenni ha posto in primo piano:
a) Quale valore abbia per Gesù e per il Figlio di Dio il fattᴏ di essere di sesso maschile;
b) Quale correlazione possa o debba esservi tra il sesso del Signore e il sesso del suo ministro.
Vorrei fare alcune osservazioni generali sia su questi due punti (nella loro diversità) sia sul fatto che la attenzione della teologia si sia soffermata proprio su questo.
Il tema è inesistente nelle tradizioni antiche, medievali e moderne. Tutti ammettono, con una certa pacifica coscienza, che nessuno ha mai dubitato della mascolinità di Gesù. Ma altrettanto dovremmo ammettere che il “sesso maschile” era visto, storicamente, come “genere maschile”. Questo ha introdotto, indirettamente, nella argomentazione teologica, un argomento spurio e per certi versi contraddittorio. Il “sesso maschile” è stato letto, per molti secoli, come “garanzia di autorità pubblica”. Questo ha segnato pesantemente la considerazione, per differenza, del sesso femminile, come “privo di autorità pubblica”. Potremmo dire che per molti secoli il tema è rimasto scontato e quando è stato fatto oggetto di riflessione, si è assestato secondo le evidenze “androcentriche” che la teologia condivideva con il resto della cultura. Del sesso maschile si parlava a proposito del ministro, non del Signore: era una condizione perché la autorità del Capo potesse essere mediata nel corpo della Chiesa.
Una rilettura della “mascolinità di Gesù” nasce quando, essendo diventati inservibili tutti gli argomenti classici con cui si era giustificata la riserva maschile, si cerca di proporre, sul piano sistematico, una rilettura del fondamento cristologico di questa “riserva”. Se la si fonda in Cristo stesso, come nessuno aveva mai pensato di fare prima del XX secolo, allora si sta in una botte di ferro. In un certo senso, la soluzione “riservata” è anticipata sul problema. In questo modo la operazione viene proposta (da Von Balthasar e da Imperatori, con richiami in Castiglioni) con la teoria di una “maschilità kenotica”. Il riferimento al maschile viene così sottratto alla “cultura comune” e risignificato dal punto di vista della interpretazione che ne ha dato Gesù, intendendolo come abbassamento, come un dare la vita per l’altro, come un assumere la condizione di “servo”. Questa operazione sistematica inverte i poli della questione: fa discendere la “riserva maschile” dalla mascolinità kenotica di Cristo, e così mira ad ottenere la conferma della esclusione della donna, mediante un abbassamento, piuttosto che un innalzamento del maschile rispetto al femminile. Qui, tuttavia, a me pare evidente come la operazione maturi nell’ambito di un contesto in cui la teologia fa e disfa le proprie categorie, nella presunta autonomia dalla cultura comune. Una risignificazione del maschile, che non riesca però ad uscire da una “differenza di potere” (non importa se come autorità o come kenosi) lascia comunque il femminile in una zona residuale. Come ha scritto bene Castiglioni: la mascolinità di Cristo è kenotica, ma la kenosi perché mai dovrebbe essere solo maschile?
Mediante questo capovolgimento, tuttavia, la questione del ministero resta piuttosto vaga. Anche quando noi avessimo cambiato lettura della mascolinità di Gesù e avessimo pienamente acquisito la lettura “kenotica” e non “androcentrica” del suo essere maschio, in che modo potremmo o dovremmo trasferire sul suo “ministro” la stessa logica? Se le due grandi linee della esclusione del femminile elaborate dalla scolastica (la donna non ha autorità in pubblico, la donna non può rappresentare il Signore) non sono più convincenti, e al loro posto si sostituisce una riflessione sulla “maschilità kenotica” di Gesù, in che modo potremo evitare di dare ad intendere che, pur di non riconoscere il “segno dei tempi” della donna nello spazio pubblico, possiamo totalmente “teologizzare la questione” e cavarcela così, continuando esattamente con la medesima “riserva” (e medesima esclusione) di prima? La esitazione che anche i più strenui difensori di una lettura “kenotica” manifestano sul piano delle conseguenze ministeriali mi pare il segnale della insufficienza di una lettura “sistematica” completamente introversa. Occorre, in altri termini, coniugare, con la maschilità kenotica del Signore, la autorevolezza della donna in ambito pubblico. Alla libertà del Signore, che interpreta in modo nuovo l’essere maschio, corrisponde la libertà della donna, quando esce dai ruoli predeterminati che non la rivelazione, ma la cultura le aveva predisposto, spesso con la benedizione anche della più alta teologia. Il compito di una teologia sistematica è di coniugare la libertà di Cristo con la libertà della donna.